Sionismo e antisemitismo: una concordia discors?
"Free Ebrei", I, 2, dicembre 2012
Sionismo e antisemitismo: una concordia discors?
La dialettica fra antisemitismo e sionismo nel pensiero e nell’opera di Vladimir Ze'ev Jabotinsky
Abstract
Vincenzo Pinto analyzes Vladimir Ze'ev Jabotinsky's political thought and literary imagination, in order to identify any structural relationship between Zionism and anti-Semitism
Prolegomeni: sionismo e antisemitismo
La storia del sionismo è legata indissolubilmente a quella dell’antisemitismo moderno. Un’affermazione apodittica di questo tipo, già sostenuta con forza da Hannah Arendt nel suo noto saggio sulle origini del totalitarismo1, racchiude dentro di sé un problema immediatamente centrale nell’analisi delle origini del nazionalismo ebraico. Nel 1995 Anita Shapira, uno dei più noti studiosi israeliani appartenenti alla cosiddetta “storiografia dell’establishment”2, ha posto lucidamente la vessata questione: in che misura il sionismo ha saputo puntellare la sua costruzione identitaria su di un principio negativo (come l’antisemitismo) rispetto a uno positivo (come la rinascita nazionale ebraica)? Paragonato ad altri responsi ebraici all’antisemitismo (l’umanesimo liberale, il bundismo, l’ebraismo riformato), «l’unicità del sionismo sta nell’aver accettato l’assunto basilare antisemita che gli ebrei costituissero un “corpo estraneo” nella fabbrica nazionale dei popoli europei – un corpo che non poteva mai assimilarsi. [...] Un velo è sollevato dai loro occhi, ed essi [i sionisti] possono parlare onestamente e apertamente dei difetti e delle debolezze ebraici. Questo era un candore che gli ebrei non avevano potuto permettersi finché essi credevano ancora che il problema ebraico avrebbe potuto un giorno essere risolto entro la struttura delle nazioni europee»3.
Il sionismo, movimento politico figlio del fine secolo europeo, sorse e si formò sulla base di quest’assunto incontrovertibile, che potremmo facilmente tradurre in termini fenomenologici hegeliani: il lungo cammino della «coscienza infelice» (ebraica), passata attraverso la fase del ghetto moderno e dell’emancipazione illuministica, si conclude nell’autocoscienza individuale e collettiva (il sionismo per l’appunto) che esistano insuperabili barriere tra i popoli; barriere materiali e – fatto importante – spirituali, naturali e ontologicamente insormontabili. Tra le due concezioni di identità tipiche del nazionalismo europeo romantico, quella volontaristico-razionalistica à la Renan e quella organicistica à la Herder, il sionismo optò per la seconda4. Come sottolinea la stessa Shapira, i sionisti scelsero il modello organicistico, giacché mancavano degli essenziali attributi di sovranità e territorio che connotavano l’altro modello. «Una storia e cultura ebraiche rinvigorite furono le basi del nuovo nazionalismo ebraico. Così non è sorprendente il fatto che la nuova identità nazionale includesse componenti che erano chiaramente equiparabili con le varie asserzioni antisemite»5. L’humus culturale su cui crebbero il sionismo mitteleuropeo e l’antisemitismo fu simile. Allo stesso modo lo furono gli obiettivi politici (l’iconoclastia dell’ebreo da caffè e quello del ghetto)6.
L’antisemitismo non fu l’avversario del sionismo, l’alter ego della sua costruzione identitaria (che rimase sempre il Golusjude, l’ebreo della diaspora)7. Fu una sorta di specchio, di «velo di Maya» che, rimosso, aveva permesso di vedere la nuda e cruda realtà della condizione ebraica. Gli esponenti preminenti del sionismo politico e culturale furono fondamentalmente prodotti della Kultur occidentale; furono uomini che tornarono alle fonti dell’ebraismo “reinventato” attraverso una propria griglia ermeneutica figlia dell’Europa di fine secolo. Gli esempi non mancano: Theodor Herzl, il fondatore dell’Organizzazione sionistica8; Max Nordau, il «medico della letteratura» sostenitore del Muskeljudentum9; Leon Pinsker, il medico russo autore di Autoemanzipation!10; Moshe Lilienblum, il maskil11 russo vicino al realismo nichilista e populista12; Achad Ha’am, il polemista russo sostenitore del nazionalismo ebraico su basi spirituali13; e Martin Buber, l’apostolo della filosofia dell’Inzwischen, studioso del misticismo cristiano e di quello ebraico14. Al di là della critica tra le varie fazioni, è indubbio che il Sionismus militans instaurò un rapporto dialettico con l’antisemitismo; rapporto fatto di mimesi e di collaborazione; rapporto spesso criticato alacremente dagli ebrei «altri»; rapporto che va tuttavia meditato su due piani: uno psicologico-esistenziale e uno politico-economico.
La discussa figura di Vladimir Jabotinsky, intellettuale ebreo natio di Odessa diventato, dalla seconda metà degli anni Venti, leader incontrastato del partito sionista estremista sostenitore dello Stato ebraico su entrambe le rive del Giordano (l’Unione mondiale dei sionisti-revisionisti, poi Nuova Organizzazione sionistica)15, ci permette di rileggere questo rapporto dialettico sui due piani sopra indicati. Jabotinsky fu anch’egli figlio del fine secolo, con la particolarità che, nelle vesti di uno dei suoi personaggi più tipici, fu un giornalista e uno scrittore di discreta fama nel mondo culturale ebraico russo. Ma non solo, egli fu, forse, il meno «ebraico» di tutti i leader sionisti, giacché, pur essendo cresciuto nell’Odessa ebraica16, ne fu fondamentalmente alieno. Aliena come fu la sua particolare forma di sionismo, ossimorico in sé e per sé: romantico e positivista, tradizionalista e nichilista, spiritualista e realista17. Proprio attraverso i suoi scritti letterari, in primo luogo, e la sua volgarizzazione teorica economicistica tarda della questione ebraica, in secondo luogo, possiamo ricostruire accuratamente la dialettica sionismo-antisemitismo nel pensiero di un uomo per decenni al centro di dispute storiografiche per lo più apologetiche o demonizzatrici, che solo negli ultimi anni, grazie all’apertura degli archivi russi, è diventato oggetto di studi seri e attenti maggiormente alla comprensione storica e storiografica piuttosto che alla giustificazione delle proprie ragioni di parte18.
La nostra indagine farà uso di una clavis di lettura ben precisa: quello che il filosofo svizzero Richard Avenarius definì il «concetto naturale del mondo». Invero si tratta dell’epistemologia empiriocriticista formulata compiutamente da Ernst Mach nei Contributi all’analisi delle sensazioni (1886), che inaugurarono spiritualmente il fin de siècle viennese. Secondo il fisico-filosofo austriaco, la realtà altro non è che uno sterminato intreccio di elementi, anzi di sensazioni, che non sono vincolate a un soggetto senziente, ma libere e portate a collegarsi tra loro mediante rapporti funzionali che, quando diventano relazioni stabili, sono percepiti come sostanze. L’ego, le cose, gli oggetti materiali, le categorie kantiane di spazio e tempo e gli stessi valori sono costruzioni fittizie che autorizzano uno scetticismo radicale; ma, tuttavia, vengono riconosciute come rispondenti a un principio economico di utilità, giacché tali funzioni permettono all’uomo di avventurarsi nel mondo e gli permettono di costruirlo come una “realtà” tanto più solida quanto più è funzionale al suo scopo. Le conseguenze filosofico-esistenziali possono essere di due tipi: accettazione del convenzionalismo e immersione nel flusso della totalità; rigetto di ogni forma di scetticismo e ritorno alle origini, all’unità perduta.
Che l’empiriocriticismo abbia avuto una certa fortuna nella cultura filosofica, letteraria e scientifica dell’epoca è indiscutibile, ove si consideri, come esempio calzante, la riconosciuta influenza sulla «giovane Vienna» letteraria e sulla successiva prosa musiliana19. Ma un asperrimo dibattito intorno alle conseguenze politiche e filosofiche del neo-sensismo machiano si inaugurò nella Russia dello zar Nicola II, come dimostrano il saggio filosofico in più volumi Empiriominismo (1904-06) del medico, scienziato e filosofo Alexander Bogdanov, nonché la strenua difesa politico-ideologica del realismo engelsiano riflessa nel noto testo polemico Materialismo ed empiricriticismo (1909) di Vladimir Lenin20. Ma non solo, la temperie empiriocriticista è riscontrabile anche nella speculazione di Ber Borochov, sionista marxista russo teoreticamente vicino ad Avenarius e allo stesso Bogdanov, studioso originale delle questioni nazionali e autore del saggio epistemologico Virtualismo e il problema etico-religioso nel marxismo (1907)21. Utilizzando l’impatto dell’epistemologia empiriocriticista, da una parte, sui canoni letterari dell’impressionismo simbolistico e, dall’altra, sulla teoria politica-economica, cercheremo di ricostruire la dialettica sionismo-antisemitismo nel pensiero e nell’opera di Jabotinsky, quello che definiamo il senso antisemita22.
2. Il senso antisemita nelle litterae jabotinskiane: Paese alieno, Edmée e Sansone il Nazireo
L’ego è unrettbar. La ragione ha abbattuto i vecchi dèi e ha detronizzato la nostra terra. Adesso essa minaccia anche di distruggerci. Perché comprenderemo che l’elemento della nostra vita non è la verità, ma l’illusione. Per me non è importante ciò che è vero, ma ciò di cui ho bisogno, e così sorge il sole, la terra è reale, e io sono io23.
Questo passaggio tratto dal Dialogo del tragico (1904) dello scrittore austriaco Hermann Bahr ci consente di affrontare, da una parte, la sensibilità dell’impressionismo simbolistico viennese, e, dall’altra, le conseguenze politico-esistenziali della relatività fenomenistica del machismo24. Unrettbar può essere tradotto come irrimediabile e come dissolto. Il primo significato sottende a una filosofia relativistica e decadente, funge da base psicofisica alla crisi d’identità individuale e collettiva. Il secondo – per utilizzare le parole di Albert Einstein – sottende a una relativizzazione della conoscenza del mondo e di noi stessi, inclusa quella dell’apparenza e della realtà e, soprattutto, dell’esistenza umana25. Non stupisce affatto che il primo significato trovasse terreno fertile e mietesse consensi in quegli ambienti culturali e in quelle strutture geopolitiche – come l’Impero Austro-Ungarico e quello Russo – che avvertivano fisicamente e spiritualmente la decadenza e la disintegrazione. Il discorso, in sedicesimo, valeva anche per il mondo ebraico europeo, in special modo per la generazione di intellettuali sradicati à la Jabotinsky cresciuti nell’Ostjudentum e tuttavia fondamentalmente estranei sia alle tradizioni religiose ortodosse sia all’alacre dibattito dei secolaristi e degli anticlericali illuminati intorno all’essenza dell’ebraismo. Non a caso, nella chiusa di un suo oramai dimenticato saggio letterario apparso sulla «Nuova Antologia» del 1901, che inquadrava le opere di Chechov e Gorkij cercando di contestualizzare i possibili esiti politici del realismo sulla cosiddetta «età argentea» russa26, egli utilizzò questi termini:
Ora noi non sappiamo desiderare, non abbiamo energia, né coraggio; noi siamo troppo Amleti. La fece che sola ci può spingere ad una feconda lotta, è anch’essa una facoltà della nostra psiche; ed essendo tutta la psiche avvilita e degenerata, non può non essere ammalata nelle proprie radici anche la fede, il sentimento dell’ideale, la cui mancanza tanto si lamenta ai nostri giorni27.
Dopo esser rientrato in Russia dal triennio di studi universitari trascorsi a Berna e a Roma (1898-1901), Jabotinsky venne a contatto con il sionismo soprattutto a seguito dei pogrom del 1903. Dopo il fallimento del programma federalista e la mancata elezione alla II Duma, nel 1907-8, egli soggiornò a Vienna per compiere degli studi approfonditi sulla questione delle nazionalità nell’Impero Austro-Ungarico (nel 1912 si sarebbe laureato summa cum laude all’Università russa di Yaroslav proprio con una tesi sui diritti delle minoranze nazionali). Nonostante l’assenza di informazioni precise da parte dei suoi biografi28, e in considerazione del lessico dell’ideologia revisionista degli anni successivi (su tutti il termine monismo, di chiara derivazione empiriocriticista), proprio la sua sensibilità decadente-impressionistica, unita alla pressoché coeva considerazione «strettamente scientifica» del sionismo, determinarono un’interpretazione della famosa espressione di Bahr in senso nazionalistico-comunitario: das unrettbare Ich non divenne la fusione nella totalità, ma la ricerca ossessiva dell’identità originaria29, «il tempo perduto» (ebraico). L’antisemitismo, inteso come spia di un mondo tecnico ed evoluto, sradicato e senza memoria, divenne lo specchio della condizione ebraica diasporica. Il suo carattere a un tempo «scientifico» e «inconsapevole» dimostrò l’impatto dialettico del senso antisemita sulla costruzione identitaria sionista.
Paese alieno è un lungo dramma di Jabotinsky scritto nel 1907 (cinque atti per circa 240 pagine!), mai rappresentato e pubblicato per la prima volta in russo a Berlino nel 1922. L’intreccio ruota intorno a un incontro di protesta di un gruppo di giovani socialisti rivoluzionari ebrei che sfocia in uno sciopero e in un pogrom contro gli ebrei stessi. Il personaggio centrale del dramma è Gonta, un vecchio rivoluzionario ebreo che, dopo il pogrom di Kishinev, ha perso la speranza non solo nel socialismo, ma nella sua stessa ebraicità. Tornato dall’esilio newyorchese, egli inizia a lottare contro i socialisti ebrei in nome di un nazionalismo ebraico libero e orgoglioso. Di primo acchito, il dramma è una riflessione drammatica di un intellettuale militante a favore del sionismo e contro il socialismo ebraico (il Bund in primis)30. Esso dimostra anche le responsabilità politiche e ontologiche dei socialisti rivoluzionari russi nel sostegno più o meno diretto offerto ai pogromshchiki. Ma l’elemento più interessante resta la caratterizzazione di Gonta, l’ennesimo alter ego letterario di Jabotinsky. Smascherato Gonta con Abram, il figlio secolarizzato di un tzaddik (santone) chassidico31, che rivela la profonda ipocrisia del primo, che predilige un’avventura con una donna russa (Natasha) rispetto al suo ideale nazionalistico e al dolore del suo popolo, l’autore intende sottolineare non solo la sua lontananza dall’ebraismo, di cui conosce solo le esteriorità, ma anche l’artificiosità del suo stesso orgoglioso nazionalismo, nient’altro che una cattiva imitazione di quello “gentile”32.
Le riflessioni di Paese alieno ci permettono di ricostruire il senso antisemita, riverbero di un odio di sé che giocò un ruolo fondamentale nella ricomposizione unitaria e identitaria del mondo disgregato dal relativismo epistemologico machiano. Ecco come Gonta descrive l’esperienza vissuta del pogrom di Kishinev:
Andai a Kishinev
Ci restai per tre giorni...
Il terzo giorno partii – pensai
Di non poter respirare e di soffocare. Pensai, la gente stava
Deridendo e puntando le sue dita verso di me
Dicendo: guarda, c’è un ebreo
Un giudeo malconcio.
Mi nascosi in un angolo
Non uscii mai più,
cercai di non discutere, di non pensare, di non muovermi,
e di andare ancora avanti.
E allora sentii quella frase – l’orgoglio della tranquillità –
... da una ragazza russa, con cui stavo saltellando
e sapete che cosa feci? Le dissi
di non essere un giudeo, ma un russo
proseguii e discussi, come un eguale, come un uomo libero.
Oh, fu così facile. Potevo respirare profondamente e completamente
Nessun odio, nessun disprezzo – la mia anima divenne così pura
Come se avessi abbandonato una putrida taverna ebraica
Per l’aria pura e per i campi aperti di Dio
O come se la musica mi avesse trasportato in un regno fiabesco e mi avesse dato una
Corona.
Il mattino successivo la ragazza partì, non ricordo per dove.
Mi vergognai, mi vergognai dal profondo del mio essere.
Ma se non fosse stata per quella notte, se non fosse stata per quella splendida dormita
Sarei uscito pazzo.
E allora imparai la sola soluzione all’indovinello di questo mondo:
Il comandamento dell’orgoglio, il freddo,
Implacabile, insormontabile, insensibile orgoglio
Senza fondo di un re
Privato del suo trono e della sua corona33.
L’ego ebraico dissolto nel flusso delle sensazioni non può sfuggire da se stesso, poiché il senso antisemita è sempre pronto a ricordare la realtà della condizione ebraica, anche sub specie sensuale34. Edmée è un racconto d’appendice apparso sull’«Oddeskie Novosti» nel giugno 191235. É la storia di un anatomista tedesco di origini ebraiche di mezza età che, dopo che il ministero dell’educazione prussiano gli ha negato una più che meritata cattedra universitaria per il fatto di non aver abiurato la sua fede, decide di recarsi in Oriente, a Costantinopoli, alla ricerca di una «distrazione», all’inconsapevole ricerca delle origini della sua “razza”. Durante il soggiorno sull’isola di Prinkipo, l’anonimo io narrante, ennesimo alter ego di Jabotinsky, conosce una piccola ragazzina dodicenne figlia di un console francese, Edmée, di cui s’invaghisce, dando vita a un’avventura romantica. L’intreccio presenta innegabili somiglianze con La Morte a Venezia di Thomas Mann, visto che, pubblicato per una strana coincidenza alcune settimane prima, il racconto ritrae l’imago dell’esteta decadente borghese, alienato dalla vita, svilito da un «eroismo della debolezza» (in questo caso andato incontro allo scacco!)36, che cerca di vivere il proprio eros sublimato attraverso la scienza in un luogo di frontiera. Mentre l’Aschenbach di Mann troverà la morte per colera sospinto dall’attrazione fatale per il giovane narciso Tadzio, l’anatomista ebreo assimilato troverà nella piccola ragazzina francese, «personificazione di una raffinata cultura occidentale in partibus infidelium», la dimostrazione via negativa della sua irriducibile condizione ebraica37.
Dov’è, dunque, che compare il senso antisemita? L’anatomista tedesco, che odia profondamente i colori e le lucentezze della città sul Bosforo, che si sente dentro di sé occidentale «nonostante la forma rivelatrice del naso», esperisce l’esistenza del senso antisemita nella purezza, nella sessualità germinante e inconsapevole dell’eros sublimato. Edmée non può abbandonare la sua cultura, la sua eredità, naturalisticamente ipotastizzata nel corso dei secoli: il suo antisemitismo apparentemente biologico, nonostante l’esperienza del mondo trasmessa dal girovagare paterno, è un dato irriducibile. In questa rappresentazione si cela, forse, uno degli aspetti salienti di un certo impressionismo simbolistico dai tratti ribellistici. Come nota Mittner nel suo insuperabile ritratto della galassia letteraria tedesca di fine secolo, l’Erlebensphilosophie diltheyana soggettivizzò la vita e la trasfuse in una “esperienza vissuta” personale, che venne oggettivizzata, rivalutandola come verità storica da altri vissuta. «Quanto sia pericolosa (anche e specialmente nei rapporti fra una nazione e le altre) tale relativizzazione soggettivistica del vero, appare dalla frequente contrapposizione dell’Erlebnis ad un’altra parola di moda, alla “mentalità”. Ciò che è il mio vivo e quindi vero Erlebnis, è negli altri (e in particolare nelle altre nazioni) una sempre uguale, statica (e quindi morta) mentalità. La mentalità altrui è riconosciuta come dato di fatto incontestabile; ma una mediazione fra l’Erlebnis e la mentalità (come fra la Kultur e la Zivilisation) e quindi anche un vero colloquio fra me e gli altri, fra la mia nazione e le altre nazioni è negata anche in linea pratica»38.
La scena-chiave del racconto si svolge alla conclusione di una giornata, allorquando Edmée, come d’abitudine, si reca a trovare l’anatomista nel giardino dell’albergo per comunicargli che lei e la sua famiglia stanno per partire. Di fronte a un improvviso sussulto, a un tentativo da parte dell’altro di stringerla a sé, quasi come nel tentativo di non abbandonare la sfuggente cultura ariana, sempre uguale a se stessa, e come tale preclusa, Edmée gli sussurra:
Anch’io sentirò la tua mancanza, mio solo amico di Prinkipo39.
L’anatomista rimane sbigottito di fronte a un’affermazione che chiaramente dimostra come l’eterea ragazzina, «colomba bianca [occidentale] tra i corvi neri [orientali]», abbia capito la sua passione a un tempo sensuale e intellettuale. Lui, dunque, è l’unico amico di Edmée; e Cléo, la sua compagna di giochi? La risposta non lascia adito a fraintendimenti. L’io narrante esita nel riportarla, quasi come se si rendesse conto del naturale senso antisemita che trasmette alla mentalità del lettore nazionalista, convinto delle insuperabili barriere in cui è diviso il genere umano. Alla fine, però, il sionista militans prevale sull’omertosa sensibilità cosmopolita dell’esteta decadente:
Cléo? Oh, sapete, lei è un’ebrea, e con questo è tutto detto! Non mi è piaciuta affatto Prinkipo. Ci sono così tanti ebrei. Sono così volgari. Non li sopporto. E voi?40
Edmée, che ignorava che il suo interlocutore fosse di origini ebraiche, è lo specchio di una condizione esistenziale conflittuale e profondamente scissa, irriducibile secondo la propria Anschauung (visione). Bisogna solo aggiungere che proprio in quegli anni, dopo il rientro dalla sfortunata esperienza editoriale a Costantinopoli per conto dell’Organizzazione sionistica41, Jabotinsky era una delle penne sioniste più battagliere sulla stampa ebraica dell’Impero russo42. Questo racconto d’appendice rappresenta una delle dimostrazioni più riuscite della sua letteratura – non sempre consapevolmente – pedagogica, che nell’impressionismo simbolistico è stato capace di rivelare il proprio conflitto interiore e la scelta finale – non scevra di riluttanza estetica! – per il sionismo.
Il terzo scritto di Jabotinsky che prendiamo in esame è il romanzo Sansone il Nazireo, pubblicato per la prima volta a puntate in russo nel 1926-27 sul «Rasswjet» (il romanzo è noto anche per essere stato alla base della sceneggiatura del colossal hollywoodiano del 1949)43. La storia, tratta assai liberamente dal libro biblico dei Giudici (13-16), ritrae perfettamente il canto del cigno del decadentismo impressionistico letterario del fine secolo, che si riflette nella coeva rivisitazione di scenari biblici operata da scrittori di fama mondiale (vedi il Giuseppe e i suoi fratelli di Mann). La città filistea di Timna appare simile a Cartagine, a Roma del tardo impero, a Bisanzio, a quei nidi di corruzione e disfacimento che hanno bisogno di “altri” (mercenari, gladiatori, schiavi, puri di cuore, asceti), ammirati come puri selvaggi perché muscolosi o perché moralmente intransigenti. Dalila è la femme fatale, a un tempo perversa e innocente, il destino cui soggiace il decadente Sansone, che respinge sino alla fine dei suoi giorni l’alter ego Karni, sua giovane compaesana, preferendo comunque la Gaza filistea alla sua gente: evasione nella splendida barbarie la prima donna; evasione nella fiaba dell’infanzia la seconda44. Il romanzo-manifesto della ribellione sionista di fine secolo è paradossalmente il miglior ritratto di quanto poco “ebraico” fosse in spiritu. Il protagonista conduce un’esistenza parallela: è il Tayish estroverso e giocoso tra i filistei; è il Sansone introverso e taciturno tra i daniti. L’attrazione dell’esteta per la vita si trasfigura in quella dell’ebreo sradicato per la Kultur ariana, che individua un muro tra le tradizioni proprie e quelle altrui, sospeso in un limbo spirituale che lo sospinge tuttavia verso la casa aliena. Imprigionato a Gaza e senza la forza della sua chioma corvina, Sansone viene tentato dal Saran di Ekron, che, prima di accecarlo, gli offre un posto di generale nel suo esercito. Perché una richiesta di questo tipo? Il capo filisteo è ben consapevole che Tayish ama il suo popolo. Ma Sansone obietta in questi termini:
“Ama”? “Non ama”? rispose Sansone con scherno. “Sei un uomo saggio, a adesso mi parli nel linguaggio delle donne. É l’amore che decide che cosa sia mio e che cosa non sia alieno? Tu ami l’ufficio di Saran? Ami pagare le tasse e giudicare i ladri? Ho sentito molte cose sul tuo conto: a te piacciono i rotoli di papiro, le stelle nel cielo e le storie dei vecchi marinai. E tu sei ancora un Saran.
“Mio padre fu un Saran”, disse la voce dall’oscurità, “e tutti i miei antenati”.
“Vedo l’implicazione”, disse Sansone, e c’era rabbia nella sua voce. “Non tenerlo in considerazione. Anche se ciò che hanno sentito le tue orecchie dell’assemblea in Zorah dovesse essere vero – allora? Anche se una sfilza di miei antenati suonasse la lira e indossasse il copricapo colorato, l’altro striscerebbe ancora come una formica nella schiavitù e nel deserto – come una formica scaverebbe cunicoli nella terra secca del suo paese maledetto, e rosicchierebbe e divorerebbe qualsiasi cosa trovasse sulla strada. Può darsi che al momento della mia nascita queste due venissero faccia a faccia, ma anche se fosse, la formica in me ha sempre rosicchiato da molto tempo le penne lucenti del copricapo filisteo. Il vostro sangue è un calice di vino; l’altro un calice di veleno. Se essi fossero mescolati, che ne sarebbe del vino oggi? Non sono uno di voi! Invitami alle tue feste, filisteo, e io verrò e ti aiuterò a trascorre il tempo piacevolmente, anche se la festa avesse luogo intorno alla mia esecuzione. Berrò e scherzerò con te allegramente. Ma edificare? Tu mi hai detto “edificare”? Con voi? Su di voi? Io non credo in voi45.
Il senso antisemita, la barriera invisibile e irremovibile che separa le culture, ricompare prepotentemente nella chiusa del romanzo, un’epistola di un’anonima principessa egizia testimone delle gesta finali di Sansone, salvatasi miracolosamente dalla conflagrazione dei filistei. Ancora una volta il dilemma tipicamente decadentistico tra arte e vita, ancora una volta l’inevitabile autodistruzione dell’ego dissolto:
Sì, mio caro Tefnaht, la mia salvezza fu veramente un miracolo tra i miracoli; perché non c’è sicuramente niente di più misterioso, niente di più maestoso, che quell’intangibile qualità, che dimora nell’animo di un popolo intero, che lo distingue dalle altre nazioni della terra; il più insolubile degli enigmi, si rivelò a me quella notte non solo in quella persona enigmatica, ma nel popolo che lo amò, lo accecò e perì con lui nello stesso incendio46.
3. La tarda volgarizzazione economicistica: “antisemitismo degli uomini” e “antisemitismo delle cose”
La dialettica antisemitismo-sionismo, trasposta in spaeculo nelle opere letterarie, ricompare prepotentemente negli ultimi anni dell’attività politica jabotinskiana in seno alla Nuova Organizzazione sionistica47. Fu proprio nella disperata lotta per un’emigrazione ebraica di massa in Palestina nella seconda metà degli anni Trenta che Jabotinsky coniò il distinguo tra “antisemitismo delle cose” e “antisemitismo degli uomini”. Va subito detto che la predilezione del primo come causa della progressiva e inevitabile espulsione degli ebrei dai paesi della Diaspora era chiaramente un’arma politica che il capo revisionista cercò vanamente di utilizzare di fronte alla progressiva – e definitiva – conversione antisionista da parte del governo britannico dell’epoca, stretto tra l’incudine (nazista) e il martello (dei paesi arabi)48. In secondo luogo, un esame attento di queste formule spesso ridondanti rivela una volgarizzazione economicistica del materialismo storico di chiaro retaggio marxista. Nonostante che la teoria dell’antisemitismo jabotinskiana mancasse di originalità, vi sono tuttavia spunti di notevole interesse se connessi al coevo panorama politico europeo (quello, per intenderci, della seconda metà anni Trenta, con la crescente pressione della questione dei rifugiati ebrei e la vana ricerca di soluzioni territorialistiche alla Palestina, con Jabotinsky nelle vesti di profeta inascoltato) e alla rilettura eterodossa marxista della questione ebraica compiuta anni addietro da Borochov49.
Partiamo dalla teoria politica. Nel 1938 Jabotinsky pubblicò il volume Der Judenstaat, opera in cui, rifacendosi nel titolo e nella struttura all’opuscolo di Herzl di quarant’anni prima, egli espose il fulcro della filosofia della storia sionista: la necessità mondiale dello Stato degli ebrei in Palestina50. Il distinguo tra l’antisemitismo degli uomini e quello della forza delle cose, qui solo abbozzato, venne esposto più marcatamente nel volume The Jewish War Front, redatto nel febbraio 1940 come base propagandistica per la creazione di un esercito ebraico che combattesse le armate del male naziste a fianco delle democrazie occidentali. Sul primo tipo di antisemitismo, riscontrabile nel Reich hitleriano, Jabotinsky fu tutto sommato piuttosto reticente: in Germania fu scoperto l’antisemitismo moderno e fu proclamato il principio che l’obiezione all’ebreo non era religiosa ma razziale, e che egli doveva perciò essere perseguitato anche se battezzato. «L’antisemitismo è tradizionalmente e organicamente endemico in Germania; non solo in Germania, ma in nessun altro paese maggiormente che in Germania. Ora, non essendo né un sociologo né uno studente in psicologia, l’autore non cercherà di spiegare il fenomeno: ma solo uno sciocco o un bugiardo lo negherebbe»51. Ciò detto, infatti, l’autore esaminava le motivazioni dell’antisemitismo su basi meramente economiche, come il valore della proprietà ebraica in Germania, cercando di dimostrare che, quand’anche gli Alleati avessero sconfitto il nazismo e reinstaurare la democrazia liberale, la posizione economica ebraica sarebbe stata ineluttabilmente perduta. L’antisemitismo degli uomini riconduceva mutatis mutandi a quello della forza delle cose.
L’antisemitismo delle cose occupava ben cinque capitoli del libro di Jabotinsky: si partiva eziologia della malattia per concludersi nella terapia risolutiva. Mentre l’antisemitismo degli uomini aveva fondamentalmente un carattere morbido, febbrile e fluttuante, quello delle cose era costante e immutabile, e perciò appariva assai più formidabile:
Esso deriva dalla discriminazione istintiva che ogni persona normale compie tra il suo “proprio genere” e quello estraneo. Esso non ha bisogno di essere odiato; ha bisogno di non aver nulla a che fare con la repulsione effettiva. Può essere dormiente nelle condizioni normali, e può restare tale per generazioni, per ridestarsi solo quando c’è una competizione appassionata, per qualche richiesta essenziale, quando la scelta è tra il proprio affine e l’estraneo, ed emerge l’istinto dell’autodifesa. Anche allora esso non ha bisogno (anche se può) di divampare in uno scoppio violento: può rimanere precisamente cortese, mentre interiormente è crudele – come nell’esempio baltico; o può correre qua e là preso da pazzia sanguinaria, come a volte succede in Polonia. Non è la forma che importa, ma lo spirito. Quello spirito è l’inestinguibile consapevolezza di ogni gentile che il suo vicino ebreo non è “del suo genere”, e di ogni ebreo che i suoi amici ariani non sono “del suo genere”. Non c’è alcun male intrinseco in questa consapevolezza; non è d’ostacolo a una decente relazione di vicinato, all’aiuto reciproco, persino all’amicizia, finché il “clima” sociale è favorevole. Nel “clima” dell’Europa centro-orientale esso diventa la sentenza di morte dell’ebreo52.
Jabotinsky esamina il caso-limite di questo “clima”: la Polonia del ventennio interbellico (il «ghetto polacco»)53. La tesi di fondo era che le radici della tragedia ebraica fossero da ricercare nei cambiamenti economici, sociali e politici che causarono la disintegrazione delle comunità chiuse e la penetrazione della gente di città negli ambiti economici “ebraici”. All’alba del XX secolo iniziò la liquidazione del proletariato industriale a favore della meccanizzazione dell’industria, dei “robots” (la cosiddetta «crisi del proletariato»)54: «Il risultato [...] fu la promozione del disoccupato da quella che – in condizioni normali – era una riserva fluttuante comparativamente moderata, al rango di classe sociale permanente; e una classe – anche in condizioni normali – di grande importanza numerica»55. Le posizioni economiche tradizionalmente concesse agli ebrei iniziarono a essere violentemente messe in discussione, in special modo in seguito alla ricostruzione economica degli anni Venti. L’interpretazione “meccanizzata” del carattere elementare della tragedia ebraica in Polonia poteva essere in parte o totalmente esatta, oppure errata. La cosa essenziale era l’inesorabile pressione antiebraica delle cose. I governi potevano prevenire o punire gli hooligan, ma non potevano cambiare il “clima” della struttura sociale. La guerra era, da questo punto di vista, un punto di non ritorno (vedi l’esempio del distretto di Lublino, quello a maggiore concentrazione ebraica): l’economia ebraica polacca, e con essa l’esistenza della grande comunità autoctona, era ormai morta56.
L’analisi economica di Jabotinsky, pur non priva di considerazioni suggestive sul «grande balzo» (economico) polacco in avanti che paiono richiamare lontanamente le considerazioni socioeconomiche sulle origini del nazionalismo fatte da Gellner57, è stata esaminata dallo storico dell’ebraismo polacco Tomaszewski. Dopo aver esaminato lo sviluppo economico della Polonia nel ventennio interbellico, egli è giunto alla seguente conclusione:
Sono incline a concludere che – contrariamente alle concezioni di Jabotinsky – ci fosse una possibilità di proseguire una modernizzazione fondamentale dell’economia e della società polacche, sebbene ciò sarebbe stato un processo lungo e difficoltoso, con dolorose esperienze in abbondanza per quelli che avrebbero perso i loro mezzi di sostentamento nella prima fase. Le abilità, le usanze laboriose, e il capitale (per quanto modesto) della comunità ebraica in Polonia avrebbe potuto giocare un rilevante ruolo positivo. L’antisemitismo che si rafforza e l’emigrazione forse crescente, avrebbero impedito comunque la trasformazione del paese.
Un ulteriore punto debole dell’analisi di Jabotinsky deve essere aggiunto. Sebbene egli dichiarasse che le sue opinioni erano lontane dal marxismo, in realtà egli fece riferimento a concetti marxistici, e in una loro forma volgarizzata. Egli scorse le cause dell’ “espulsione” degli ebrei e della discriminazione quasi esclusivamente in fenomeni economici e nelle trasformazioni sociali determinate dai primi, e prese poco in considerazioni fattori di natura differente. L’atteggiamento antisemita in Polonia (e in Germania) non poteva essere confinato a quel dominio, e la loro fonte doveva anche essere ricercata negli stereotipi tradizionali e nei miti largamente associati con la cristianità. “L’antisemitismo delle cose” ebbe invece un impatto fondamentale sul futuro degli ebrei in Polonia, ma non si può sottovalutare “l’antisemitismo degli uomini”58.
Se dunque la teoria jabotinskiana dell’antisemitismo era una chiara volgarizzazione economicistica del materialismo marxista, proveniente – non si dimentichi – da un uomo che aveva sempre riconosciuto il proprio debito intellettuale verso la filosofia della praxis di Antonio Labriola59, resta da chiedersi se e a chi Jabotinsky si fosse ispirato. La sua teorizzazione fu un semplice «cut and glue», una forzatura propagandistica dettata dalla contingenza politica? In Der Judenstaat egli aveva citato in progressione Achad Ha’am, Nordau, Borochov ed Herzl quali suoi referenti spirituali sionisti nell’elaborazione della sua teoria sugli antisemitismi. Se ci rifacciamo all’epistemologia empiriocriticista, cercando di contemperare le sue implicazioni – più o meno volute – sull’estetica impressionistica e sulla vulgata empiriomonistica nella Russia dell’epoca, ci pare che la rilettura jabotinskiana possa essere anche vista come un esito delle formulazioni borochoviane, in special modo di quelle del periodo prebellico, allorquando Borochov, costretto all’esilio dopo l’imprigionamento susseguente allo scioglimento della I Duma, girovagò per l’Europa occidentale, soffermandosi specialmente a Vienna, dove intraprese gli agognati studi filosofici, e, sulla base di ricerche empiriche sulla fisionomia e fisiologia della classe lavoratrice ebraica russa, formulò compiutamente la sua teoria della «piramide rovesciata»: l’anomalia della piramide professionale ebraica risiedeva nell’esistenza di una proporzione esagerata e distorta di persone occupate in settori lontani da quelli primari di produzione (agricoltura, allevamento e industria)60. Quali sono gli indizi che inducono a ravvisare l’esistenza di analogie tra il materialismo marxista di Borochov e quello sui generis di Jabotinsky?
Innanzitutto possiamo riscontrare sia una comunanza terminologica, sia una chiara riduzione monistica dei processi economici e mentali che tende a considerare la conoscenza non solo come una forma dell’adattamento dell’organismo all’ambiente, ma anche come un adattamento sociale. Nonostante le implicazioni politiche differenti (l’uno cercava di unire dialetticamente la lotta nazionalista e quella classista, l’altro di fondere le classi in un corpo nazionale unico e autosufficiente), i due intellettuali sionisti russi, nel disperato tentativo di dimostrare scientificamente la liquidazione della Diaspora e la «spontanea» immigrazione ebraica in Palestina, ricorsero ad argomenti retaggio di un background storico-culturale comune. Questo “clima” fluido e contraddittorio, nel quale la critica all’epistemologia positivista del fine secolo stava producendo profonde lacerazioni spirituali tra l’anima cosmopolita e quella nazionalista, tra il realismo naturalistico e l’idealismo soggettivistico, traspose una lettura della dialettica antisemitismo-sionismo profondamente riduttiva, che ricorreva a leggi determinate, a processi stichici e a dati di fatto storicamente necessari e ineluttabili. In questo progressivo processo di adattamento all’ambiente, il senso antisemita funse da specchio riflettente e da principio di individuazione. Il sionismo costruì quel minimo comune denominatore necessario all’elaborazione di una propria identità personale, prim’ancora che collettiva.
4. Conclusioni
Nel vestibolo a L’odio di sé ebraico (1930) Theodor Lessing definisce in questi termini l’antisemitismo:
Dietro il fenomeno sociologico classificato come antisemitismo (per opera del quale l’intera identità di un popolo è stata definita come “odium generis humani”) non ci sono allora soltanto malvagità d’animo, egoismo nazionale, odi e invidie maturati nella concorrenza tra i popoli. C’è anche una legge. Una legge dell’ “attribuzione di senso all’assurdo”. Una legge storica che risale dalle profondità più remote.
É la stessa legge che provoca rancori e inimicizie nei destini dei singoli individui. Quante volte accade infatti che fratelli, amanti e amici si allontanino per sempre soltanto perché nessuno vuole raccogliersi in se stesso e ammettere i propri torti, e tutti scelgono invece la strada più naturale e più a portata di mano: “Se faccio del male a qualcuno, giustifico la mia azione sulla base del carattere dell’altro”61.
Questo vivido ritratto di Lessing ha l’obiettivo precipuo di dimostrare che l’antisemitismo non è in fondo che l’esito di quella che uno psicanalista reichiano definirebbe “fase narcisistica”62: l’ebreo, incapace di assumersi le proprie responsabilità nella costruzione della propria identità individuale, che preferisce devolvere a terzi, conduce un’esistenza di apparenze, incapace di essere pienamente e compiutamente ciò che egli è. L’esistenza “autentica” passa attraverso la riappropriazione integrale dell’ego scisso e riflesso, che è possibile attraverso il «ritorno a Gerusalemme», cioè il sionismo63. Non a caso, poche pagine più in là, nel delineare le tre vie d’uscita dell’ebreo dal dolore dell’odio di sé, Lessing aggiunge:
Chi sei? Sei forse il figlio di Nathan, l’ebreo trafficone e svagato, e di Sarah l’ottusa, che egli ingravidò senza badarci troppo, visto che gli portava in dote denaro a sufficienza? No! Giuda Maccabeo era tuo padre, la regina Ester tua madre. Da te, da te soltanto, per quanto offese possano essere le tue membra, muove la catena che risale fino a Saul, a Davide e a Mosè. Essi vivono sempre e in ognuno. E vivono da sempre e possono domani vivere ancora64.
L’ebreo decadente e sionista ritratto da Jabotinsky, immerso in un flusso di sensazioni di cui non riesce a scorgere una direzione (l’ideale), presenta alcune analogie con quello di Lessing. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a una persona sradicata che, estranea a due Weltanschauungen ritenute incomponibili (quella “ariana” e quella “semita”, estetica contro etica), opta per quella che ritiene offra migliori garanzie psicologiche per la propria condizione esistenziale. L’operazione è tutt’altro che scontata, consta di numerosi passaggi dolorosi e di rimozioni della propria sensibilità a favore di una nazione spirituale oggettivizzata e per certi versi naturalizzata. Il senso antisemita, lo specchio che riflette la condizione ebraica, funge da catalizzatore della costruzione identitaria sionista. Spiritualmente come materialisticamente, l’antisemitismo conduce al nazionalismo, un – non il! – responso ebraico all’unrettbare Ich dello Jugendstil viennese. Jabotinsky, nella sua “conversione all’ebraismo prima del ritorno alla Terra promessa” (nota espressione herzliana per definire il sionismo politico), è stato un esempio significativo del ventaglio di scelte spirituali conflittuali a disposizione in un’epoca di grandi mutamenti politici e culturali. A un secolo di distanza, in un periodo di altrettanti mutamenti politici e culturali, c’è solo da sperare che l’unica risposta a un saccente nichilismo non resti il ritorno alle origini e la difesa aprioristica di verbi e di formule catechetiche, di religioni immanenti o trascendenti che siano. La Kultur deve essere un ponte tra visioni, giammai un muro invalicabile.
Note
1 Cfr. H. Arendt, The Origins of Totalitarianism [trad. it. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 19963, p. 168]: «Così si chiuse un episodio [l’affaire Dreyfus] che aveva portato le forze sotterranee del XIX secolo. Esso non ebbe altra conseguenza visibile che la nascita del sionismo, l’unica risposta politica che gli ebrei seppero trovare al movimento antisemitico e, insieme, l’unica loro ideologia che prese sul serio quell’ostilità che li avrebbe spinti al centro degli avvenimenti mondiali».
2 Sulla diatriba tra “storici dell’establishment” e “nuovi storici” mi permetto di rimandare al mio saggio La costruzione dell’identità nazionale israeliana. Struttura e crisi del paradigma sionista, «L’Acropoli», II, 6, dicembre 2001, pp. 582-604.
3 A. Shapira, Anti-Semitism and Zionism, «Modern Judaism», XV, 3, 1995, p. 218.
4 Intorno alle matrice organicistica del sionismo, con special riferimento alla corrente laburista, si veda Z. Sternhell, The Founding Myths of Israel [trad. it Nascita di Israele. Miti, storia, contraddizioni, Baldini & Castoldi, Milano 1999].
5 Shapira, Antisemitism, cit., p. 222.
6 Cfr. S. E. Aschheim, Brothers and Strangers. The East European Jew in German and German Jewish consciousness, 1800-1923, University of Wisconsin Press, Madison 1982; J. M. Efron, The “Kaftanjude” and the “Kaffeehausjude”. Two Models of Jewish Insanity. A Discussion of Causes and Cures Among German-Jewish Psychiatrists, «Leo Baeck Institute Yearbook», XXXVII, 1992; S. L. Gilman, Smart Jews. The construction of the image of Jewish superior intelligence, University of Nebraska Press, Lincoln and London 1996.
7 Cfr. S. L. Gilman, The Jew’s Body, Routledge, London and New York 1991; G. L. Mosse, Max Nordau: Liberalism and New Jew, «Journal of Contemporary History», XXVII, 1992, pp. 565-579; Max Nordau (1849-1923). Critique de la dégénérescence, médiateur franco-allemand, père fondateur du sionisme, par Delphine Bechtel, Dominique Bourel et Jacques Le Rider, Éditions du Cerf, Paris 1996.
8 Cfr. J. H. Schoeps, Theodor Herzl. Wegbereiter des politischen Zionismus, Musterschmott Gottinga, Zürich und Frankfurt am Main 1975; A. Bein, Theodor Herzl. Biographie, Ullster Materiellen, Frankfurt am Main 1983; N. H. Finkelstein, Theodor Herzl, F. Watts, New York 1987; J. Kornberg, Theodor Herzl: from assimilation to Zionism, Indiana University Press, Bloomington 1993; G. Shimoni e R. S. Wistrich (a cura di), Theodor Herzl: visionary of the Jewish State, Herzl Press, New York 1999.
9 Cfr. C. Schulte, Psychopatologie des Fin de siècle: der Kultukritiker, Arzt und Zionist Max Nordau, Fischer Taschenbuch Verlag, Frankfurt am Main 1997; A. Murphy, Max Nordau’s fin-de-siècle romance of race, Peter Lang Publishing, New York 2000.
10 Cfr. J. H. Schoeps, Leon Pinsker: “Autoemancipation! – Ein Mahnruf von 1882, in Beter und Rebellen aus 1000 Jahren Judentum in Polen, herausgegeben von Michael Brocke, Deutscher Koordinierungsrat der Gesellschaft für Christlich-Jüdische Zusammenarbeit, Frankfurt am Main 1983, pp. 223-232.
11 Seguace dell’haskalah, l’Illuminismo ebraico.
12 Cfr. G. Irving, Moshe Leib Lilienblum. An Intellectual Biography, Brandeis University Press, Philadelphia 1968.
13 Cfr. S. E. Zipperstein, Elusive Prophet. Achad Ha’am and the Origins of the Zionism, University of California Press, Berkeley 1993.
14 Cfr. H. Kohn, Martin Buber. Sein Werk und seine Zeit. Ein Beitrag zur Geistesgeschichte Mitteleuropas 1880-1930, Josef Melzer Verlag, Köln 1961; G. G. Schmidt, Martin Buber’s Formative Years. From German Culture to Jewish Renewal, 1897-1909, The University of Alabama Press, Tascaloosa and London 1995.
15 Cfr. N. Orland, Israels Revisionisten. Die geistigen Väter Menachem Begins, tuduv Buch, München 1978; L. Brenner, The Iron Wall. Zionist Revisionism from Jabotinsky to Shamir, Zed Books, London 1984; Y. Shavit, Jabotinsky and the Revisionist Movement, 1925-1988, Frank Cass, London 1988; M. Schattner, Histoire de la Droite israélienne De Jabotinsky à Shamir, Editions Complexe, Bruxelles 1991; P. Di Motoli, La destra sionista. Biografia di Vladimir Jabotinsky, M & B Publishing, Milano 2001.
16 Sull’Odessa ebraica si veda S. Zipperstein, The Jews of Odessa: A Cultural History, 1794-1881, University Press, Stanford (California) 1985.
17 La figura di Jabotinsky ci pare sia accostabile, con tutti i distinguo del caso, a quella di Miguel De Unamuno (1864-1936), uno dei principali intellettuali spagnoli del secolo scorso e rettore per decenni della prestigiosa Università di Salamanca. Un passo del suo noto Commento alla vita di Don Chisciotte sintetizza al meglio le assonanze tra le due philosophiae existentiae: «Vera è ogni cosa che alimenta nobili slanci e partorisce opere feconde; ed è falsa ogni cosa che soffoca gli impulsi generosi e produce sterili aborti. Dai frutti reali ch’essi danno conoscerete gli uomini e le cose. Ogni credenza la quale generi opere di vita è credenza di verità; e lo è di menzogna ognuna che conduca a opere di morte. Il criterio della verità è la vita, non la coerenza logica che lo è soltanto dell’intelletto. Se la mia fede mi spinge a dare o a creare incremento alla vita, quale altra prova vorreste delle verità della mia fede? Quando le matematiche uccidono, sono false anche le matematiche. Se mentre procedi, morente di sete, ti appare d’un tratto una visione di ciò che chiamiamo acqua e ti accosti e ne bevi, e placata la sete ti senti rinascere, quella visione era veritiera e l’acqua è acqua per davvero. Verità è ciò che muovendoci a operare in qualche modo, fa sì che il risultato si adegui al nostro proposito». (M. De Unamuno, Commento alla vita di Don Chisciotte, Dall’Oglio, Milano 1964, pp. 122-123). Che Jabotinsky contemplasse tra le sue letture anche l’autore del senso tragico del vivere umano è affermato da J. Heller, Jabotinsky’s use of national myths in political struggles, «Studies in Contemporary Jewry», XII, 1996, pp. 185-201; Id., Zeev Jabotinsky and the Revisionist Revolt against Materialism – In Search of a World View, «Jewish History», XII, 2, autunno 1998, pp. 51-67.
18 Cfr. A. Stone Nakhimovsky, Russian-Jewish Literature and Identity. Jabotinsky, Babel, Grossman, Galich, Roziner, Markish, The Johns Hopkins University Press, Baltimore and London 1998; I. Kleiner, From Nationalism to Universalism. Vladimir (Ze’ev) Jabotinsky and the Ukrainian Question, with a Foreword by Wolf Moskovich, Canadian Institute of Ukrainian Studies Press, Edmonton 2000; M. Stanislawski, Zionism and the Fin de Siècle. Cosmopolitanism and Nationalism from Nordau to Jabotinsky, University of California Press, Berkeley, Los Angeles and London 2001.
19 La dedica di Musil a Mach nel suo capolavoro, L’uomo senza qualità, nonché la sua dissertazione sulle teorie del filosofo austriaco, sono esempi alquanto sintomatici. A questo riguardo si veda V. De Angelis La forma dell’improbabile: teoria del romanzo saggio, Bulzoni, Roma 1990; R. Musil, Sulle teorie di Mach, Adelphi, Milano 19932, X. Verley, Mach, un physicien philosophe, Presse universitaire de France, Paris 1998. Sull’ “uomo senza qualità” si veda L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1971, vol. III2 (Dal realismo alla sperimentazione. Dal fine secolo alla sperimentazione), tomo 2, § 479-481.
20 Cfr. J. Scherrer, Bogdanov e Lenin: il bolscevismo ad un bivio, in Storia del marxismo, vol. II: Il marxismo nell’età della Seconda Internazionale, Einaudi, Torino 1979, pp. 493-546; D. Steila, Scienza e rivoluzione. La recezione dell’empiriocriticismo nella cultura russa (1877-1910), Casa Editrice Le Lettere, Torino 1996.
21 Cfr. M. Mintz, Borochov ve-Bogdanov, «Ba-derekh», I, settembre 1967, pp. 96-122, A. Yassour, Philosophy – Religion – Politics: Borochov, Bogdanov and Lunacharsky, «Studies in Soviet Thought», XXXI, 3, aprile 1986, pp. 199-230. Sul personaggio mi permetto di rimandare al mio saggio Monismo o dualismo? Ber Borochov e la problematica sintesi tra marxismo e sionismo (1902-1917), «Studi Storici», XLI, 3, 2000, pp. 871-906.
22 A questo riguardo si veda S. Beller, “Pride and Prejudice” or “Sense and Sensibility”? How reasonable was anti-Semitism in Vienna, 1880-1939?, «Essential Outsiders», 1997, pp. 99-124.
23 Cit. P. Kampits, Ernst Mach oder Das unrettbare Ich, in Id., Zwischen Schein und Wirklichkeit. Eine kleine Geschichte der österreichischen Philosophie [trad. it. Fra apparenza e realtà: breve storia della filosofia austriaca, a cura di Ulrike Ternowitz, F. Angeli, Milano 2000].
24 Cfr. R. S. Wistrich, The Jews of Vienna in the age of Franz Joseph [trad. it. Gli ebrei di Vienna, 1848-1916. Identità e cultura nella capitale di Francesco Giuseppe, Rizzoli, Milano 1994]; C. E. Schorske, Fin de siècle Vienna [trad. it. Vienna fin de siècle. La culla della cultura mitteleuropea, Bompiani, Milano 1995]; J. W. Boyer, Culture and political crisis in Vienna: Christian socialism in power, 1897-1918, University Press, Chicago 1995; S. Beller (a cura di), Rethinking Vienna 1900, Berghahn Books, New York and Oxford 2001; D. Rechter, The Jews of Vienna and the First World War, Littman Library of Jewish civilisation, London and Portland (Oregon) 2001.
25 Cit. P. Hanak, The Garden and the Workshop. Essays on the Cultural History of Vienna and Budapest, University Press, Princeton (New Jersey) 1998, p. 148.
26 Cfr. B. Glatzer Rosenthal and M. Bohachevsky-Chomiak, A Revolution of Spirit. Crisis of Value in Russia, 1890-1924, Fordham University Press, New York 1990; J. Elsworth (a cura di), The Silver Age in Russian Literature. Selected Papers from the Fourth World Congress for Soviet and East European Studies, Harrogate, 1990, St. Martin’s Press, New York 1992; O. Ronen, The Fallacy of the Silver Age in Twentieth-Century Russian Literature, Harwood Academic, Amsterdam 1997.
27 V. Giabotinsky, Anton Chekov e Maksim Gorkij. L’impressionismo nella letteratura russa, «Nuova Antologia», XCVI, 720, novembre-dicembre 1901, pp. 732-733.
28 Cfr. J. B. Schechtmann, The Life and Times of Vladimir Jabotinsky, vol. I: Rebel and Statesman. The Early Years, Eshel Books, Silver Springs (Maryland) 1986, pp. 132-135; S. Katz, Lone Wolf. A Biography of Vladimir (Ze’ev) Jabotinsky, Barricade Books, New York 1996, vol. I, pp. 88-91.
29 Cfr. A. Dieckhoff, L’invention d’une nation. Isräel et la modernité politique, Gallimard, Paris 1993, p. 228.
30 Cfr. Y. Nedava, Jabotinsky and the Bund, «Soviet Jewish Affairs», III, 1, 1973, pp. 37-47.
31 Da chassidismo, movimento mistico ebraico sorto in Polonia all’inizio del XVIII secolo.
32 Cfr. M. Stanislawski, Jabotinsky as Playwright: New Texts, New Subtexts, «Studies in Contemporary Jewry», XII, 1996, pp. 48-51.
33 Cit. ivi, pp. 51-52.
34 Cfr. L. Engelstein, The Keys to Happiness. Sex and Search for Modernity in Fin-de-Siècle Russia, Cornell University Press, Ithaca (New York) and London 1992, § 8.
35 Cfr. W. Jabotinsky, Edmée (Die Erzählung eines alten Arztes), in Id., Feuillettons, herausgegeben von Karl Baum, Verlag Dr. R. Färber, Mähr (Ostrau) 1930, pp. 103-112. (Stiamo curando un’edizione italiana dei Feuilletons di Jabotinsky che uscirà in autunno presso la M & B Publishing di Milano).
36 Cfr. Mittner, Storia della letteratura tedesca, cit., vol. III2, tomo 1, § 342.
37 Cfr. Stanislawski, Zionism and the Fin de Siècle, cit., pp. 203-207.
38 Mittner, Storia delle letteratura tedesca, cit., vol. III2, tomo 1, pp. 875-876.
39 Jabotinsky, Edmée, cit., p. 112. (Nella versione di Edmée contenuta nella raccolta di racconti in inglese pubblicata da Jabotinsky a Parigi nel 1925, A Pocket Edition of Several Stories, Mostly Reactionary, l’“anche” è significativamente evidenziato in corsivo).
40 Ivi, p. 113.
41 Cfr. W. Laqueur, A History of Zionism, Weidenfeld and Nicolson, London 1972, pp. 340-341; Schechtmann, The Life and Times of Vladimir Jabotinsky, cit., § 8; Katz, Lone Wolf, cit., § 6.
42 Sulla battaglie giornalistiche in Russia degli anni precedenti la Grande Guerra si vedano V. E. Zhabotinskii, Fel’etony, San Pietroburgo 1913; Kleiner, Jabotinsky and the Ukrainian Question, cit., § 2.
43 Il romanzo fu pubblicato come libro a Berlino nel 1927 dalla casa editrice Slovo. Tre anni dopo la casa editrice londinese Sheker pubblicò la traduzione in inglese. Sull’opera jabotinskiana si vedano S. Liptzin, Jabotinsky’s Samson, «Dor le Dov», VI, 2, inverno 1977/78, pp. 74-80; A. Stone Nakhimovsky, Vladimir Jabotinsky: Russian Writer, «Modern Judaism», VII, maggio 1987, pp. 151-173; R. Fridman, On the question of the origins of “Samson the Nazirite” by V. Jabotinsky, «Jews and Slavs», IV, 1995, pp. 210-225; Nakhimovsky, Russian-Jewish Literature and Identity, cit., pp. 54-62.
44 Cfr. Mittner, Storia della letteratura tedesca, cit., vol. III2, tomo 1, § 266.
45 Ze’ev Jabotinsky, Samson. The Great Biblical Novel, The Jewish Herald (Pty.) Ltd., Johannesburg 1976, pp. 203-204.
46 Ivi, p. 231. A questo riguardo si veda Stanislawski, Zionism and the Fin de Siècle, cit., pp. 223-236.
47 Cfr. L. Weinbaum, A Marriage of Convenience. The New Zionist Organization and the Polish Government 1936-1939, Columbia University Press, New York 1993.
48 Cfr. U. Dann (a cura di), The Great Powers in Middle East, 1919-1939, Holmes and Meier, London and New York 1988; M. J. Cohen e M. Kolinsky (a cura di), Britain and the Middle East in the 1930s, The Macmillan Press, Basingstone and London 1992.
49 Cfr. J. Frankel, Prophecy and Politics. Socialism, Nationalism and the Russian Jewry, 1862-1917 [trad. it. Gli ebrei russi. Tra socialismo e nazionalismo (1862-1917), Einaudi, Torino 1990, pp. 501-554]; M. Mintz, Bor Borochov, «Studies in Zionism», 5, 1982, pp. 33-53.
50 Cfr. V. Jabotinsky, Der Judenstaat, Glanz, Wien 1938.
51 Cfr. Id., The War and the Jews, with a Foreword by Pierre van Paassen and a Conclusion by Col. John Henry Patterson, New Introductions by Menachem Begin and Dov Shilansky, Biography by Charles Shapiro, New York, Altalena Press, 1987, p. 59.
52 Ivi, pp. 78-79.
53 Sull’ebraismo polacco del ventennio interbellico si veda A. Polonsky e J. Tomaszewsky (a cura di), Jews in indipendent Poland, 1918-1939, London-Washington 1994.
54 Cfr. V. Jabotinsky, Crisis of the Proletariat, 1932; Id., Robot and Workman, 1932.
55 Id., The War and the Jews, cit., p. 89.
56 Cfr. ivi, pp. 90-95.
57 Cfr. E. Gellner, Nations and nationalism [trad. it. Nazioni e nazionalismo, prefazione di G. E. Rusconi, Editori Riuniti, Roma 19972, § 6-7].
58 Cfr. J. Tomaszewski, Anti-Semitism of Men and Anti-Semitism of Things inside Vladimir Jabotinsky’s World of Ideas, in S. Kapralski (a cura di), The Jews in Poland, Judaica Foundation, Center for Jewish Culture, Cracow 1999, vol. II, p. 146.
59 Cfr. Stanislawski, Zionism and the Fin de Siècle, cit., p. 132.
60 Cfr. B. Borochov, Sozialismus und Zionismus. Eine Synthese. Ausgewählte Schriften herausgegeben von Mender Singer, Verlag Zukunft (“Der jüdische Arbeiter”), Wien 1932; Id., Essays on Nationalism Class Struggle and the Jewish People, Young Mapam Marxist-Zionists, London 1971.
61 T. Lessing, Der jüdische Selbsthass [trad. it. L’odio di sé ebraico, Besa, Nardò (Lecce) 2001, p. 29].
62 A questo riguardo è utile il richiamo al saggio di M. Ignatieff, Nationalism and the Narcissism of Minor Differences, in R. Beiner, Theorizing Nationalism, State University of New York Press, Albany 1995, pp. 91-102.
63 Sulle influenze del nietzschianesimo sul sionismo e sull’ebraismo si vedano S. A. Aschheim, Nietzsche and Nietzschean Moment in Jewish Life (1890-1939), «Leo Baeck Institute Yearbook», XXVII, 1992, pp. 189-212; W. Stegmeier und D. Krochmalnik (hrsg), Jüdischer Nietzscheanismus, Walter de Gruyter, Berlin 1997; J. Golomb, Thus Spoke Herzl: Nietzsche’s Presence in Herzl’s Life and Work, «Leo Baeck Institute Yearbook», XLIV, 1999, pp. 97-124.
64 Lessing, L’odio di sé ebraico, cit., p. 54.
Casella di testo
Citazione:
Vincenzo Pinto, Sionismo e antisemitismo: una concordia discors? La dialettica tra sionismo e antisemitismo nel pensiero e nell'opera di Vladimir Ze'ev Jabotinsky, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", I, 2, dicembre 2012
url: http://www.freeebrei.com/anno-i-2-luglio-dicembre-2012/sionismo-e-antisemitismo-una-concordia-discors