Abstract
Giuliana Iurlano explores Abraham Lincoln's view of a Jewish homeland in Palestine.
Il 14 aprile 1865, il presidente
Abraham Lincoln venne assassinato da John Wilkes Booth. La grande
partecipazione degli ebrei americani al dolore della società americana appena
uscita da una sanguinosa guerra civile mette in luce una tappa importante della
vicinanza dell’ebraismo d’oltreatlantico alle massime istituzioni statunitensi.
In tutte le sinagoghe d’America, durante lo Shabbath,
la bandiera a stelle e strisce, listata a lutto, fu issata a mezz’asta, mentre
veniva recitata l’Hashkabah, la
preghiera per i defunti, dedicata per la prima volta – come scrisse il «Jewish
Messenger» – ad un non ebreo, mentre in tutte le città americane si svolgevano
lunghe marce funebri, alle quali parteciparono moltissimi ebrei appartenenti a
diverse congregazioni. Quale rapporto, allora, c’era tra Lincoln e gli ebrei
americani? Intanto, c’è da dire che l’intera vita di Lincoln coincise con
l’emergere sulla scena nazionale dell’ebraismo americano. Dal 1809, l’anno di
nascita del futuro presidente degli Stati Uniti, al 1865, quando fu
assassinato, gli ebrei americani passarono da circa 3000 a più di 150.000
individui, soprattutto a seguito dei flussi migratori legati ai moti
rivoluzionari europei. Si rafforzò soprattutto la componente tedesca, che ben
presto sarebbe diventata un punto di riferimento importante nella società
americana, un gruppo perfettamente integrato e in grado di costituire una forza
di pressione sull’amministrazione statunitense per la difesa dei diritti degli
ebrei non soltanto sul suolo americano, ma anche nel Vecchio Mondo, dove le
discriminazioni e le persecuzioni antiebraiche erano purtroppo pane quotidiano.
Su Lincoln è stato scritto moltissimo, ma studi sul suo rapporto col mondo
ebraico sono veramente pochi. Dopo il lavoro seminale di Isaac Markens del
1909, non vi è stato altro per molto tempo, finché, nel 2015, non è stato
pubblicato l’eccellente saggio storico di Jonathan D. Sarna e Benjamin Shapell,
dal titolo Lincoln and the Jews: A
History (New York, St. Martin’s Press, 2015). Si tratta di un volume edito
in occasione dei 150 anni della fine della guerra civile americana, ma che si
sofferma proprio su aspetti inediti della vita e della personalità del 16°
presidente degli Stati Uniti, utilizzando anche fonti poco note, lettere
personali e immagini ad alta definizione a corredo di una ricostruzione storica
focalizzata proprio sul rapporto di Lincoln con l’ebraismo americano.
Il primo impatto di Lincoln con gli ebrei fu quello che egli ebbe con la
Bibbia. Del resto, né ad Hardin Country, nel Kentucky, dove nacque, né nelle
terre selvagge in cui sorse il villaggio di Spencer County, in Indiana, dove la
famiglia Lincoln si trasferì nel 1816, vi erano ebrei. Della loro storia
Abraham venne a conoscenza dallo studio delle Sacre Scritture nelle “blab schools”, le scuole in cui si
leggevano e ripetevano a voce alta brani della Bibbia e dei Salmi, e sin dall’inizio
manifestò un profondo orgoglio per il nome che portava, che era anche quello di
suo nonno. Ma sin da giovane rifiutò sempre di condividere l’idea di molti
cristiani – soprattutto appartenenti all’American Society for the Evangelizing
the Jews – della necessità di convertire gli ebrei, ritenendo invece che ogni
individuo avesse il diritto di professare la religione che preferiva, così come
sancito dalla Costituzione americana. Gli ebrei, infatti, godevano dei diritti
politici a livello federale, avendo partecipato alla Rivoluzione americana e
avendo ottenuto da George Washington un riconoscimento ufficiale della loro
cittadinanza piena nella nuova nazione americana, ma a livello statale il
percorso sarebbe stato ancora molto lungo per loro. In tale percorso, si
sarebbe inserito proprio Lincoln. Sono note, infatti, le prese di posizione del
presidente in due occasioni durante la guerra civile: la prima, quella della
mancata nomina dei rabbini tra le file dei due eserciti; la seconda, invece,
relativa all’emanazione del noto Order n.
11 del generale Ulysses S. Grant. Riguardo al primo aspetto, gli ebrei
fecero capire sin da subito che si aspettavano di essere trattati esattamente
come tutti gli altri partecipanti al conflitto e, per questo, esercitarono
delle pressioni sui rispettivi governi, sia al Nord che al Sud, affinché
venissero estesi anche ai rabbini gli stessi benefici garantiti al clero
cristiano per la funzione di cappellano militare, funzione che – secondo la
normativa vigente – doveva essere ricoperta da “un ministro regolarmente
ordinato di una denominazione cristiana”. Mentre il comando confederato
provvide prontamente a cancellare la parola “cristiano”, dimostrando, almeno in
teoria, di non adottare misure discriminatorie nell’esercito, all’interno
dell’Unione la modifica legislativa venne varata solo nel luglio del 1862 e
dopo un iter controverso, talvolta ostacolato anche dal rifiuto di “to preach politics” sostenuto
dall’editor di “The Israelite”, Isaac Mayer Wise, un importante rabbino
riformato dell’Ohio. E, tuttavia, anche l’impegno di non fare politica dal
pulpito fu accantonato nel momento in cui i diritti e l’onore degli ebrei
furono messi in discussione. L’altro aspetto riguardò il generale Grant,
comandante del dipartimento del Tennessee, che stava per assediare Vicksburg,
una roccaforte dei confederati ritenuta strategicamente molto importante e da
cui passava il commercio illegale di cotone e di oro destinato ai
secessionisti. Poiché la proibizione di tale trasporto da parte di molti
speculatori (alcuni dei quali ebrei) non aveva avuto successo, Grant operò
un’artificiale generalizzazione, emettendo un decreto di espulsione degli ebrei
da Cincinnati e da Paducah, una città del Kentucky alla confluenza del
Tennessee e dell’Ohio. Probabilmente Grant non era né un vero antisemita, né un
pervicace giudeofobo (tant’è vero che, diventato presidente, nominò proprio un
ebreo, Benjamin Peixotto, come console americano in Romania e il generale Edwin
S. Salomon come governatore del Territorio di Washington), ma sicuramente sul
suo decreto influì il pregiudizio antiebraico, che, soprattutto in momenti di
crisi e di tensione, riappariva regolarmente in tutte le società, compresa
quella liberale americana. Il decreto, che colpiva gli ebrei in quanto
“classe”, provocò la reazione immediata della comunità, i cui rappresentanti
chiesero e ottennero un incontro con Lincoln, da loro definito “padre Abramo”,
che fece immediatamente revocare il decreto.
Ma gli aspetti più interessanti dell’incontro tra Lincoln e gli ebrei furono
quelli di natura personale, aspetti che mettono in evidenza come il presidente
fosse veramente in grado di andare al di là dei pregiudizi, al tempo ancora
molto diffusi, nei confronti del popolo ebraico. È qui che Lincoln mostra nei
fatti la sua capacità di considerare gli ebrei non degli outsiders, ma dei cittadini a tutti gli effetti, colmando quel
divario tra l’“ebreo mitico”, immaginario, e l’ebreo “della porta accanto”, sul
quale si riversavano frequentemente sospetti e pregiudizi atavici. Era questa
la realtà del suo tempo: l’ebreo biblico era parte di un immaginario
collettivo, fatto proprio soprattutto dal puritanesimo delle origini, ma nella
realtà quotidiana l’ebreo – esattamente come accadeva in Europa – era il bersaglio
di violenti attacchi antisemiti, soprattutto relativi allo stereotipo
dell’ebreo “maneggiatore di denaro”, che ben presto si sarebbero saldati al
tema della “doppia lealtà”.
Ebbene, Lincoln rimase sempre lontano da questo tipo di valutazioni; anzi,
si sforzò – sia nella vita privata, che in quella pubblica – di abbattere tale
pregiudizio che gravava sulla comunità ebraica d’America. Le sue stesse
frequentazioni, in particolare quella con Abraham Jonas, da lui considerato “one of my most valued friends” – lo
dimostrano. Era stato proprio Jonas – con cui aveva condiviso il mestiere di postmaster – che il 16 settembre del
1854 gli aveva chiesto di parlare pubblicamente contro il “Kansas-Nebraska Act”,
che permetteva ai proprietari di schiavi di portarseli dietro nella
colonizzazione dei nuovi territori, aumentando così il peso decisionale dei
Territori schiavisti al Congresso. Così come fu sempre
Jonas a sostenerlo nella campagna elettorale di due anni dopo e a condividere
con lui le principali tematiche politiche che animavano la società americana
del tempo. Una volta eletto presidente, Lincoln – nel pieno della guerra civile
che divideva il paese – nominò molti ebrei agli alti vertici dell’esercito,
come, per esempio, Alfred Mordecai, Jr., che sarebbe diventato in seguito
generale, o promosse col grado di capitano l’eroico tenente Ephraim M. Joel,
alla fine della campagna di Vicksburg, o invitò a parlare davanti al Congresso,
nel 1861, il rabbino Morris Raphall, uno dei quattro più importanti
rappresentanti della comunità ebraica con cui si incontrava spesso alla Casa
Bianca.
Anche sulle prime idee, sostenute da molti cristiani, di “restaurare” la
Terra Promessa in Palestina, Lincoln non era contrario. Una volta incontrò
Henry Wentworth Monk, un canadese che si era autoproclamato “profeta” e che
aveva elaborato un progetto di pace, all’interno del quale era contemplato
anche il ritorno degli ebrei nella Palestina. Alla domanda di Monk, del perché
non facesse seguire all’emancipazione dei neri anche quella degli ebrei, il
presidente candidamente rispose: “Gli ebrei? Perché gli ebrei? Non sono già
liberi?”. Monk replicò: “Certamente, signor presidente, l’ebreo americano è
libero, così come l’ebreo inglese, ma non quello europeo. In America siamo così
lontani da non vedere ciò che accade in Russia, in Prussia e in Turchia. Non ci
potrà essere una pace permanente nel mondo finché le nazioni civilizzate
guidate, io spero, dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti, non facciano
ammenda per ciò che hanno fatto agli ebrei in duemila anni di persecuzioni,
restituendo loro la loro patria in Palestina e rendendo Gerusalemme la capitale
della cristianità riunita”. La risposta di Lincoln fu questa: “Si tratta di un
nobile sogno, signor Monk, condiviso da molti americani. Io stesso ho molta
considerazione per gli ebrei. Il mio podologo è un ebreo ed egli mi ha ‘rimesso
così tante volte in piedi’, che non avrei alcuna obiezione a dare ai suoi
compatrioti un appoggio. Ma purtroppo, in questo momento gli Stati Uniti sono
una casa internamente divisa. Noi dobbiamo per prima cosa portare a termine
vittoriosamente questa terribile guerra, senza alcun compromesso, e poi, signor
Monk, possiamo di nuovo avere dei progetti e dei sogni. E allora, vedrete quale
leadership l’America mostrerà al
mondo!”.
Casella di testo
Citazione:
Giuliana Iurlano, Lincoln e gli ebrei, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VIII, 2, luglio 2019
url: http://www.freeebrei.com/anno-viii-numero-2-luglio-dicembre-2019/giuliana-iurlano-lincoln-e-gli-ebrei
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