Abstract
Massimiliano Marrazza reviews Maimonides' treaty "Hilkhot de'ot" (The Laws of Moral Life), edited by Massimo Giuliani, and discusses the quarrel between Aristotelian and Neo-Platonic influences on the concept of "good deed".
Nella collana «Schulim Vogelmann» edita da Giuntina
nel 2018, n. 123, è comparsa la traduzione del trattato maimonideo Hilkhot
de‘ot nella curatela di Massimo Giuliani e con prefazione di Rav
Riccardo di Segni. Un lavoro che colpisce non tanto per la difficoltà della
prosa ebraica di Mosè Maimonide, traduzione operata sul testo pubblicato da
Hotzaat Shabse Frankel, Yerushalaim-Benè Braq nel 2001, quanto per la
complessità del lessico specifico. Forse a partire proprio dal plurale
femminile de‘ot, “intraducibile” (p. 7), sembra arrendersi Di Segni
nell’incipit della sua brillante Prefazione. In realtà, ammette poi
il rav, nel linguaggio rabbinico, le de‘ot sono le
‘inclinazioni’, ‘i caratteri’, ‘gli stili di vita’. Eppure, l’opera è
classificabile anche come un trattato di medicina. In Maimonide non c’è un
reale interesse psicologico: il filosofo ha attraversato le vette del pensiero
occidentale (l’aristotelismo, la letteratura cristiana antica,
l’alessandrinismo), e tuttavia nulla lo ha veramente condizionato. Se così non
fosse -ci spiega ancora Di Segni (p. 10) – “qui [nel trattato Hilkhot de‘ot]
(n.d.r.) [non sarebbe] (ndr) assente quell’evoluzione del pensiero greco
(Ippocrate) che ne considera quattro, in relazione a quattro elementi e ai
quattro umori”. In Maimonide tutto deve concorrere al benessere, che è summa di
corpo e anima, del soddisfacimento del primo e della pietas della
seconda. Persino il sesso, contro ogni visione moralistica, stoicheggiante o
neoepicurea, è visto come ammesso se funzionale alla procreazione, ma anche
“quando è necessario scaricare il seme” (p. 11). Tanto complesso e complessivo
dovette sembrare questo trattato che il grande rav Avraham ben David di
Posquières (1125-1198), lo annota solo una volta, proprio in riferimento alle
raccomandazioni sessuali, tanto benevole, che egli scrive: “E così anche per il
precetto delle ‛onà, se lei ci tiene”, il precetto che consente alla
donna la rivendicazione di un numero di rapporti sessuali consono.
Il trattato Hilkhot de‘ot ha
un ruolo fondamentale nella struttura dell’opera maimonidea. Massimo Giuliani,
grande conoscitore di filosofia e filologia ebraica, professore all’Università
di Trento e autore di numerose monografie, sa spiegarci che gli è assegnato il
primo posto dei quattordici trattati dei Mishnè Torà, ossia
“ripetizione della Torà, un esauriente compendio della Torà orale”
(p. 16). Che un trattato razionale rappresenti l’inizio di tutta la Torà orale,
della cui necessità non esistono dubbi, implica chiaramente, ciò che già
nei Pirqè Avot era chiaro, e cioè che “un ignorante non può
essere una persona religiosa” (Pirqè Avot II, 6, p 18). Questa è la grandezza
di Maimonide, alla quale si accennava prima, nessuna esperienza intellettuale
ha condizionato il filosofo-medico: la sua grandezza risiede nella sua
autonomia. Giuliani dissipa l’antico dubbio di un pregiudizio giudaico
elitistico proprio con la sua introduzione a questo trattato di Maimonide.
Poiché se elitarismo ci fu, questo è proprio della filosofia greca, non ha
origine nella Torà, che distingue solo tra ‛am Israel e
gli altri popoli, ma è proprio della filosofia greca che opera una dicotomia
tra ciò che è divulgabile e ciò che è riservato ai sapienti. Attraverso gli
studi di Leo Strauss (in Filosofia e legge. Contributi per la
comprensione di Maimonide e dei suoi predecessori a cura di Carlo
Altini, Giuntina, Firenze, 2003, p. 19) Giuliani mette in luce che Rambam deve
aver coltivato un côté essoterico e un côté esoterico,
rivolto ai sapienti (p. 19). Da un punto di vista filosofico-morale, è bene
dirlo subito, Maimonide fu essenzialmente aristotelico, come ha evidenziato
Mauro Zonta (in Maimonide, Carocci, Roma, 2011, pp. 60-61, qui p.
20), concependo la virtù come esercizio di medietas tra due
vizi estremi. O, come si evince nel trattato successivo al nostro, cioè
il Morè nevukim o Guida dei perplessi, la
rivendicazione del libero arbitrio è totale, contro ogni forma di fatalismo
antropologico o determinismo teologico. In Maimonide l’ebraismo nucleico è
intatto.
Ma anche questo sarebbe riduttivo e non potremmo
accostarci a questo trattato da moderni se non a patto di purificarci dalla
nostra distinzione tra ‘etico’ e ‘morale’, dove l’etica, secondo la definizione
di Paul Ricoeur, almeno a partire da Kant in poi, è ciò che concerne il bene
agire individuale, mentre è ‘morale’ ciò che riguarda l’obbligatorietà
dell’azione per il bene comune. In questo senso “l’etica è caratterizzata da una prospettiva teleologica (da télos,
che significa ‘fine’) […] e la morale da un punto di vista deontologico
(deontologia significa precisamente ‘dovere’)” (citato in Etica e
morale a cura di Domenico Jervolino, Morcelliana, Brescia, 2007, p.
33, qui p. 22). Maimonide non avrebbe compreso una teleologia di una mitzwà,
del precetto come autonomo e non vincolante in generale, non deontologico,
cioè. E dopo uno sguardo di insieme, doveroso, sulla produzione letteraria e
filosofica di Ramabam, Massimo Giuliani, si pone con più timore, se necessario,
il problema del titolo. Su base comparativa, Zonta, lo interpretò come Leggi
sui costumi. Ma filologicamente, invece, de‘ot o, al
singolare, il lessema de‛à è un deverbale della radice yd‛ (‘conoscere’)
ed a questi costumi vanno sommati anche le attività di conoscenza degli aspetti
del reale più intellettuali, al pari di quelli più emotivi e passionali, tutti
insieme parte di un unico armonioso processo cognitivo. Una conferma di questa
visione che, presupponendo uno studio gnoseologico complessivo dell’uomo, è che
essa abbia come conseguenza una tensione all’universalismo. È possibile
trovarla in un passo delle Hilkhot melakim (VIII; 10-11)
il Trattato sui re che fa riferimento ai sette precetti
noachidi (essi furono rilevati a Noè dopo il diluvio a benefizio di tutta
l’umanità (la fonte è talmudica): non praticare l’idolatria, la bestemmia,
l’omicidio, il furto, le trasgressioni sessuali gravi il consumo di parti di
animale vivo e, in positivo, istituisci tribunali per amministrare la
giustizia). Ebbene il non ebreo che li osserva, deve essere considerato me-chasidè
umot ‛olam, “tra i giusti delle nazioni” e avrà parte, insieme agli ebrei,
del mondo futuro (p. 26).
A dirimere poi la complessa questione se per
Maimonide l’etica debba essere interpretata come primato della phronèsis o
saggezza pratica ovvero, piuttosto, una gerarchia delle idee come per Platone
che porta al compimento del Bene sommo concorre l’ipotesi del filosofo della
religione Joseph B. Soloveitchik che rifiuta le conclusioni di
Hermann Cohen il quale sostanzialmente vedeva nella quadrupla descrizione della
perfezione umana descritta nella Guida III, 54, ogni forma di
perfezione come preludio alla virtù dianoetica, ossia alla perfezione
intellettuale. Ma questo è solo un aspetto del suo pensiero: in Maimonide si
percepisce chiaramente la convivenza di entrambe le impostazioni, a seconda
delle opere. Leggiamo nella Guida che per Rambam,
l’immortalità, persino quella dei profeti, non è che una conquista: “Anche i
profeti [ossia la rivelazione sinaitica e l’intera tradizione successiva] ci
hanno già spiegato questi stessi concetti, interpretandoli come li hanno
interpretati i filosofi, e ci hanno anche detto esplicitamente che né la
perfezione del possesso, né la perfezione della salute, né la perfezione dei
costumi sono perfezioni di cui ci si debba vantare e che si debbano desiderare,
mentre la perfezione di cui ci si deve vantare e che si deve desiderare la
conoscenza di Dio, che è la vera scienza” (Maimonide, La guida dei
perplessi, trad. it. M. Zonta, Utet, Torino, 1980, 758-59, citato a p. 28).
Il relativismo che si intravede non sta nel
cambiamento dell’azione giusta nella storia, quanto nella natura dell’azione
stessa: essa non si giustifica da sola, non è, in quanto azione, buona-in-sé,
ma ai fini del benessere comune. Che poi nello stesso trattato siano presenti
consigli di igiene medica e prescrizioni che, agli occhi di un moderno,
sembrerebbero persino banali, assicuriamo che tali non lo erano quando ne
scriveva il medico-filosofo. L’igiene come funzionale alla salute è
un’acquisizione abbastanza tarda, ad esempio, così come l’astinenza da alcuni
cibi in determinati periodi. Queste prescrizioni e raccomandazioni non
banalizzano il testo, perché concludiamo insieme al Rav di Segni, tutto deve
contribuire alla creazione di una unio intellectualis, in cui
l’anima, non meno del corpo, ha i suoi misteri da svelare.
Casella di testo
Citazione:
Mosè Maimonide, Norme di vita morale (Recensione di Massimiliano Marrazza), "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VIII, 1, febbraio 2019
url: http://www.freeebrei.com/anno-viii-numero-1-gennaio-giugno-2019/mos-maimonide-norme-di-vita-morale
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