"Free Ebrei", VII, 2, novembre 2018 Una teoria della giustizia (sionista)? Intorno a un saggio di Chaim Gans Abstract Fulvio Miceli discusses the controversial essay by Chaim Gans on the compatibility between Zionism and Liberalism, according to Kantian Rawls' theory of justice. Il libro del filosofo politico israeliano Chaim Gans[1] affronta la questione del sionismo dal punto di vista delle contemporanee teorie della giustizia liberali egualitarie di ispirazione rawlsiana, chiedendosi se esso sia, almeno in una sua possibile interpretazione, compatibile con esse e con i valori umanistici che le informano. Le critiche e le accuse di perdurante ingiustizia storica rivolte al sionismo da autori appartenenti alla corrente intellettuale e accademica del cosiddetto post-sionismo sono spesso ispirate a un analogo quadro teorico e valoriale e Gans non nasconde di condividerle, al punto collocare Israele, nei termini della classificazione rawlsiana della società secondo la misura della loro aderenza ai principi etici liberali, non solo al di fuori del gruppo delle società giuste, ma anche di quello più ampio delle società “decenti”, impegnate a garantire diritti fondamentali eguali a tutti i loro membri. La risposta di Gans al quesito circa la compatibilità tra sionismo e liberalismo egualitario è tuttavia positiva, posto che delle diverse possibili interpretazione della “narrativa” e dell’ideologia sionista sia quella da lui definita “sionismo egualitario” a prevalere e che di essa si accettino e si realizzino le conseguenze politiche, che consisterebbero sostanzialmente nella nascita di uno Stato arabo palestinese, nel ritorno di Israele entro i confini armistiziali del 1949 e nella concessione alla minoranza araba interna a tali confini di non meglio precisati diritti collettivi di autogoverno, pur nel quadro di un’egemonia ebraica assicurata da una più o meno stabile maggioranza numerica ed escludendo la soluzione dello Stato unico binazionale. Tale preferenza per la soluzione a due stati non è per altro fondata da Gans su motivazioni di principio, ma su considerazioni pragmatiche relative alla situazione di sfiducia divisione tra le parti coinvolte nel lungo conflitto israelo-palestinese, che renderebbe impraticabile e instabile una soluzione binazionale.
Altra forma di sionismo criticata da Gans è quella da lui definita “sionismo gerarchico”, sostenuto per lo più all’interno del mondo accademico e legale israeliano e identificata con le tesi di autori come i giusristi Ruth Gavison e Amnon Rubinstein, il politologo Shlomo Avineri, e con la prevalente giurisprudenza della Corte suprema d’Israele. Come il sionismo “egualitario”, il sionismo gerarchico si appella per giustificare la sovranità ebraica al diritto universale di autodeterminazione, fornendone però un’interpretazione per l’appunto gerarchica, in base alla quale esso implicherebbe l’egemonia di un gruppo nazionale e la garanzia per esso di una serie di “vantaggi simbolici” e diritti collettivi negati agli altri gruppi. A differenza del sionismo proprietario e del sionismo egualitario, il sionismo gerarchico non fornirebbe indicazioni circa la giusta estensione territoriale della sovranità ebraica in Terra d’Israele, né, per altro, del perché l’autodeterminazione ebraica abbia dovuto realizzarsi proprio in Terra d’Israele. Differentemente dal sionismo proprietario e come quello egualitario, non fornirebbe giustificazioni a violazioni dei diritti individuali degli arabo-palestinesi, né richiederebbe falsificazioni della storia ebraica. Tuttavia, come il sionismo proprietario, e a differenza del sionismo egualitario, il sionismo gerarchico giustificherebbe violazioni dei diritti collettivi degli arabo-palestinesi. Sebbene il suo sostegno alla diseguaglianza costituisca di per sé la principale obiezione di Gans al sionismo gerarchico, esso è ritenuto erroneo alla radice per un motivo di natura concettuale: né come diritto all’autogoverno, né come diritto alla secessione il diritto di autodeterminazione implicherebbe un diritto all’egemonia, essendo perfettamente compatibile con diritti collettivi nel quadro di uno Stato binazionale o di forme di autogoverno non statuali. Il sionismo gerarchico è per altro compatibile con la scelta della stessa soluzione “a due stati” favorita dal sionismo egualitario. Anzi di fatto i principali esponenti accademici della corrente sostengono la soluzione a due stati, ma per motivi pragmatici e non di principio, (vale a dire per i contingenti equilibri demografici in Terra d’Israele) come tali superabili da altre ed opposte motivazioni pragmatiche. Il rifiuto delle forme proprietarie e gerarchiche del sionismo è però accompagnata da una critica del post-sionismo, la cui negazione del diritto ebraico all’autoderminazione condurrebbe, se tradotto in pratica a gravi ingiustizie. Gans individua tre tipologie di post-sionismo: il nazionalismo “civile”rappresentato per esempio dal sociologo Uzi Ram, che intende sostituire lo Stato ebraico con uno Stato di tutti i suoi cittadini, il post-sionismo “post-coloniale”di autori come Yehouda Shenav e Yossi Yonah, che sostiene diritti collettivi e riparazioni per i “gruppi svantaggiati” in Israele, quali gli arabi, gli ebrei orientali e ortodossi, e il post-sionismo neo-diasporico, rappresentato da autori come gli Judith Butler, Daniel e Jonathan Boyarin e Amnon Raz-Krazozkin Tutte queste forme di post-sionismo sono per Gans ingiuste perché negano agli ebrei il diritto a scegliere l’appartenenza nazionale come componente centrale se non essenziale della loro identità e il diritto all’autodeterminazione. La versione civica e quella post-coloniale aggiungono a tale ingiustizia quella della negazione del diritto ebraico all’identità diasporica, cioè all’identificazione (religiosa, nazionale o culturale) come ebrei in seno a gruppi egemoni non ebraici, mentre all’opposto la versione neo-diasporica è ingiusta in quanto prescrittiva a tutti gli ebrei di un’identità minoritaria diasporica. Oltre che per motivi di giustizia e per l’indipendenza dei suoi argomenti dalle manipolazioni della storia che supporterebbero il sionismo proprietario, il sionismo egualitario sarebbe superiore alle sue alternative, sia sioniste che post-sioniste, per la sua maggiore probabilità di dar luogo a una soluzione stabile del conflitto israelo-palestinese, in quanto sia la sua interpretazione della storia che la sistemazione finale della questione da esso suggerita avrebbero maggiori possibilità di essere accolte da un numero sufficientemente elevato di individui coinvolti da entrambe le parti. Con una circolarità che l’argomento di Gans eredità direttamente dal suo impianto rawlsiano un simile consenso potenziale dipenderebbe dalla superiorità della concezione della giustizia inscritta nel sionismo egualitario, mentre tale superiorità dipenderebbe, a sua volta, almeno in parte anche dalla maggiore stabilità che tale concezione assicurerebbe. Oltre a ciò, il (moderato) ottimismo di Gans circa le prospettive di consenso del sionismo egualitario dovrebbe probabilmente essere ridimensionato da chi assumesse una prospettiva di realismo politico in base alla quale i conflitti sono risolti dalla composizione degli interessi e delle aspirazioni delle parti così come esse (a torto o a ragione) le definiscono, e non dall’emergere di teorie di giustizia distributiva concepite a partire dalla messa tra parentesi o dalla critica morale e cognitiva di tali interessi e aspirazioni. Ancora, ad apparire deficitaria è la bipartizione della storia del sionismo operata da Gans che individua nel 1967 l’unico spartiacque significativo. Rifiutando sia la condanna globale dell’impresa sionista pronunciata dal post-sionismo, sia il sostegno del sionismo proprietario agli insediamenti oltre la linea verde, e la mancata condanna di essi da parte del sionismo gerarchico, il sionismo egualitario distingue in fatti tra un periodo nel quale lo Stato di Israele sarebbe stato moralmente nel giusto, realizzando il diritto ebraico all’autodeterminazione, e uno nel quale avrebbe smarrito la sua strada negando il diritto di autodeterminazione di un altro popolo. Così, mentre post-sionisti e sionisti proprietari sono accomunati dal considerare il 1948 la data cardine per una valutazione morale del sionismo, dal momento che essa riguarderebbe necessariamente il diritto di Israele a esistere come Stato nazionale degli ebrei, per il sionismo egualitario la data cardine è quella dell’assunzione da parte di Israele del controllo dei territori dove la giustizia richiederebbe il sorgere di uno Stato arabo-palestinese. Si può osservare però che vi è almeno un’altra data che richiederebbe un giudizio storico dal quale a sua volta il giudizio sulle successive azioni di Israele dovrebbe logicamente e moralmente dipendere, ovvero il 2000, che registra il fallimento dei colloqui di Camp David e se non il fallimento l’arresto, tuttora in corso, del “processo di pace” iniziato a Oslo nel 1993. La condanna, che i post-sionisti condividono con Gans, delle successive politiche di Israele come semplicemente oppressive, scioviniste e discriminatorie, sembra infatti dipendere almeno in parte dall’assunto che su di esso ricada la responsabilità totale o almeno parziale di tale fallimento. Altrimenti, una qualche discontinuità nel giudizio morale e politico circa il periodo tra il 1967 e il 1993, quando un tentativo di soluzione globale del conflitto su linee di “giustizia distributiva” non dissimili da quelle suggerite da Gans non era stato compiuto e quello successivo al 2000, quando tale tentativo si era ormai temporaneamente o definitivamente arrestato, dovrebbe manifestarsi. Si può ricordare a questo proposito che tale discontinuità di giudizio è manifestata dall’evoluzione della posizione del principale dei nuovi storici israeliani, cui Gans stesso fa ampiamente riferimento come autorità per la ricostruzione storica dell’ “origine del problema dei rifugiati palestinesi”, Benny Morris. A un livello più teorico, se a Israele non si attribuiscono tutte o la maggior parte delle responsabilità per la mancata risoluzione del conflitto, tendono a venire in luce ragioni del sionismo definito da Gans gerarchico che appaiono da lui non adeguatamente discusse, con il risultato di rendere la sua critica insoddisfacente. Se la mancata soluzione del conflitto venisse interpretata come l’emergere dell’impossibilità politica, nella situazione storica data, di abolire l’egemonia del gruppo nazionale ebraico su quello arabo-palestinese senza l’accettazione la realizzazione un’opposta egemonia arabo-palestinese , il nesso tra autoderminazione ed egemonia istituito dal sionismo gerarchico risulterebbe infatti, se non giustificato, almeno legato al tentativo di concettualizzare un serio nodo problematico dell’effettiva situazione politica. L’esercizio di un egemonia di fatto può d’altro canto essere concepita come una garanzia contro la potenziale soggezione a una contro-egemonia, anche in una condizione di eguaglianza di fatto, e la necessità di tale garanzia potrebbe essere l’assunto alla base della tesi per la quale concettualmente l’autodeterminazione richiederebbe l’egemonia. Il sionismo gerarchico cioè, potrebbe valersi di un appello alla necessità politica, e tale necessità politica potrebbe essere considerata stabile, fondata su una tendenza perdurante degli esseri umani a trasformare l’eguaglianza tra gruppi in egemonia. Lo stesso sionismo egualitario, d’altro canto, fonda parte delle sue rivendicazioni della giustizia del sionismo sull’invocazione dello stato di necessità, il che potrebbe rendere legittimo chiedersi perché Gans ritenga di dover dare altre giustificazioni: se l’autoderminazione ebraica è davvero stata la risposta a una necessità esistenziale, infatti, persino la scelta del luogo dove attuarla potrebbe essere giustificata semplicemente dal fatto contingente che in un luogo e non in un altro ciò si era rivelato possibile. Analogamente, la posizione del sionismo gerarchico circa la soluzione a due stati, criticata da Gans perché pragmatica e non di principio, può essere considerata un bilanciamento, in ragione di fatti contingenti quali l’equilibrio demografico arabo-ebraico e le prospettive della sicurezza di Israele, tra il principio di necessità e altri principi, quali il principio democratico di maggioranza. Al di là dei punti che non appaiono, quanto meno, sufficientemente argomentati, il testo di Gans resta comunque un importante tentativo di delineare le basi teoriche di una posizione originale di critica interna al sionismo che aspira dichiaratamente a fornire le coordinate ideologiche di una proposta politica di sinistra sionista e quelle normative della risoluzione della disputa nazionale arabo-ebraica in Terra d’Israele.
Note [1] Chaim Gans, A Political Theory for the Jewish People, Oxford, Oxford University Press, 2016. |