Nel campo di Auschwitz, a cura di Adele Valeria Messina
"Free Ebrei", IV, 2, dicembre 2015
Nel campo di Auschwitz: uno schema di analisi sociologica
Intervista ad Anna Pawełczyńska (Varsavia 20 dicembre 2011)[1]
a cura di Adele Valeria Messina
Abstract
Adele Valeria Messina interviews Anna Pawełczyńska and addresses the problem of Jewish survival in post-war Poland
Potete star certi che Colombo non era felice nel momento in cui scoperse l’America, bensì quando era in viaggio per scoprirla [...] L’importante non era quel Nuovo Mondo, che magari poteva anche inabissarsi. [...]
L’importante sta nella vita, solo nella vita, nel processo della sua scoperta, in questo processo continuo ed ininterrotto, e non nella scoperta stessa! [...]
Del resto, voglio aggiungere che ogni idea nuova o geniale concepita da un uomo, o anche, semplicemente, ogni idea seria gemmata nella mente di qualcuno, resta sempre qualcosa che è impossibile trasmettere agli altri uomini, anche se si scrivessero interi volumi
e si impiegassero anche trentacinque anni nell’intento di interpretarli;
rimarrà sempre qualcosa che si rifiuterà in ogni modo di uscire dalla vostra testa e resterà sempre chiuso in voi.
F. Dostoevskij, L’idiota
Adele Valeria Messina: È il 1973 quando esce il suo Wartości a przemoc [Valori e violenza][2]. Su Auschwitz lei non scrive nulla nè durante il conflitto né alla sua fine: solo dopo trenta lunghi anni di silenzio, mette per iscritto la sua esperienza di prigioniera politica.
Anna Pawełczyńska: Tak [sì]... tak.
Adele V. Messina: Leggendo il suo resoconto si percepisce subito l’eco del professore Stanislaw Ossowski. Wartości a przemoc pare la traduzione perfetta di Prawa “historyczne” w socjologii [Le leggi storiche nella sociologia, 1935][3]. Si muove tra concetti sociologici e verità storica. Ma a permetterle di dare una spiegazione sociologica di Auschwitz sono soprattutto i suoi studi ‘sul campo’: quelli di delinquenza giovanile, di ecologia, gli studi urbanistici, così come i lavori sul rapporto tra ambiente, territorio e società, gli anni all’Istituto di demografia in Francia, la ricerca sociale empirica in senso lato. Insomma, per lei, il costrutto sociologico di campo è essenziale nel senso che esso sta alla base della sua ricerca.
Anna Pawełczyńska: Perfetto.
Adele V. Messina: Per sopravvivere ad Auschwitz o meglio alla realtà del campo lei fa di continuo riferimento a un campo di battaglia particolare: quello interno, proprio.
Lei traduce la legge fondamentale del campo: “non fare del male al tuo prossimo e, se puoi, salvagli la vita” [nie krzywdź bliźniego twego i ratuj go, jeśli tylko możesz] in linguaggio sociologico: a riguardo adotta i termini di Wartości [valori]’ e Przemoc [violenza].
Anna Pawełczyńska: Già. Quello è stato il più importante campo di battaglia... Było to najważniejsze pole obozowej walki.
Adele V. Messina: All'interno di Auschwitz si dispiegano due tipi di forze che interagiscono in modo opposto fra di loro, determinando una fase di equilibrio: da un lato, una forza distruttrice, a cui dà il nome di violenza; dall’altro, un meccanismo di difesa, ancora una forza, che reagisce alla violenza – una forza reattiva fatta di legami di solidarietà, che prende il nome di valori; cioè ad Auschwitz si è sopravvissuti perché i valori hanno superato la violenza. Per certi versi, tutto ciò sembra richiamare il concetto di resistenza spirituale. A proposito mi ritornano in mente le parole di Hillel: “Non fare al tuo prossimo ciò che tu non avresti voluto fare a te stesso” e la preghiera ebraica amidah.
Dunque, è stata possibile la santificazione della vita ad Auschwitz?
Anna Pawełczyńska: Tak. Quello che tu metti in luce è una questione interessantissima che riguarda il mio libro. In realtà, io non conosco nei particolari questa preghiera ebraica, l’amidah. Penso che tu faccia riferimento al messaggio generale del libro ovvero ai valori che cerco di trasmettere. Certo, si è rimasti in piedi ad Auschwitz. È stato possibile santificare la vita: dietro c’è stato un continuo e istintivo impulso ad andare avanti. A questo hanno contribuito il credo politico, la fede religiosa; ciò ha reso possibile la resistenza spirituale e non solo a livello individuale.
Per quel che so di ebraismo e cristianesimo, ritengo che esistano dei valori universali e che questi interessino ogni persona: le norme morali riguardano, toccano ciascun uomo senza distinzione di nazionalità, razza o classe sociale.
Una delle differenze tra cristianesimo e giudaismo è che nel giudaismo i valori sono particolari nel senso che chiamano in causa solo gli ebrei oppure i suoi seguaci. Nei secoli questi valori, in modo molto efficace, hanno mantenuto l’unità di questo popolo in tutte le vicissitudini storiche in cui si è trovato. Per questo si tratta di valori particolari; vale a dire che per gli ebrei non è importante diffondere il giudaismo per le varie nazioni o aree culturali cioè, a loro, non interessa fare proseliti. A volte si accettano i nuovi, ad esempio, quando uno si sposa con un non-ebreo. In generale, come religione, l’ebraismo è chiuso. Facendo il paragone con l’Islam, troviamo invece che lì esistono i valori universali nel senso che, per i musulmani, è importante propagare il loro credo fra tutti, mentre il senso di ‘particolare’ sta nel fatto che coloro che non seguono la fede islamica e non ne osservano i riti, sono al di fuori di esse. Il cristianesimo invece, usando un’analogia del mondo matematico, sta all’ebraismo come il bambino sta alla propria madre; questo significa che il cristianesimo dipende dall’ebraismo nei contenuti: ci sono forti affinità e identità con esso.
Hanna K. Ulatowska[4]: Mi piacerebbe fare un commento a riguardo. Ho parlato con un mio amico professore ebreo e lui ha paragonato la preghiera ebraica, l’amidah, al Pater Noster cristiano. Lui ha un’ottima formazione ebraica.
Anna Pawełczyńska: Come dicevo prima, io non conosco perfettamente questa preghiera, ma sono certa che, sulla base delle mie conoscenze generali sia di storia che di religione, sia così: si può arrivare a delle profonde analogie tra queste due religioni. Ci sono altri dubbi?
Adele V. Messina: No, grazie. Prima di approfondire la questione metodologica che lei adotta nel suo libro Wartości a przemoc – io vi trovo parecchie tracce della Scuola di Chicago e non pochi riferimenti alle lezioni di Ossowski – mi piacerebbe però soffermarmi sul significato sociologico di alcune espressioni per comprendere meglio il suo concetto sociologico di wartości, valori.
Ad esempio, termini come “a casa” [w domu], “la strada per il lavoro” [droga do miejsca pracy], “spazio e comunicazione” [przestrzeń a komunicacja] sono concetti molto comuni che richiamano aspetti quotidiani e specifici della vita umana: hanno in sé un attaccamento profondo alla vita. Direi un attaccamento estremo alla vita umana. Questi concetti raffigurano la voglia di sopravvivere dei prigionieri. È una forma di resistenza spirituale? Si tratta di mantenere in piedi ogni forma di vita, un ‘restare in piedi’ con le due gambe dritte sulla terra, in condizioni estreme?
Anna Pawełczyńska: La resistenza ha tanti volti. Non sempre si può fare una battaglia aperta o una protesta passiva. Ad Auschwitz bisognava adattarsi. La massima espressione di resistenza è stata quella di mantenere la libertà interiore. Da qui, l’aiuto reciproco tra i detenuti. Bene. Prima però di approfondire questo aspetto, io preferirei invece, ritornare alla questione precedente perché questo mi sembra essenziale per continuare. Allora tu suggerisci che nel mio libro si trovano... in realtà, la tua domanda ha molto a che fare con la metodologia che io ho adottato. Intendo dire che gli studi del prof. Ossowski hanno formato molti studiosi: le sue lezioni hanno gettato le basi per la loro autonomia di pensiero sia per quanto riguarda le questioni sociologiche da affrontare che per la scelta dei metodi e tecniche di ricerca con cui risolverli.
Quando le questioni da analizzare sono abbastanza semplici è più facile fare riferimento a una certa scuola o a un dato metodo di ricerca. Invece nel caso in cui i problemi da studiare riguardano o toccano livelli di complessità alti, come nel caso di Auschwitz, è necessario partire da una domanda molto articolata per poi passare a una serie di metodi che permettono di analizzare il problema secondo più punti di vista o prospettive. Io, in particolare, non ho fatto riferimento a una scuola specifica, ma ho tenuto conto di diversi pensieri preziosi e degli insegnamenti sviluppati da differenti scuole sociologiche, elaborando alla fine il mio pensiero autonomo. In particolare, io ho applicato il metodo dell’osservazione partecipante ovviamente non per scelta: sono stata messa lì, mi sono ritrovata in quella situazione, a Oświęcim. E questa partecipazione alla vita quotidiana del campo, osservando tutto quello che accadeva, mi ha dato l’opportunità di comprendere fortemente le dinamiche sociali, relazionali, e di elaborare una serie di riflessioni di natura filosofica, economica, sociologica relative alle strutture sociali del campo.
Così come si ragiona in mezzo alla gente normale sui problemi quotidiani della vita di ogni giorno (che siano quelli relativi al proprio paese, alla propria città o altro) anche nel campo, lì in quanto detenuti, si potevano sviluppare delle riflessioni sulla vita nel campo e si poteva fare l’analisi della propria vita.
Visto che però era difficilissimo pensare a Oświęcim, nel senso che era complicato applicare le stesse categorie della vita normale o il modo di pensare della vita di ogni giorno, cioè trovare delle categorie allo stesso modo in cui si fa nella vita comune, bisognava ricorrere a delle analogie: cioè usare delle categorie già date possedute proprie del mondo normale (strutture, relazioni e condizioni conosciute tipiche della vita quotidiana) e applicarle alla realtà del campo per descrivere quanto accadeva nel campo stesso: per spiegare, per esempio, come funzionavano certi divieti, ingiunzioni, comportamenti, costrizioni.
E adesso torniamo alla tua domanda che, secondo me, è perfettamente collegata a questo mio modo di procedere metodologico e cioè al fatto che non si può vivere senza dare alla propria vita qualche categoria conosciuta e normale ovvero un senso comune. Forse per questo ho dovuto cercare l’ordine, fare ordine, perché Oświęcim e il nazismo in generale erano percepiti dalle persone che non sono state lì, come una grande follia: fuori di ogni categoria logica. Questo punto di vista, di vedere e considerare questa realtà come una follia, ha deformato l’immagine della realtà e ha permesso di fare interpretazioni molto varie anche sbagliate. E per questo, come tu hai notato, mettere in ordine lo spazio, metter ordine nello spazio chiamando per nome le cose, dando loro dei nomi, come ‘casa’, ‘lavoro’, ‘strada per il lavoro’, ‘contatti’, tutto quello che richiamava la vita normale, tutto questo restituisce ad Auschwitz la sua normalità, cioè lo rende un fatto reale, realmente accaduto e non un fenomeno inspiegabile. E, come tu hai osservato, l’attenzione per le norme morali e verso il proprio comportamento da assumere, per capire quello che succedeva ad Oświęcim, richiedeva l’uso di categorie conosciute appartenenti cioè al senso comune proprio della vita di ogni giorno.
Mi pare che quello che abbiamo imparato, prima della seconda guerra mondiale nelle nostre famiglie polacche, di sicuro non solo polacche, e poi negli ambienti di formazione secondaria dove ho appreso l’arte dell’osservazione partecipante, sì, sembra che ciò che influenza la cura per la propria dignità personale non sono solo i valori morali, ma anche la capacità di comprendere e di riflettere prima di scegliere certi comportamenti o atteggiamenti. Se si seguono solo gli impulsi emozionali, se la passione non è accompagnata dalla ragione, le emozioni possono a volte portare a delle scelte sbagliate. E penso che l’insieme di valori ed emozioni formi la comunità umana così come un insieme di condizioni va a definire un particolare atteggiamento.
Ciò che determinava l’atteggiamento personale, le scelte morali, influenzava anche la comunità che si era formata attorno a noi. Non si può considerare il campo intero come una comunità, visto che era proibito ai vari gruppi d’internati mettersi in contatto tra di loro. Invece si può considerare come una comunità il gruppo di persone che lavoravano insieme o che dormivano nello stesso posto. Ma ancor più della presenza fisica, quella che contava era la vicinanza morale, ideologica e intellettuale, dovuta al fatto che alcuni condividevano la stessa provenienza o avevano ricevuto la stessa educazione. E solo grazie all’interagire di queste due comunità si poteva, all’interno del territorio del campo, formare una comunità capace di resistere tutti insieme. Quando pensiamo alle comunità che si formano, pensiamo in primis alle famiglie, usando una prospettiva più ampia, alle comunità nazionali, a quelle religiose. E, infine, statali.
Ogni comunità nasce per preservare la propria cultura, per rafforzare i legami tra persone vicine; e, adesso, quando penso che a Oświęcim si sono formate comunità, tenendo in mente lo sfondo delle masse variopinte che vi erano, tra persone diversissime tra di loro per nascita, con gli atteggiamenti più disparati, appartenenti a classi sociali e di potere molto differenti fra di loro, credo che sia stato possibile proprio per questa ragione.
Io ho fatto una distinzione tra le comunità nazionali e statali tenendo conto dello ius sanguinis. Il motivo che mi ha permesso di fare questa classificazione sta nel fatto che gli ebrei provenivano da vari Stati. Già, si può dire che alcuni di loro erano molto più legati agli Stati dai quali provenivano, di solito era così, che alla comunità ebraica in generale. Ad esempio, si era formata una solidarietà incredibile tra le ebree slovacche che avevano guadagnato i posti migliori nelle strutture del campo, da loro dipendevano tante cose. Loro favorivano non gli ebrei in generale, ma solo le ebree slovacche, soprattutto quelle provenienti dalla città di Prešov... Prešov. Non so come si pronuncia. Questo esempio, serve a mostrare che le ebree greche, che occupavano una posizione inferiore nella struttura del campo, non potevano contare su nessun aiuto da parte degli ebrei di altra nazionalità che usufruivano di condizioni migliori: i disastri, la miseria e il peggio che poteva succedere a qualcuno, e che é successo alle ebree greche, abbassava di posizione, nella struttura del campo, anche coloro che le aiutavano. Non riesco a esprimerlo bene. Se si dava qualcosa a qualcuno che stava morendo si impoveriva il proprio gruppo.
Una certa analogia a questi rapporti tra vari gruppi di ebrei provenienti da Paesi diversi si ritrova nell’atteggiamento degli ebrei americani che, durante la guerra hanno rifiutato, si sono sottratti, di aiutare gli ebrei nei campi di concentramento nei Paesi sotto occupazione tedesca. Perché l’hanno fatto? Questo li avrebbe impoveriti, avrebbe spostato verso il basso la loro posizione materiale, di potere. Ripeto, io non riesco a spiegarlo in modo perfetto: questo richiederebbe studi specifici; ma situazioni analoghe si ritrovavano nel campo. Quello che intendo dire è che forse gli ebrei più ricchi, identificandosi con la parte povera della popolazione ebraica, avrebbero perso la loro posizione di popolo più ricco. Io lo dico perché si vede chiaramente: è molto evidente nel caso degli ebrei, ma penso che negli altri popoli si possono trovare le stesse divisioni che sono meno visibili, più in ombra. Bisogna tenere conto delle divisioni di classe e delle differenze riconducibili alle regioni in cui si abita. Mi sono persa un po’! Forse recupererò il filo; quello che cerco di dire è che esistono delle divisioni tra la gente di una stessa nazionalità per motivi di natura sociale, economica, demografica, culturale o di pensiero: cioè si creano gruppi isolati l’uno dall’altro. E queste separazioni non sempre sono determinate da forze antagonistiche cioè da rapporti di potere: perché spesso le differenze sono dettate dal fatto che vogliamo aiutare di più qualcuno che assomiglia a noi perché condivide la nostra stessa ideologia, professa il nostro stesso credo, pensa allo stesso modo oppure semplicemente vive nella stessa città. Questi sono i problemi che esistono. Si tratta di categorie importanti nella vita di ogni popolo, Paese o Stato e queste categorie si possono usare per analogia a Oświęcim. Hai ancora domande su questo aspetto?
Adele V. Messina: In realtà, sì: il concetto di solidarietà, Solidarność, può essere definito in modo diverso dopo Auschwitz?
Anna Pawełczyńska: Nel territorio di Auschwitz?
Adele V. Messina: No, dopo Auschwitz. Sulla base della sua esperienza, pensa che si possa comprendere differentemente, da un punto di vista sociologico, il concetto di solidarietà dopo il soggiorno in Auschwitz? Questa categoria è molto importante nella letteratura sociologica. Mi viene in mente, per esempio, il sociologo francese Émile Durkheim, che elabora una puntuale definizione di solidarietà, nella sua Division du travail social: in particolare, la solidarietà collettiva di natura morale cioè di fronte al terrore totalitario sono emersi i valori più nascosti dei singoli prigionieri che unendosi hanno sviluppato forme di cooperazione sociale.
Anna Pawełczyńska: Questi sono tempi abbastanza lontani. Non mi ricordo ora l’anno preciso in cui Durkheim l’ha elaborata.
Adele V. Messina: Se non sbaglio era il 1893.
Anna Pawełczyńska: Sì, esatto!
Adele V. Messina: Ho trovato una piccola analogia tra il suo pensiero e quello di Durkheim e Ossowski a proposito del concetto di ‘valore’, wartość, perché nel pensiero di Durkheim la solidarietà è un valore.
Anna Pawełczyńska: In realtà, tra gli autori precedenti, del passato, mi ritrovo di più vicina alla sociologia di Max Weber. Le categorie di comunità (Gemeinschaft) e società (Gesellschaft), per esempio, aiutano in modo straordinario a concepire i tempi, gli eventi della guerra, la contemporaneità. Per quanto riguarda invece la teoria dei totalitarismi e dei suoi concetti opposti, per me, è molto importante un sociologo italiano. Si chiama, Vilfredo Pareto. Tu lo conosci? Vilfredo Pareto.
Adele V. Messina: Vilfredo Pareto, sì, certamente.
Anna Pawełczyńska: La sua teoria della circolazione delle élites è la chiave per i sistemi... Vuol dire che esiste una certa capacità che permette di avanzare, di far muovere, pro-muovere dalla classe inferiore alla classe superiore; ma dalla classe superiore si possono eliminare le persone dannose o inutili. E semplicemente il totalitarismo in generale blocca la circolazione delle élites e le società moderne creano i nuovi tipi di totalitarismo perché anche loro bloccano la circolazione delle élites. E penso che le categorie di Gemeinschaft und Gesellschaft, e la circolazione delle élites di Pareto, questi concetti e le teorie che ruotano attorno a questi due problemi, danno la possibilità di distinguere le diverse società che si sono avute nel corso della storia, cominciando dalle società chiuse, come quella dei campi di concentramento, fino ai sistemi statali, alla comunità europea. Questo riguarda nello stesso modo sia il passato che il presente. E la comprensione di queste cose permette di capire come cambiano le società e di osservare simultaneamente società contemporanee che sono diverse. E io penso che il presente permette di comprendere il passato e viceversa. E senza l’elaborazione storica la comprensione dei problemi sarebbe molto difficile. Ci sono altre domande? Tu chiedevi prima qualcosa sul movimento di resistenza, vero? Volevo dire anche che il latino era obbligatorio, come lingua, prima della guerra …
Adele V. Messina: … anche io ho studiato latino e greco …
Anna Pawełczyńska: … ma non prima della guerra, dopo. Io insomma ho dovuto studiare ancora cinque-sei anni... il Ginnasio è un tipo di scuola media in Polonia, prima della seconda guerra mondiale i ginnasi avevano un livello d’educazione molto alto. Ma torniamo al movimento di resistenza.
Adele V. Messina: Lei ha detto, in altre circostanze, che le organizzazioni clandestine ad Auschwitz erano in stretta relazione, con il governo clandestino polacco. Può spiegare meglio questa cosa? Potrebbe approfondire il discorso sulle organizzazioni clandestine che nel campo avevano dei contatti col governo clandestino fuori? Come era organizzato tutto questo? Sì, perché lei quando presenta la resistenza che si è dispiegata ad Auschwitz adotta due categorie sociologiche “movimento” e “organizzazione” (zorganizowany ruch oporu) opposte tra di loro. Ho comprato questo libro People of Good Will - in polacco Ludzie dobrej woli - di Henryk Świebocki. Questo è un libro che contiene...
Hanna K. Ulatowska: Mi lasci vedere questo libro? Perché penso di conoscerlo.
Adele V. Messina: Davvero?
Hanna K. Ulatowska: È molto pesante, o Dio!
Adele V. Messina: L’ho comprato ad Auschwitz qualche giorno fa.
Hanna K. Ulatowska: Davvero l’hai comprato ad Oświęcim? Conosco Henryk Świebocki.
Adele V. Messina: Sì?
Hanna K. Ulatowska: È uno storico. Conosco bene sia lui che sua moglie. Adesso sono in pensione.
Adele V. Messina: Bene. People of Good Will riguarda quelle persone che hanno aiutato a salvare dei detenuti. Mi piacerebbe approfondire proprio questo aspetto: le relazioni tra i prigionieri e il mondo esterno.
Hanna K. Ulatowska: E qui si trova l’elenco delle persone provenienti da diversi posti e che hanno collaborato, lo sai, ad Oświęcim; per esempio da Brzeszcz, etc. Molto interessante.
Anna Pawełczyńska: È questo il caso di Jadzia, conosciuta anche come Dłuciak Bronisława o Bronia o ancora Dzidka. Quando è uscito questo libro?
Adele V. Messina: Nel 2009. È stato tradotto in italiano, Gli uomini di buona volontà, ma solo in parte: ne è uscito un libretto... piccolo.
Anna Pawełczyńska: A proposito di traduzioni… A Varsavia c’è la figlia di una mia amica che ha seguito dei corsi di lingua italiana in Polonia e in Italia, e si è sposata con un italiano, laureato invece in filologia polacca; abitano a Varsavia. Io purtroppo conosco solo il cognome di lei: si chiama Koprowska Zofia; lui ha conseguito il dottorato all’Università di Varsavia.
Hanna K. Ulatowska: Ti mostro chi ci ha salvato.
Adele V. Messina: Certo. A proposito della collaborazione tra l’organizzazione clandestina nel campo e fuori e dei collegamenti, legami, tra il mondo interno ed esterno, in questo libro di documenti c’è la storia di Helena ...
Anna Pawełczyńska: … sì, nella domanda precedente facevamo riferimento all’organizzazione clandestina nel campo femminile.
Hanna K. Ulatowska: È molto difficile parlare dell’organizzazione clandestina in tutto Auschwitz, sarebbe più semplice parlare di quella nel campo femminile, perché lei stava lì, lavorava lì.
Anna Pawełczyńska: Qui ho un po’ delle difficoltà nel senso che non conosco nessun libro sull’organizzazione clandestina nel campo o sulla partecipazione cioè i contatti, legami con il mondo fuori... posso invece dire ciò che so sulla base di quello che ho vissuto, in base alla mia esperienza, a quello che facevo, a ciò a cui partecipavo.
La struttura del campo non facilitava i contatti tra le persone che facevano parte della organizzazione clandestina. Per me la partecipazione all’organizzazione clandestina era una continuazione di quello che avevo fatto prima di diventare prigioniera nel campo. E visto che, prima di essere arrestata, facevo parte non solo di una, ma di numerose organizzazioni clandestine, i miei contatti erano molto estesi e larghi.
Quando ho prestato giuramento le cose sono andate più o meno così. Mi contattò il łącznik – sarebbe il responsabile, in un’organizzazione clandestina, della trasmissione dei messaggi (di solito lettere brevissime, ma a volte anche oggetti) tra i vari membri dell’organizzazione che di solito non si conoscono di persona per ragioni di sicurezza[5]. Queste persone, łącznicy, al plurale, dovevano essere molto brave a tenere segrete le informazioni sulle persone con cui entravano in contatto.
Immagina, se una persona dell’organizzazione clandestina fosse stata presa dai nazisti e non fosse riuscita a mantenere il segreto, tutta la rete clandestina dei collaboratori veniva scoperta.
Questo łącznik del campo maschile mi propose di far parte dell’organizzazione clandestina e mi chiese se (allora io ero nella sezione B) conoscessi qualcuno degno di fiducia che potevo indicare e con cui collaborare della sezione A. Io feci il nome di Zofia Krasińska–Leśniakowa che conoscevo e con cui ero in contatto già prima di essere arrestata e anche dopo – nella prigione Pawiak e poi in Auschwitz. Così, quando c’era bisogno di collaborare con la sezione A, trasmettevo quello che bisognava fare, il compito da portare a termine, alla collega indicata da me prima.
Invece per quanto riguarda la partecipazione di altre donne all’organizzazione clandestina, non possedevo nessuna informazione ufficiale però avevo dei buoni sospetti su di due di loro, perché mi portavano certe cose, delle disposizioni; delle volte ero io ad affidare loro certe cose.
Inoltre se dovevo eseguire alcuni ordini e avevo bisogno dell’aiuto di altre compagne, non dicevo loro: “adesso dobbiamo eseguire tale ordine”, ma semplicemente che bisognava fare quella cosa. E per chiarire perché tale meccanismo funzionava ed era possibile, bisogna distinguere tra la “cospirazione” e l’atto dell’“improvvisazione”.
Questa distinzione, tra “cospirazione” e “improvvisazione”, è importante nella mia esperienza da clandestina sin dall’inizio dell’occupazione tedesca: dal periodo di detenzione nella prigione ai campi di concentramento.
Almeno due erano i fatti indispensabili da cui dipendeva la possibilità di entrare a far parte dell’organizzazione clandestina: in primo luogo, la persona doveva godere di una fiducia assoluta (la sua conoscenza doveva essere vecchia, risalire cioè ai tempi precedenti la detenzione nel campo); e, in secondo luogo, la cooptazione dipendeva dal lavoro che la detenuta svolgeva nel campo cioè dalle reti di relazione che il suo posto di lavoro era in grado di creare.
I prigionieri erano praticamente immobilizzati, terrorizzati, dalla paura di essere puniti molto severamente. Non ci si poteva muovere al di là del controllo del governo del campo. Questi prigionieri (sia uomini che donne) che adempivano a dei lavori che richiedevano degli spostamenti e una certa circolazione dentro il campo erano molto utili e importanti per la cospirazione, per il movimento clandestino.
Hanna K. Ulatowska: No! Ho trovato qualcosa qui: il mio nome. Io, Ulatowska Hanna. Ci sono poi quello di mia madre, Ulatowska Zofia, e quello di mio fratello, Ulatowski Jerzy Maria.
Adele V. Messina: Lei!
Hanna K. Ulatowska: Sì, ma Anna non è giusto. In realtà è Hanna.
Adele V. Messina: Lei è nel libro.
Anna Pawełczyńska: La foto non c’è?
Hanna K. Ulatowska: Forse no, forse nell’altro libro. Si tratta di questo... Volevo mostrarle l’uomo che ci ha salvati. Vediamo se la sua foto si trova qui... No.
Adele V. Messina: No, non c’è. Solo la storia.
Hanna K. Ulatowska: Mentre facevo la traduzione cercavo di ricordare l’uomo che ci ha salvati, però ho dimenticato il suo nome. Non importa. Dopo essere scappati dal campo Ulatowska e i suoi due figli, Hanna (scritto in modo sbagliato) e Jerzy hanno trovato un posto sicuro per nascondersi da Kazimierz Baraniak, questo è il suo nome. Lui non è più vivo, ma suo fratello, sì, vive ancora. Aveva la casa a Brzeszcze e vi è rimasto per un po’ dopo la liberazione sovietica.
Adele V. Messina: Lei l’ha incontrato?
Hanna K. Ulatowska: Sì, ovviamente. Ha ricevuto il premio... Non voleva mai un centesimo da me. Né una capra né soldi. Aveva il diabete, non voleva medicine da me, niente. Adesso è molto anziano.
Anna Pawełczyńska: Bene. Tornando alle caratteristiche che si dovevano possedere, ovvero fiducia e possibilità di creare e mantenere contatti, non so a che cosa io debba la mia posizione nel reparto di confezionamento (paczkarnia): dove si preparavano i pacchetti, si avvolgevano gli oggetti nella carta prima di spedirli oppure dove venivano messi i pacchetti che arrivavano da fuori per i prigionieri e dove si aprivano per vedere se vi fosse nascosto qualcosa. Questo reparto di confezionamento era un ente speciale: il posto opportuno per fare questo tipo di cose.
Di certo, io mi trovavo lì perché avevano fiducia di me, ma anche per il fatto che ero molto attiva e impegnata, e perché si poteva contare su di me in ogni situazione.
Comunque grazie a questa fiducia e a questa responsabilità forse devo il fatto che sono sopravvissuta ad Auschwitz, perché facevo un lavoro “sotto il tetto”, non fuori, sotto il cielo. Insomma, per me, far parte dell’organizzazione clandestina non è stato un merito piuttosto si è rivelato un premio. Mi son ritrovata in una situazione migliore rispetto ad altri compagni non adatti o pronti alla cospirazione. Questo posto mi dava la sensazione della vita normale e della libertà. Insomma, il rischio e la paura di essere scoperta e punita severamente erano minori rispetto alla gioia di partecipare alla comunità libera.
Fin da piccola ho avuto tantissimi amici e ho conosciuto tante persone appartenenti a vari ambienti; come dire? Mantenevo legami con i più disparati ambienti, per questo nel campo mi hanno contattato tanti łącznicy maschi che avevano i più diversi punti di vista o erano rappresentanti di ambienti molto differenziati.
A un certo punto non riuscivo più a distinguere quali erano i membri della “mia” cospirazione cioè della rete a cui avevo fatto la mia prestazione di giuramento, e quali erano invece i miei conoscenti, coloro che si rivolgevano a me per motivi privati, personali. Perché mi contattavano non solo i membri dell’organizzazione clandestina, ma anche i miei vicini, provenienti come me da Pruszków, una città molto vicina a Varsavia, dove sono stata arrestata; anche loro a volte venivano arrestati per motivi uguali ai miei, altre volte per ragioni differenti.
Tante cose le ho portate a termine, le ho eseguite perché era un ordine farle; tante perché erano un favore per un/una collega; e tante altre le ho fatte semplicemente perché per la mente mi è passato che si potevano fare. Ecco perché la distinzione tra “cospirazione” e “improvvisazione” è così importante, poiché improvvisare si poteva così, ad hoc, quando c’era l’esigenza di qualcosa e poi la possibilità di compierla. Ecco perché vi era un po’ di confusione nella vita cospiratoria: in ogni caso, quando nella cospirazione avevamo bisogno di qualsiasi aiuto non dovevamo spiegare che in quel caso si trattava di cospirazione perché si poteva improvvisare. Certo, non erano ben definite le linee di demarcazione tra i due momenti.
Adele V. Messina: Di fronte al terrore e alla violenza nazisti, lei affronta nello specifico i casi in cui fra i prigionieri sono prevalsi quei valori morali che hanno portato alla formazione di comunità di solidarietà nel sistema-Auschwitz contro l’autorità nazionalsocialista e contro ogni forma di demoralizzazione: soprattutto nella zona definita ‘dai confini incerti’ l’individuo aveva modo di mettere in azione meccanismi di difesa e resistenza contro il terrore. Lei concepisce quest’ultima in modo del tutto originale: non come come fenomeno armato ma come “movimento” e “organizzazione”, che nel linguaggio sociologico, per loro natura sono in antitesi tra di loro: un movimento cessa di essere tale nel momento in cui compaiono le linee organizzative.
Anna Pawełczyńska: Per questo penso che, se uno studia la cospirazione cioè l’organizzazione clandestina nel campo, i membri dell’organizzazione non sono numerosi se si guarda alle proporzioni; però quelli che hanno collaborato inconsciamente potrebbero essere veramente tanti, perché quando si voleva fare qualcosa di buono, c’erano tante persone buone e pronte ad aiutare. Poi io non menziono tutte le azioni, perché sono sicura che tu volevi conoscere solo il meccanismo: non ha senso dare tutti gli esempi, giusto? Riguardo ai meccanismi non abbiamo le informazioni, quando non abbiamo le informazioni si possono solamente dedurre certe cose, fare le ipotesi. E mi sembra che solo alcuni gruppi nazionali hanno potuto far parte della cospirazione. Le polacche in gran parte avevano questa possibilità, le polacche arrestate per motivi politici, perché c’erano persone arrestate coi rastrellamenti (łapanki). Bene. “Io vado a casa da mia madre” [in italiano].
Adele V. Messina: Parla in italiano…Brava!
Anna Pawełczyńska: Ad Auschwitz...[6]
Adele V. Messina: Lei ha detto la frase in italiano. Può ripetere?
Anna Pawełczyńska: Io vado a casa da mia madre. Ho imparato questa frase lì, perché c’erano anche donne italiane incarcerate lì. Aspetta, perché siamo arrivate al punto... le nazionalità nel campo.
Già, nel campo facevano parte delle polacche cioè erano considerate polacche a tutti gli effetti anche le ebree polacche: perché parlavano la stessa lingua, il polacco appunto. Poi tante ebree avevano i documenti polacchi che erano delle vere opportunità per sopravvivere. Allo stesso tempo, anche se i contatti con gli ebrei erano estremamente difficili, funzionava anche l’aiuto alle ebree polacche. C’erano dei gruppi nazionali nei quali s’intrecciavano coraggio e una certa idea di libertà. E l’amore del prossimo. Tutto questo dava una sensazione di comunità nel senso sociologico. Gruppi come questi, molto consolidati, dove di certo c’era la cospirazione, erano quelli delle jugoslave. All’interno di questi gruppi c’era una tale dignità, determinazione e coraggio, da fare impressione ai tedeschi, come gruppo e soprattutto come gruppo costituito da donne.
In sociologia i concetti di gruppo e di genere sono categorie molto importanti. Le polacche erano nelle migliori condizioni per aiutare, sì, poi c’erano le jugoslave, sì le Jugoslave. A proposito delle differenze tra gruppi… Sì, giusto, abbiamo parlato delle jugoslave. Un altro gruppo ancora che aveva la possibilità di organizzare la cospirazione e di resistere era quello delle ebree slovacche. Ma questo gruppo era molto chiuso. E mi sembra che quelle tra cui i rapporti erano più stretti fossero le ebree di Prešov: perché si conoscevano da prima; ma la solidarietà di questo gruppo non superava il confine tra l’essere slovacco e l’essere ebreo. Negli altri gruppi nazionali questo tipo di solidarietà si dipartiva all’intorno, radialmente, da un unico punto; in un certo senso la solidarietà procedeva per cerchi concentrici: si stabilivano o meglio c’erano delle priorità cioè prima le donne di Varsavia cercavano di stare insieme e di aiutarsi; poi le polacche incluse le ebree cioè quella parte di ebree che si sentivano “polacche”; poi c’erano le ebree che non si sentivano polacche, e queste erano le più lontane[7]. Poi questa solidarietà si estendeva alle donne di lingua slava: certo, quando la lingua era comprensibile. Ucraine, slovacche.
La comprensione linguistica era una barriera; molto efficace si rivelò la collaborazione delle intellettuali polacche che conoscevano varie lingue: costoro riuscivano a diramare la solidarietà non solo perché appunto comprendevano più lingue ma anche perché condividevano più religioni e culture.
I gruppi nazionali che contavano poche persone a Oświęcim, ad esempio, i francesi non avevano possibilità di creare comunità cospiratorie, né comunità di sostegno. In aggiunta, quello che era importante per garantire l’autodifesa era anche il numero dei membri di una certa comunità rispetto a tutta la popolazione nel campo. E se si considera la popolazione dei gruppi, nonostante si dica che ad Auschwitz c’era una significante maggioranza di ebrei, dobbiamo tenere conto degli ebrei che non sono stati mai inclusi nel campo come prigionieri perché uccisi subito dopo il loro arrivo. Loro costituiscono - non riesco a dire i numeri esatti - una gran parte degli ebrei che si chiamano gli ebrei di Oświęcim. Dopo di loro vi sono i polacchi, e dopo vengono gli altri gruppi nazionali. Se si guarda ai polacchi, loro avevano tutti i tipi di contatto fuori del campo.
Adele V. Messina: Sì.
Anna Pawełczyńska: Noi, nel campo, non sapevamo quali contatti vi erano: perché questo sarebbe stato pericoloso per noi e per quelli che ci aiutavano. Certe situazioni si formavano all’improvviso per i prigionieri che lavoravano per un dato periodo fuori del campo e che potevano incontrare della gente e intraprendere delle azioni per il proprio bene o per il bene di altri detenuti.
Alcuni contatti, legami, si sono stabiliti e sviluppati perché quelli che abitavano fuori del campo facevano parte o collaboravano con le organizzazioni clandestine specialmente con l’Armja Kraiowa (AK – Esercito Nazionale Polacco) e grazie a questo certe azioni cominciavano a prendere le caratteristiche della cospirazione organizzata. Anche per la gente come me, che lavorava nel reparto di confezionamento, venivano a costituirsi casualmente certe occasioni. Azioni del genere potevano essere tante. Per esempio, dopo la morte della signora Czekalska, una prigioniera il cui marito si trovava nel campo maschile, ci è venuto in mente di far ritornare i pacchetti a casa cioè dove si trovava la sua famiglia - in un certo periodo si poteva fare - e di mettere il messaggio segreto nel pacchetto, per poi aspettare i pacchetti per la signora Czekalska, che potevamo aprire nella paczkarnia in segreto, leggere la risposta ed eventualmente tirare fuori le medicine che avevamo chiesto di ricevere. Questo era un tipo di contatto esterno-interno che col tempo è mutato in un contatto di organizzazione clandestina, ma che non poteva durare a causa degli ordini nel campo. In questo caso non dovevo ingaggiare tante colleghe: ve n’erano due che, per la loro posizione, erano responsabili di avvistare e prendere “i pacchetti del contatto”. Sono convinta, anche se non posso fornire dati esatti che la paczkarnia maschile aveva molte più possibilità di stabilire legami con l’esterno rispetto alla paczkarnia femminile, e che ugualmente allestiva in fretta i contatti con le organizzazioni clandestine che operavano nel territorio polacco. Dopo la guerra o meglio dopo la ribellione dei Sonderkommando si è chiarito il modo di operare degli ebrei in queste unità speciali in collaborazione con le organizzazioni clandestine, in maggior parte polacche, ma anche tedesche comuniste.
Adele V. Messina: Per quanto riguarda la rivolta del Crematorio IV, il 7 Ottobre 1944, che tipo di informazioni circolavano o venivano trasmesse? Quali informazioni passavano fuori del campo dopo la rivolta del Sonderkommando? Ad esempio, l’AK sapeva cosa era successo?
Anna Pawełczyńska: Di certo hanno saputo, probabilmente hanno saputo - ma non è certo - che tutte le munizioni illegali, la polvere da sparo erano tenute nascoste nel crematorio: era un posto sicuro. Questo perché i tedeschi non entravano nel crematorio: tutti i lavori con il gas, la cremazione li facevano gli ebrei del Sonderkommando; questo era risaputo perché i tedeschi non avevano la voglia di entrare in mezzo a tutte quelle cose orribili o di vedere quelle scene terribili; i tedeschi evitavano il crematorio. Insomma il crematorio, nonostante tutto quello che si possa immaginare, era il posto più sicuro per nascondere tutte le cose utili alla cospirazione e l’autodifesa, e in caso di pericolo generale; lì erano raccolti tutti gli oggetti che sarebbero stati utili a questo. Di conseguenza tutto il Sonderkommando doveva essere incluso nel sistema della cospirazione del campo.
Adele V. Messina: Lei aveva avuto qualche informazione a riguardo? Cioè che questa rivolta avrebbe avuto luogo?
Anna Pawełczyńska: No, no. Solamente avevo ricevuto prima un ordine: quello di inventare un concetto di autodifesa nel caso di pericolo generale nel campo femminile e maschile. In particolare, ci hanno passato un tipo di pinza per tagliare il filo nel caso di pericolo nel campo femminile, insieme con la segnalazione che dovevamo usare in tal caso. Allora avevo anche prove presumibili per pensare che nella carpenteria maschile si trovava il posto dove si poteva mettere roba del genere. Invece per quanto riguarda la rivolta stessa del Sonderkommando, ho saputo che quella risultava dal fatto che la cospirazione esterna dell’AK (fuori del campo) aveva fatto sapere all’organizzazione interna (dentro il campo), cioè indirettamente un ente ebraico del Sonderkommando che si progettava di uccidere nella camera a gas tutto il Sonderkommando in un giorno, indicando la data precisa. E di conseguenza tutto il materiale esplosivo che la cospirazione raccoglieva lì è stato usato per far esplodere il crematorio.
Però solo tre persone del campo femminile, inclusa me, eravamo le testimoni dirette di ciò che era successo dopo l’esplosione perché eravamo riuscite a prendere i secchi, i contenitori per l’immondizia, che si buttava in quel posto dove era successo il fatto.
In situazioni del genere si dava l’allarme per tutto il campo, costringendo tutta la gente a entrare nei blocchi – così da non vedere quello che stava accadendo. Grazie ai secchi per l’immondizia, nel momento dell’allarme, invece noi ci siamo trovate presso il recinto di filo spinato vicino al quale gli uomini sono passati correndo. Gli uomini avevano scollegato i cavi elettrici e avevano tagliato il recinto del campo femminile, e uno degli ebrei che erano in fuga gridava: “Donne, fuggite!” E io ero pronta lì lì in quel momento a scappare, ma una mia collega più grande di me, disse invece a me e all’altra collega che era con noi, di sdraiarci sul terreno. Grazie a questo consiglio non siamo state uccise perché loro, i fuggitivi, sono stati soppressi quasi tutti. Comunque questo è l’episodio che solo io tengo in mente, perché tutte e due le altre compagne sono già morte. Probabilmente questo è stato già annotato o descritto. Racconto ancora un’altra cosa. Con la ribellione basta. Ma dico ancora una cosa sui contatti, collegamenti con l’esterno. Una o due, vediamo.
Dopo la guerra ho imparato che sui vari documenti e sulla corrispondenza che avevo fornito tramite varie persone, vi era il nome del dottore Kłodziński, che manteneva dei legami e aveva modo di passare le informazioni all’AK a Cracovia, in particolare al PWOK (Committee to Aid Concentration Camp Prisoners) sempre a Cracovia oppure al Brzeszcze PPS (Polish Socialist Party) group. Lui era una persona molto importante. Il dottore Stanisław Kłodziński ha contribuito significativamente alla realizzazione del mio libro Valori e violenza: abitando a Cracovia è venuto da me a Varsavia e all’inizio ha ordinato vari articoli per Rivista Medica (“Przegląd Lekarski”) e poi, mi ha incoraggiato a scrivere di più e così ho creato questo libro. E allora il libro ha le sue origini come dire le sue radici nella cospirazione nel campo di concentramento.
Diceva che mettere per iscritto la mia esperienza non solo mi avrebbe aiutato a riordinare la vita, ma sarebbe servito anche ad altri – un “racconto per la società”, in questi termini lo intendeva, e cioè una lezione sociologica dopo Auschwitz. Su sua insistenza mi convinsi a farlo[8].
L’altra cosa riguarda gli elenchi dei bambini che sono tornati da Auschwitz… la corrispondenza, il trasferimento dei materiali. I rapporti di Kłodziński riguardavano i trasporti di massa e la gassazione degli ebrei. Comunque è noto che queste lettere, questi elenchi sono stati mandati a Londra, e lì non sapevano di che cosa si trattasse. E poi, mandati ad Auschwitz, sono stati riconosciuti da Zofia Brodzikowska-Pohorecka. E perché tutti questi materiali documenti hanno avuto vari percorsi, molto strani per arrivare fuori dal campo, non più di due mesi fa mi hanno contattato per la ricognizione di una persona che usava solo lo pseudonimo (che infatti era il suo nome) e che era una persona per cui era stata organizzata una fuga da Auschwitz. Ed io, usando solo la mia memoria, i ricordi, ho imparato (60 o 70 anni dopo la guerra) che una persona con cui ho lavorato nel reparto dei pacchi, anche lei faceva parte della organizzazione clandestina. Di queste cose, per motivi di sicurezza, nessuno sapeva, non si informava di queste cose. Si chiamava Aldona. Aldona, era questa la mia collega del reparto dei pacchi: era membro dell’organizzazione clandestina. Jadzia mi ha chiamato pochi mesi fa per confermarlo. Per ritrovarla. Penso però che possiamo raccontare storie del genere ancora per due mesi. E i racconti non basterebbero, ma non so se questo sia utile.
Adele V. Messina: Bene. La prossima domanda è molto semplice. Lei è una sociologa, potrebbe dare una piccola breve definizione di genocidio in termini sociologici?
Anna Pawełczyńska: Un attimo, un attimo... ciò è davvero molto importante e richiede precisione. Il genocidio è l’uccisione dell’uomo: è illegale secondo la legge nazionale e internazionale. Si tratta dell’intenzione di uccidere, distruggere certi gruppi della popolazione (un gruppo nazionale, etnico, razziale) senza nessuna ragione accettabile solo a vantaggio, favore, interesse degli oppressori che vogliono imporre il proprio modello di nazione. Vi è usurpazione... loro creano un diritto a uccidere la gente, la gente priva di qualunque colpa e di cui non si conosce neanche l’accusa. Questo tipo di omicidio, nel senso di uccisione dell’uomo e quindi dell’umanità può fare uso di categorie religiose, nazionali, di classe sociale e serve per eliminare la gente considerata di troppo.
In Europa i primi, il primo gruppo oggetto di genocidio sono stati gli Armeni uccisi dai Turchi nel 1915. Poi ci sono stati i gruppi uccisi dai centri di potere nell’Unione Sovietica e questi erano omicidi che all’inizio si sono spiegati con le categorie di classe sociale e classe possidente. Dopo son subentrati i criteri di nazionalità, i gruppi nazionali, e il primo omicidio del genere fu il genocidio degli ucraini, morti per via della fame causata volutamente da Stalin: fece confiscare le derrate alimentari, isolò l’Ucraina; una scelta politica, uno strumento di genocidio tra il 1932 e il 1933 durante la collettivizzazione dell’Unione Sovietica.
Dopo si può parlare di genocidio tedesco degli ebrei, e poi dei polacchi e di altre nazionalità slave, i russi inclusi. E verso i Polacchi il genocidio tedesco, ma anche sovietico. Ma qui devo aggiungere, che l’Unione Sovietica ha usato il genocidio anche verso propri grandi gruppi nazionali. E si può dire che qui si possono distinguere gli omicidi totalitari dai … di sicuro questo non è preciso, ma ci vorrebbe una settimana … intendo dire che non ho definito, ho solamente delineato il problema.
Adele V. Messina: Bene. Torniamo ai valori. Lei nel suo libro respinge la teoria di Bruno Bettelheim secondo cui i prigionieri si sono identificati con la Gestapo.
Anna Pawełczyńska: Già. L’identificazione con gli oppressori.
Adele V. Messina: Nelle analisi di Bettelheim troviamo la questione della sopravvivenza, la componente morale; la regola principale del campo era “a chi ha sarà dato, a chi non ha questa sarà tolto”, secondo il vangelo di Matteo.
Anna Pawełczyńska: Forse si tratta semplicemente di questo e cioè che io respingo la teoria di Bettelheim, che generalizza e che tenta di spiegare un’ampia gamma di fenomeni; invece io penso che questa teoria è una teoria non di taglio generale, ma che debba fare riferimento solo ad alcuni fenomeni, che devono essere distinti, individualizzati in questa comunità larga. Chiaro o no?
Adele V. Messina: Tra i valori che si sono combattuti e sono emersi in mezzo alla violenza di Auschwitz lei evidenzia invece il “non nuocere al tuo prossimo e, se possibile, salvalo”. È un valore abbastanza opposto a quello che propone Bettelheim. Lei presenta un’altra norma, la “regola principale del campo”: “Non nuocere al tuo prossimo e, se possibile – salvalo!”
Anna Pawełczyńska: È la mia teoria, è quella che io formulo. Sì, è questo lo schema di analisi sociologica che formulo io. Sì. Valori e violenza. E nell’altra teoria si tratta del fatto che uno che usa violenza contro di te diventa il sistema di riferimento: tu ti identifichi con lui e ti senti apprezzato, stimato. E questo è Bettelheim.
Adele V. Messina: Di nuovo le chiedo un’enunciazione: qual è la sua definizione di valori nel linguaggio sociologico? Sì, nel campo della sociologia. Che cosa è? Perché, diciamo, ci sono delle differenze e la gente pensa che possano esserci vari tipi di valori, giusto? E che possano essere definiti in vario modo.
Anna Pawełczyńska: I valori servono per il bene di ogni essere umano e della natura intera contro la degradazione dell’uomo … già le categorie morali. Spiegando in modo più semplice, esistono le categorie di bene e male, verità e falso, le categorie di bellezza e bruttezza. La bellezza è collegata alla verità e al bene.
Adele V. Messina: Il bene e il male.
Anna Pawełczyńska: E adesso, quello che ha salvato l’uomo, l’umanità, in Oświęcim è stato salvare la propria vita senza nuocere all’altro: questo era un valore. I valori possono crescere, aumentare gradualmente o decrescere. Ad Oświęcim se si agiva per aiutare il prossimo, per salvare il prossimo – questi sono valori naturali, non solo perché si tende per natura a essere magnifici, ma semplicemente perché si vuole dare qualcosa di noi stessi all’altro. E per questo io, cercando il valore primo in condizioni estreme incredibilmente difficili a realizzarlo, ho riconosciuto come valore massimo quello di non nuocere al mio prossimo, e di salvarlo, se possibile. Salvando il mio prossimo, rinunciando a qualcosa a beneficio di qualcuno, il mio valore cresce. Ad Auschwitz si è sopravvissuti.
Per me sarebbe molto difficile aggiungere altro, però mi pare che il mondo di oggi rinneghi anche questo valore di base, che è stato possibile realizzare ad Oświęcim. Nessuna società può vivere con le categorie del relativismo morale, perché esso disturba la convivenza comunitaria. Qualunque convivenza tra la gente richiede i valori basilari, fondamentali: altrimenti si rischia di cadere nel fondamentalismo o nel fanatismo.
I valori di base sono i leganti delle comunità mentre i valori relativi sono come il materiale esplosivo che distrugge le comunità. Certo, si possono riconoscere valori diversi solo se si specifica lo scopo. Si può considerare il relativismo ma, ripeto, solo se si specifica dove questi valori diversi ci portano nel senso che i valori diversi ci portano allo stesso obiettivo. E se lo scopo è quello di stabilire l’ordine nelle relazioni, rapporti tra la gente, in tal caso dobbiamo riconoscere lo stesso sistema di valori. Se si accetta la disorganizzazione, tutti i valori alla fine si relativizzano. Io a volte faccio questo paragone per chiarire. Accettare il relativismo di valori è come permettere allo stesso tempo la circolazione delle auto sia a destra che a sinistra, oppure girare e ritornare indietro sempre dove e come ci pare. Il relativismo morale non limita la circolazione, permette a tutte le macchine, a ogni autiere di fare ciò che pare.
Sempre cercando di rispondere alla tua domanda, che è molto difficile, per esempio, le regole morali del cattolicesimo danno l’opportunità di una convivenza tranquilla e senza conflitti tra la gente. Oppure un sistema di valori che ha radici nella cultura da mila e mila anni, tale sistema ha più possibilità di regolare i rapporti umani, senza far male alla gente, magari facendo male minimamente. Portando ancora avanti questo pensiero, forse questo scandalizza, ma mi pare che tutte le ideologie e le idee che non si appoggiano all’esperienza di grandi gruppi sociali (delle società grandi) sono internamente contraddittorie e hanno conseguenze davvero terribili. Faccio un esempio. La Rivoluzione Francese. Libertà, uguaglianza, fraternità. Perché in queste tre parole vedo una grande contraddizione che è diventata causa di grandi mali nel mondo. Perché, escludendo l’uguaglianza, la libertà e la fraternità sono idee bellissime che portano al bene sociale. Invece, l’uguaglianza, che è falsa, non esiste in realtà, disorganizza il sistema di valori. E la prova della non coesistenza possibile è data dalla disorganizzazione nella vita sociale. Possiamo vederlo nella storia con la Rivoluzione Francese. C’è un poema di Jan Twardowski, prete poeta polacco, molto breve, che dice: “Se ognuno avesse tutto, nessuno avrebbe bisogno dell’altro”. Ogni comunità normale è fondata sul fatto che siamo molto diversi, ma desideriamo il bene l’uno dell’altro: allora abbiamo bisogno l’uno dell’altro e ci amiamo: siamo felici di avere bisogno l’uno dell’altro. E questi sono i valori di base. Forse non è una definizione, ma...
Adele V. Messina: Dzękuję, grazie.
Anna Pawełczyńska: Anche io ho una domanda per te: qual è oggi il sociologo più intelligente, sapiente in Europa o in America?
Adele V. Messina: In questo periodo?
Anna Pawełczyńska: Sì, adesso.
Adele V. Messina: Tra i più famosi vi è Zygmunt Bauman.
Anna Pawełczyńska: Zygmunt Bauman?
Adele V. Messina: Sì.
Anna Pawełczyńska: E un altro?
Adele V. Messina: Anthony Giddens. È britannico.
Anna Pawełczyńska: Quanti anni ha?
Adele V. Messina: Forse oltre 70. Bene. Mi corregga ora se dico cose sbagliate: prendendo in considerazione che lei ha rischiato la sua vita con Zofia Pohorecka...
Hanna K. Ulatowska: L’ho conosciuta.
Adele V. Messina: Ha conosciuto Zofia Pohorecka?
Hanna K. Ulatowska: Sì, è morta…
Adele V. Messina: Dicevo che lei ha rischiato la sua vita con Zofia Pohorecka per trasmettere messaggi segreti, per salvare una lista: l’elenco di bambini e donne in Auschwitz che ha preparato con Zofia Pohorecka (Brodzikowska – Pohorecka), Anna Zarzycka e Maria Mazurkiewicz.
Anna Pawełczyńska: Sì, però dobbiamo decifrare il nome: Anna Zarzycka, perché lei era... era un’ebrea polacca ma con documenti armeni: era Ewa Agapsowicz. Preparavamo questi elenchi durante la notte.
Hanna K Ulatowska: Il mio nome, il nome di mia mamma si trova su questo elenco. Se vieni a casa mia, ti mostro l’elenco scritto, con la scrittura di…, oppure di Zosia, che sono preparati in modo molto diverso.
Anna Pawełczyńska: Sì.
Adele V. Messina: Questo elenco dimostra che tutto questo è successo...
Hanna K. Ulatowska: Ma certo!
Adele V. Messina: Questo elenco ora si trova…
Hanna K. Ulatowska: In Auschwitz, penso, nel museo. L’elenco dei bambini della Rivolta di Varsavia. A casa, a via Filtrowa ti mostrerò, l’elenco completo di tutta la gente che dopo la Rivolta di Varsavia sono arrivati ad Auschwitz.
Adele V. Messina: Quante persone preparavano questi elenchi?
Anna Pawełczyńska: Al massimo 4. Perché quelle che potevano farlo erano sole le donne che lavoravano nella paczkarnia, nel reparto confezionamento, durante la notte, quando la SS donna dormiva. E noi che avevamo fiducia l’una dell’altra cercavamo di lavorare a turno di notte, perché durante la notte il controllo da parte dell’autorità del campo era relativamente minimo. E durante la notte si poteva, era rischioso, ma si poteva andare verso l’altro blocco, e durante la notte si poteva scrivere, leggere, fare i pacchetti. E si poteva mantenere i contatti tra una sezione A o B. Conoscere gli spazi di Auschwitz, i movimenti delle SS ci aiutava ad organizzare le nostre azioni.
Perché durante la notte la porta era chiusa, ma si poteva andare, forse non nell’altro blocco perché era tutto sorvegliato, dove vi erano i gabinetti: questo era il posto degli incontri. Perché era permesso andare in bagno: così rischiando un po’ e aspettando un’oretta era possibile incontrare qualcuno o chi si voleva incontrare. Però ci voleva pazienza e soprattutto bisognava avere fiducia...
Adele V. Messina: Quindi tutti questi punti di contatto tra i reclusi hanno permesso delle connessioni di comunicazione che hanno favorito l’organizzazione della resistenza.
Anna Pawełczyńska: Hanka Zarzycka, cioè Ewa Agapsowicz, era un’ebrea polacca, membro dell’organizzazione comunista, il resto era dell’Esercito Nazionale (AK). E poi c’era Janusz Zarzycki, il marito di Anna Zarzycka, anche lui prigioniero del campo in Oświęcim: è diventato il generale più giovane dell’esercito comunista, ed era una persona di cui si fidava l’Unione Sovietica. Allora era tutto un misto... E dopo la guerra, quando la gente si è divisa … le opinioni politiche, i legami di amicizia creatisi nel campo o in prigione erano talmente forti, che sono sopravvissuti malgrado la divisione politica. Questo perché la PRL (Repubblica Popolare Polacca) era molto meno dura rispetto agli altri paesi comunisti dell’Unione. A causa di questi legami di amicizia. E si diceva che la Polonia fosse la baracca ‘più allegra’ nel campo del socialismo. La baracca più... libera nel campo del socialismo.
Adele V. Messina: L’Olocausto ha conseguito una certa centralità e importanza nella consapevolezza europea. Qual è la sua lezione “dopo Auschwitz”? Il messaggio più importante da trasmettere alle generazioni successive?
Anna Pawełczyńska: Anche nelle condizioni più terribili possiamo cercare di essere persone giuste, decenti.
Adele V. Messina: Va bene. Zygmunt Bauman nel suo Modernità e Olocausto per spiegare che cosa è l’olocausto, che cosa è stato l’olocausto, ricorre alle categorie di modernità, razionalità e burocrazia.
Anna Pawełczyńska: Sì.
Adele V. Messina: In questo libro Bauman spiega che cosa è l’Olocausto usando due concetti sociologici di Max Weber. E questo libro, pubblicato nel 1989, ha avuto un gran successo nella letteratura sociologica. Secondo lei, a che cosa si deve tale fortuna?
Anna Pawełczyńska: È molto difficile, sai, rispondere. Che cosa pensi tu?
Adele V. Messina: Del libro? E del punto di vista di Bauman? La sua teoria della modernità che propone, secondo me, non è del tutto appropriata: in realtà, non spiega Auschwitz quando non considera elementi come l’antisemitismo, l’ideologia totalitaria ma solo la razionalità del processo di genocidio.
Anna Pawełczyńska: L’antisemitismo esisteva in vari Paesi da tempo, da centinaia di anni. Si tratta di questo.
Hanna K. Ulatowska:… in Polonia, in Gran Bretagna, in America.
Adele V. Messina: Lei conosce il libro di Leonard Dinnerstein “L’antisemitismo in America”?
Anna Pawełczyńska: Antisemitismo... non si può capire l’antisemitismo senza capire l’economia e la stratificazione professionale della società nei vari Paesi. E adesso non possiamo procedere o capire senza fare una distinzione tra due tipi d’antisemitismo: uno con radici economiche (quello secondo cui le persone più ricche sono/erano di nazionalità ebrea) e il secondo, che invece riguarda gli ebrei Chassidim, la gente profondamente credente, i pii. Questo tipo di antisemitismo somiglia a tutti gli antagonismi sociali che si creano quando si vede gente che suscita derisione, ridicolezza, perché diversa.
Questo tipo di antisemitismo dava fastidio agli ebrei ed era ugualmente fastidioso in varie regioni della Polonia. Perché per un abitante di Varsavia sembrava ridicolo uno che abitava a Cracovia – centuś krakowski [=avaro di Cracovia]; uno di Poznań, che metteva a fuoco solo i suoi soldi, un uomo che veniva dall’est, che aveva la mentalità totalmente diversa. Si tratta di localismo, localismo. Le diversità locali. E gli ebrei... le kippot ebraiche erano ridicole per quelli di fuori, ma anche i vestiti dei montanari erano ridicoli.
E questo antisemitismo ha permesso alla comunità ebraica di integrarsi nella società polacca, perché le loro diversità erano oggetto di risate e potevano essere molto penose.
Nella Polonia orientale c’erano questi ebrei radicati bene nonostante le loro diversità. Perché tanti diventavano nobili – ebrei, tartari, ucraini. E adesso... l’antisemitismo per entrambi le parti riguardava il fatto che la Repubblica aristocratica disprezzava le professioni collegate al commercio, alla produzione industriale, perché considerate professioni “basse”. Una professione prestigiosa era il servizio militare, quella legale, mentre il lavoro manuale, collegato direttamente al denaro era disprezzato. E così gli ebrei piano piano hanno cominciato a controllare tutte queste professioni e sono finiti con tantissimi soldi alla fine. Le differenze economiche in qualche modo hanno contribuito all’Olocausto; bisogna considerare la crisi economica in Germania durante il periodo tra le due guerre. La situazione in Europa e in Germania, la fine dell’impero. I tedeschi hanno perso tutto l’impero: hanno perso un senso di potere, di forza dopo la Prima Guerra Mondiale.
Adele V. Messina: L’impatto di Ossowski su di lei? Quale è stato l’impatto di Ossowski su di lei, in particolare il libro che si chiama “Legame sociale e l’eredità di sangue” del 1939?
Anna Pawełczyńska: Il professore Ossowski era un uomo di grande bontà e ‘ha abbracciato tutti i polli zoppi’ che hanno sofferto durante la guerra. Tra di noi si è creato un rapporto molto familiare. Lui proteggeva ugualmente la gente brava e non molto brava. Di conseguenza non ha creato nessuna scuola sociologica. Invece...
Adele V. Messina: … è un sociologo molto famoso...
Anna Pawełczyńska: Sì, è molto famoso, magnifico, ha dato tantissimo a quelli che l’hanno capito. Ma non sempre ci influenzava quando era vivo, la sua influenza su di me è cominciata, ad esempio, dopo la sua morte. Lui era eccezionale, ma io ero contro tutti i personaggi del genere. A causa del carattere. Io stavo lottando contro tutto, ma per essere influenzati, non ci si può comportare così, perché non si ascolta. Sto dicendo che non si ascolta quando si combatte contro tutti. Ci vuole del tempo. Sì, ci vuole tempo. E come la famiglia mi ha insegnato alcune cose contro cui mi ribellavo, così il professore Ossowski mi ha insegnato delle cose a cui ero contraria e a cui resistevo. E adesso che sono in pensione e lavoro a casa in modo indipendente e non sono sottoposta a nessuno, sempre di più richiamo alla mente delle frasi o qualche comportamento tipici del professore Ossowski e alcune dispute, nelle quali, lo comprendo oggi, lui aveva ragione.
Lui per me ha fatto tantissimo, perché non avrei mai finito i miei studi e sostenuto gli esami che ho superato a casa sua con una bottiglia di vino senza sapere che stavo sostenendo un esame: me lo diceva dopo aver svuotato insieme la bottiglia. E adesso penso che lui aveva un senso di comunità straordinario. Lui era molto timido e aveva paura di noi allo stesso modo in cui noi avevamo paura di lui all’inizio. La sua sociologia guardava all’uomo. Era molto umana: lui non ci ha insegnato nessuna teoria, piuttosto mi ha insegnato a “sentire” la società e a porre delle domande. Oltre a questo non esigeva le cose a memoria: quando uno dimenticava il nome o il titolo di un libro, lui lo faceva passare. Invece, era contentissimo quando uno riusciva ad avere un approccio interessante verso qualche problema. Ed era capace di orientarsi cioè di scegliere le persone brave sulla base dei compiti scritti che dovevamo fare a casa. Lui poneva una domanda e mostrava come a una questione posta – apparentemente molto semplice – si potevano dare invece risposte molto complicate. Ad esempio, quando aveva dato il compito di descrivere la casa…
Adele V. Messina: … descrivere la casa?
Anna Pawełczyńska: Sì. Tante persone hanno fatto una descrizione abbastanza banale; invece lui era incredibilmente contento che io avessi descritto la mia casa e la casa dei Munk come due case che funzionano in modo totalmente diverso, e ancora la terza casa, nell’edificio nuovo, dove si erano trasferite delle persone provenienti da località varie. E lui era contento. Un’altra cosa, il mio esame di metodologia: so che l’avevo superato nel migliore dei modi, perché sono andata lì e gli ho detto che non esiste la metodologia sociologica. Invece, ci sono vari modi di approcciare il soggetto e si può derivarli da scienze varie.
Il professore Ossowski mi ha insegnato a porre le domande, a interrogarmi sui problemi, a cercare i modi di capire questi problemi e a trovare le tecniche con le quali si possono determinare alcuni fatti. E io penso che per essere un buon sociologo - adesso non ci sono tanti sociologi buoni, in Polonia di sicuro non ci sono, facendo un paragone col passato – quello che è indispensabile è l’immaginazione sociologica, vicina alla letteratura e uno che ha l’immaginazione letteraria e sociologica sa porre la domanda.
Adele V. Messina: Come Charles W. Mills? Ricordo la sua Immaginazione sociologica.
Anna Pawełczyńska: E il modo di verificare questo problema non è unico, ma ci sono varie possibilità come usare tecniche diverse, e le conclusioni s’incrociano, s’incontrano. In tale caso uno prova una grande gioia scientifica cioè che ha risolto un problema. Perché le risposte simili vengono da vari fonti. Per questo il professore Ossowski non ha fondato una scuola, ma ha portato avanti più di una decina di persone pronte a discutere fino alla morte, perché aventi opinioni differenti, sulle convinzioni più dissimili, su interessi diversi e diversi modi di trovare la verità. Ecco perché lui era un grande studioso, perché capiva ognuno di noi. E io, anche se mi ribellavo a lui, facevo riferimento a lui, e il rapporto tra di noi era più familiare o amichevole che scientifico.
Il professore Ossowski non era molto impressionante: gli capitava di balbettare, di inciampare mentre saliva sulla cattedra, perché era distratto e cadeva dal podio. Una volta è quasi caduto in una piscina perché aveva così fissato cogli occhi le gambe di una bella studentessa ... Era sposato. Sua moglie era una stupenda professoressa d’etica e sociologia morale; non mi piaceva e non l’apprezzavo tanto, perché lei era un contrasto. La sua famiglia era davvero buona, lei era ben educata, ben vestita e parlava benissimo.
Adele V. Messina: Il suo nome era Maria Ossowska, vero?
Anna Pawełczyńska: Sì, esatto. Secondo me non era una persona creativa solo una persona capace di sistemare, mentre lui aveva un’immaginazione sociologica stupenda che superava la società umana. Perché per me... c’era anche la sociologia delle piante, degli animali. E questa immaginazione verso il mondo delle piante, degli animali, verso la natura, a me, ad esempio, aiutava tantissimo: mi permetteva di concepire teorie cioè di capire meglio il mondo umano. E l’osservazione del mondo degli animali …
Adele V. Messina: … l’osservazione del mondo reale …
Anna Pawełczyńska: Sì, sì, ma anche le piante possono indicare cose molto interessanti. E adesso andiamo avanti. Quando io penso che il mondo di oggi stia andando verso un punto molto pericoloso per l’essere umano, sto considerando una lezione di Ossowski, che riguarda le proporzioni degli esseri normali e, diciamo, sotto-normali che esistono in ogni società, non solo umana, nel mondo. E, se non mi sbaglio, in ogni comunità, in ogni gruppo esiste circa il dieci per cento di esseri che si differenziano dagli altri più o meno. E tra di loro si trova la possibilità di sopravvivere, perché loro sono più potenti in ogni senso, cioè guardando le popolazioni umane, vegetali, dei pesci etc., dipende dal genere, questa forza si manifesta diversamente, ma applicandolo alla popolazione umana – se nel mondo umano salviamo questo dieci percento di uomini che pensano in modo indipendente, abbiamo una possibilità per la popolazione umana di non degenerare totalmente, di sopravvivere. E per questo forse anche la democrazia degenerata di oggi non ci distruggerà. Perché sopravviverà questo germoglio della vita sapiente, buona. Ad Auschwitz c’è stato un senso morale, Wartości, che ha permesso al seme dell’umanità di non andare distrutto.
Adele V. Messina: La civiltà degli uomini. A proposito del suo ottimismo, del suo senso umoristico in Auschwitz, come ha scritto Jim Landers, di voi quando trasportavate gli escrementi, e facevate finta di essere dei cavalli che nitrivano … È un valore sociale, no?
Anna Pawełczyńska: Sì: una strategia di ribellione contro la disumanizzazione; l’umorismo è stato in grado di liberare dalla paralisi della paura in situazioni estreme di pericolo; come ti dicevo prima, rielaborare la quotidianità ad Auschwitz significava resistere al male in modo concreto. Ma l’ottimismo può diventare anche una sconfitta sociale, se non corrisponde alla realtà. Perché provoca azioni sbagliate, in questo caso. Io non sono ottimista, non sono pessimista, sono realista. E se ho una sensazione che... basta con questo soggetto... cioè bisogna almeno avvicinarsi al bene e allontanarsi dal male. E questo è già un successo sufficiente. E il professore Ossowski ha detto una volta, che è cosa più degna lottare per una causa persa piuttosto che aggiungersi a una maggioranza che vince. Per una causa persa che si apprezza però. E per questo sono patriota.
Adele V. Messina: Bene. Solo una curiosità. Lei ha incontrato ad Auschwitz Roza Robota? Ha partecipato alla ribellione e distruzione del crematorio IV. Lei trafficava di nascosto della polvere da sparo.
Anna Pawełczyńska: No, no.
Adele V. Messina: Un’altra era Regina Safirstein o Saperstein. Lavoravano nella fabbrica che costruiva parti di razzi V2 (la cosiddetta Union Werke) vicino ad Auschwitz: nascondevano piccole quantità della polvere nelle loro gavette, dotate di un doppio fondo, nei nodi delle sciarpe, nelle cuciture e nelle pieghe dei loro abiti; in un solo giorno circa tre donne potevano accumulare tre cucchiaini di polvere.
Anna Pawełczyńska: Non è stato possibile incontrarla perché le strade erano diverse... Lei circolava entro un altro territorio, io avevo il permesso di stare dentro un’altra parte. Crematorio IV. No, io non avevo accesso a questo territorio.
Adele V. Messina: Basta così.
Postilla redazionale
Il testo è stato ripubblicato nella rivista "DEP", 30, febbraio 2016, a cura dell'Università "Ca' Foscari" di Venezia (http://www.unive.it/nqcontent.cfm?a_id=200057).
Note
[1] Anna Pawełczyńska nasce nel 1922 e si avvicina agli studi di sociologia, devianza giovanile e criminologia dopo la detenzione ad Auschwitz-Birkenau per via della precedente militanza clandestina nella Armia Krajowa. Dal maggio 1943 all’ottobre 1944 rimane nel Lager come prigioniera politica n. 44764 e partecipa al movimento di resistenza interno, facendo parte del commando del campo femminile. Alla fine dell’ottobre 1944 è trasferita a Dresda presso la fabbrica di Flossenbuerg del gruppo Zeiss-Ikon. Nell’aprile del 1945, durante l’evacuazione del subcampo, mentre è vicina al fronte fugge dalle colonne in marcia e trova rifugio nelle foreste dove rimane fino al 7 maggio. A partire da quel momento è impegnata a preparare un programma di assistenza per i polacchi di ritorno in patria. Al termine del conflitto, come molti sopravvissuti, nutre il desiderio di lavorare alla realizzazione di un avvenire migliore: da qui la passione per lo studio della società e i corsi di sociologia con Stanisław Ossowski, Maria Ossowska, Jan Strzelecki; le ricerche sulla delinquenza dei giovani presso la sezione di Criminologia dell’Accademia polacca delle Scienze negli anni di Stalin; la docenza nel 1953 come visiting sociologist all’Istituto di Demografia e Pubblica Opinione di Ricerca in Francia; l’istituzione, di ritorno in Polonia, e la direzione fino al 1964, del primo Centro di Ricerca di Opinione Pubblica nei Paesi del blocco socialista, senza dimenticare il dottorato nel 1960, e poi la docenza all’Università di Varsavia e all’Accademia polacca delle Scienze.
Pawełczyńska non scrive di Auschwitz durante il conflitto né alla sua fine: il suo resoconto Wartości a Przemoc (1973) matura dopo trenta lunghi anni di silenzio: è il resoconto oggettivo di una testimone passata per Auschwitz e non il risultato di un percorso collettivo di rielaborazione della memoria. Sulla scia del maestro Ossowski pone in relazione i fatti successi ad Auschwitz con il passato polacco, facendo emergere aspetti della questione ebraica fino a quel tempo ignorati. Come prigioniera politica mette a rischio la propria vita per compilare in segreto gli elenchi di bambini e donne trasportati ad Auschwitz dopo la rivolta di Varsavia: è stata una donna corriere e testimone diretta della distruzione del crematorio IV. É morta il 21 giugno 2014.
[2] A. Pawełczyńska, Values and Violence in Auschwitz. A Sociological Analysis, Berkeley, Los Angeles, London, University of California Press, 1979, p. 1 (ed or. Wartości a Przemoc. Zarys socjologicznej problematyki Oświęcimia, Warszawa, PWN, 1973).
[3] Cfr. S. Ossowski, Prawa “historyczne” w socjologii, in «Przegląd filozoficzny», XXXVII, 1935, pp. 3-32. Sul pensiero del celebre sociologo polacco, vedi M. Chałubiński, The Sociological Ideas of Stanisław Ossowski: His Life, Fundamental Ideas and Sociology in Polish and World Science, in «Journal of Classical Sociology», VI, 2006, n. 3, pp. 283-309.
[4] Hanna K. Ulatowska, di origini polacche, è sopravvissuta ad Auschwitz. Insegna Disturbi della Comunicazione (Communication Disorders) all’Università del Texas, Dallas, negli Stati Uniti (School of Behavioral and Brain Sciences Callier Center for Communication Disorders). Tra i suoi interessi di ricerca vi sono anche le rappresentazioni mentali e i disturbi nel linguaggio dei reduci dai campi di concentramento e di sterminio nazisti. Si ringrazia per la traduzione dall’inglese al polacco e vice versa.
Per facilitare l’intervista e considerando le condizioni precarie di salute e l’età avanzata di Pawełczyńska ho presentato a Ulatowska le domande da sottoporre alla sociologa polacca qualche settimana prima che l’intervista avesse luogo.
[5] Si ringrazia per la consulenza linguistica dal polacco all’italiano Magdalena Dczaczkowska e per la spiegazione puntuale dei termini łącznik (s.), łącznicy (pl.) e più avanti di paczkarnia (reparto di confezionamento) p. 9 dell’intervista.
[6] ... [cercando di dire qualcosa altro in italiano].
[7] Fisicamente occupavano spazi distanti dalle altre e quindi erano più lontane tra di loro in termini di solidarietà: ricevevano cioè meno aiuti o in un secondo momento.
[8] Stanisław Klodziński è stato tra i primi a testimoniare l’esistenza di camere a gas mobili ad Auschwitz. Cfr. J. Garliński, Fighting Auschwitz: The Resistance Movement in the Concentration Camp, London, J. Friedmann, 1975, pp. 220-221.
Casella di testo
Citazione:
Nel campo di Auschwitz, a cura di Adele Valeria Messina, "Free Ebrei. Rivista di identità ebraica contemporanea", IV, 2, dicembre 2015
url: http://www.freeebrei.com/anno-iv-numero-2-luglio-dicembre-2015/nel-campo-di-auschwitz-a-cura-di-adele-valeria-messina