Giuseppe Veltri, Language of Conformity and Dissent
Abstract
Gabriele Guerra analyzes Giuseppe Veltri's essay about Jewish intellectuals in the last two centuries and takes in account the effects of a modern Jewish philosophy.
«E così è stato realmente l'ebraismo, per rimanerlo anche nel futuro: il non-antico del mondo antico, il non-moderno del mondo moderno. Così deve essere l'ebreo: l'anticonformista della storia, il grande dissidente». In questa pagina famosa dal Wesen des Judentums, un trattato sull'“essenza” dell'ebraismo che il rabbino di Berlino Leo Baeck scrisse nel 1905 in risposta allo scritto dello storico protestante Adolf von Harnack, che poco prima aveva dato alle stampe una Essenza del cristianesimo nella quale gli ebrei sono visti sostanzialmente come gli oppositori del potenziale “profetico” del primo cristianesimo, si condensa e si riassume a perfezione una grande intuizione storiografica ed allo stesso tempo una sorta di crux retorica, un vero e proprio paradosso all'interno di ogni “discorso” sull'ebraismo. Leo Baeck considera cioè l'ebraismo – e l'ebreo, che per lui sono in pratica sinonimi – in sostanza come una forza che si oppone al potere dominante («nicht Macht, sondern Kraft», è il prosieguo della sua argomentazione: «l'essere ebraico vive nel mondo in quanto forza, e forza è grandezza»), e tuttavia non lo considera un eversore dello stato di cose esistente. L'auto-rappresentazione dell'ebreo si situa così su un piano deliberatamente altro del discorso politico e culturale del suo tempo; ma allo stesso tempo i paradigmi identitari, le concrete esistenze degli ebrei nelle società del loro tempo, sono anche tesi alla ricerca di una conformità, di un adeguamento ai canoni sociali e intellettuali dell'epoca in cui si trovano a vivere.
Un tale paradosso – meglio, un vero e proprio double bind – si trova dunque alla base dell'auto-percezione dell'ebraismo, per come si è andato declinando almeno negli ultimi due secoli. Merito di questo libro di Giuseppe Veltri – docente di filosofia e religione ebraiche all'università di Amburgo – è di lumeggiare, per di più da una prospettiva in cui l'erudizione non fa velo allo sguardo lucidamente diacronico, gli ultimi due secoli di storia del pensiero ebraico, prendendo come punto di riferimento lo stimolante utilizzo in ambito storico-culturale di un concetto nato originariamente nella didattica delle lingue, quello della “imaginative grammar” – che tiene insieme due aspetti come “grammatica” e “immaginazione”, che invece si considerano usualmente contrapposti e senza collegamenti tra loro. Per Veltri invece, tale “grammatica immaginativa” rappresenta «the conglomeration of images, concepts, and interpretations» (p. 12). È evidente, quindi, come tale concetto declinato in tal modo possa trovare feconda applicazione nel campo dell'analisi storico-intellettuale, tanto più per quel che riguarda l'ambito ebraico moderno.
E difatti questo libro – che in realtà è una raccolta di saggi già precedentemente usciti, più alcuni inediti (e la natura sostanzialmente collettanea del volume si ritrova anche nella multiformità dei saggi, dai quali non sempre è possibile risalire in maniera immediatamente perspicua agli assunti ermeneutici squadernati in apertura) – si presenta proprio come un doppio incrocio, assai fecondo nella sua ricchezza di dati e di interpretazioni, da un lato tra il piano “grammaticale” e quello simbolico della produzione intellettuale ebraica, dall'altro tra la dimensione di “conformità”, se non addirittura di conformismo, e la tensione al dissenso della sua prestazione spirituale; un doppio incrocio che rende in maniera plastica la natura profondamente interstiziale dell'identità ebraica – tra le nazioni, tra le confessioni, tra le discipline accademiche.
L'originale percorso interpretativo così delineato ha però un ulteriore merito, per quanto attiene al suo impatto sui Jewish studies: l'autore cioè non si dedica ad esaminare quei pensatori e correnti dell'ebraismo del XX secolo, che fin dalla loro collocazione biografica ed accademica si prestano assai bene a essere declinate in chiave ”eccentrica”, “non-conforme”, o “dissidente”, sino a produrre vere e proprie agiografie dell'outsider (si pensi qui alla solo recezione di Walter Benjamin); bensì affronta temi, movimenti e figure dell'ebraismo considerato più “tradizionale” (proprio in virtù della prospettiva dominante, tutta appiattita sull'età di Weimar), come Leopold Zunz e la Wissenschaft des Judentums, Steinthal e Steinschneider tra gli altri. Il volume è organizzato in quattro sezioni, che intendono dare conto appunto di questa Spannung ermeneutica, tra funzione per così dire “costituente” e momento “destituente” dell'ebraismo: la prima parte si dedica a lumeggiare la ricerca di una scientificità da parte degli eruditi ebrei (“Searching for a scientific language”), ovvero della costituzione dell'ebraismo in quanto disciplina, sia da un punto di vista genealogico che politico-accademico. La seconda parte tratteggia brevemente ma convincentemente – grazie alla grande ampiezza di riferimenti e alla capacità di sintesi – la “storia culturale e politica di una congiunzione”; esaminando cioè come l'ebreo e l'ebraismo siano stati recepiti dal e nel classicismo weimariano (Goethe e Herder soprattutto, ma anche Gesenius), con tutto il suo portato di “generico antisemitismo” (cfr. p. 115) che percorre analisi e prospettive degli insigni rappresentanti della cultura e della scienza tedesche. La terza parte (“Creative languages and interstitial spaces”) approfondisce la questione da un punto di vista più concettuale, ovvero di come la religione e la tradizione ebraiche abbiano potuto interagire con altri ambiti del sapere più o meno marginali, dalla magia al significato storico-religioso del monoteismo. La quarta parte infine (“Disjunction, or the Jewish dissent”) presenta un trittico di “dissidenti” ebraici quali il già citato Leo Baeck, il polemicamente famoso Jacob Taubes e il filosofo francese Emmanuel Lévinas (e già dalla scelta di tali autori si capisce ancora meglio come il concetto di “dissent” utilizzato nel libro non sia di natura politico-morale, quanto piuttosto filosofico-concettuale; il che porta Veltri a formare una costellazione di pensatori piuttosto inusuale, e forse – almeno nel caso di Lévinas – non del tutto condivisibile, non almeno su un piano immediato e nonostante il suo inserimento del gesto talmudico all'interno del dispositivo filosofico vero e proprio, che ne fa così un “dissenziente” all'interno della storia della filosofia). La figura di Taubes, in particolare, si mostra nel libro come esemplare case-study, visto che proprio a lui si adatta meglio di altri a questa tipologia del dissenso, vista la sua singolare dimensione di studioso, proveniente da una famiglia viennese di rabbini, che nel corso della sua relativamente breve vita ha girovagato tra Svizzera, Stati Uniti, Israele e Germania, senza mai trovare un definitivo ubi consistam esistenziale e accademico. E tuttavia giustamente Veltri sottolinea il carattere “conforme” della sua difformità di intellettuale “gettato dal passato nel presente” (p. 232), che ne fa sostanzialmente un nichilista che non crede fino in fondo né all'apocalisse (che è fallita), né alla salvezza del mondo (che non merita di essere salvato). Taubes è insomma un trapezista del pensiero – riprendendo un'efficace immagine usata dalla stesso Taubes, che Veltri utilizza per inquadrarne a livello immediato la figura.
Le conclusioni del libro, coerentemente con la natura oscillante di questo studio, che insegue i momenti di “fissazione” grammaticale e di vaporosità immaginale del pensiero ebraico, non sono in effetti tali: il capitolo che chiude il libro ne apre cioè un altro, quello per così dire riguardante una geopolitica simbolica dell'ebraismo; il quale – soprattutto in Germania – appare cioè indeciso, perfino a livello architettonico, tra un ebraismo “protestante”, che si adatta alle forme dominanti, e uno esotico, “orientale”, che ha il compito di ricordare anche visivamente il Vicino Oriente da cui l'ebraismo proviene e che accoglie come vero e proprio punto di fuga. Veltri sottolinea a partire da qui la dimensione “orientale” entro cui si struttura l'ebraismo tedesco del XIX secolo, che riprende l'esperienza degli ebrei in terra islamica per attingere così a un modello altro di convivenza e stabilire in tal modo un indiretto parallelo con la propria specifica esistenza nel Secondo Reich guglielmino. In questo senso si pone dunque ad esso – e non solo ad esso – la questione di una filosofia ebraica, ovvero di un pensiero variamente strutturato ma sempre ancorato a un sistema di segni e di simboli riconosciuto: vale a dire come di un tentativo – che trovò il suo processo di realizzazione più luminoso proprio a cavallo tra XIX e XX secolo in Germania – di dare conto di uno “shift” radicale dentro i paradigmi identitari sempre cangianti della mentalità ebraica, anche facendo ricorso a categorie storico-religiose. Torna in questo senso alla fine del volume quel concetto di “profezia” già tematizzato da Leo Baeck, che tenta così di saldarsi al concetto di “scienza” nel momento in cui il pensatore ebreo affronta la questione di cosa sia una filosofia ebraica: un centauro, si potrebbe dire, che rende visivamente perspicuo quell'inesausto movimento concettuale tra profezia e scienza, tra grammatica ed immaginazione, tra consenso e dissenso, tra recupero delle radici e adattamento culturale, che finisce per delineare i contorni di un'identità sempre sfuggente eppure sempre ben presente.
Casella di testo
Citazione:
Giuseppe Veltri, Language of Conformity and Dissent (recensione di Gabriele Guerra), "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", V, 1, gennaio 2016
url: http://www.freeebrei.com/anno-v-numero-1-gennaio-giugno-2016/giuseppe-veltri-language-of-conformity-and-dissent