Martin Heidegger, Quaderni neri II (1938-1939)
"Free Ebrei", V, 2, luglio 2016
Martin Heidegger, Quaderni neri 1938/1939 [Riflessioni VII-XI], Milano, Bompiani, 2015
di Daniele Nuccilli
Abstract
Daniele Nuccilli reviews the second volume of the "Black Notes", which continues Martin Heidegger's philosophical considerations on the fate of Being and the beings during the last 1930s.
I Quaderni Neri di Heidegger, come messo in evidenza dalla comunità scientifica, costituiscono una forma pressoché unica nel panorama culturale del Novecento. Ascrivibili al genere della diaristica filosofica, essi tuttavia se ne distaccano in virtù di una speculativa sistematicità che ne tradisce il desiderio di divulgazione. Nonostante questa tensione sostenga internamente la loro struttura, essi constano di una spontaneità espositiva peculiare. Una sorta di ordinato flusso di pensiero, dal tono profondamente teoretico, accompagna, infatti, le varie questioni affrontate dal filosofo. Privato e pubblico s’intersecano a più riprese nei Quaderni, e sebbene la gestazione dei medesimi si situi negli anni più drammatici del secolo, l’evenemenzialità del divenire storico non eccede mai la riflessione speculativa che Heidegger ivi dispiega.
Il secondo volume, edito da Bompiani, è la traduzione in lingua italiana del tomo 95 della Gesamtausgabe. Esso contiene le riflessioni messe su carta da Heidegger tra il ‘38 ed il ‘39. Qui prende forma, grazie ad un continuum filosofico-narrativo con le riflessioni precedenti, il percorso pensante dell’uomo che, abitando l’epoca del trionfo della modernità e dell’ente, si è avviato sulla strada della domanda dell’essere e dell’altro inizio cui essa introduce.
La via è aperta nel primo volume. Dopo aver conquistato uno spazio di ricezione per la chiamata dell’essere, ovvero, una fessura nella totalità dell’ente, dalla quale soltanto esso può chiamare, adesso l’esser-ci deve sopportarne gli urti. Si tratta di quei rivolgimenti (Umkippung) della storia dell’essere che, dal fondo del massificarsi e dell’intensificarsi di una concezione calcolante del mondo e della storia, spingono per la rottura di una visione storiografica degli eventi. Tale rottura conduce a favore dell’evento appropriante di pensiero ed essere, ratio essendi e cognoscendi del dispiegarsi essenziale dell’essere nella piega oscura dell’allestimento dell’ente.
In questo quadro concettuale storiografia e storia si polarizzano, senza scandire l’un l’altra i passi di un gioco meramente oppositivo. Piuttosto, la Historie viene chiamata qui in causa come atteggiamento fondamentale caratterizzante la modernità. Su tale atteggiamento s’innestano tutte le forme di autarchie culturali e politiche che la contraddistinguono, dal cosiddetto cristianesimo culturale al nazionalsocialismo, dallo storicismo popolare al wagnerismo romantico. Esse rappresentano di fatto momenti dispersivi per il predisporsi dell’uomo alla storia intesa come accadere dell’essere (Geschehen), ciò che Heidegger definisce anche ontostoria.
Nell’incedere del mantra speculativo heideggeriano sulla decisione necessaria per l’essere rispetto all’ormai globalizzata reiterazione dell’ente su ogni piano della complessa situazione socio-culturale che caratterizza l’epoca contemporanea, spicca l’aspra critica a Cartesio. Questi, con la sua messa al centro del soggetto, sarebbe alla base della determinazione metafisica dell’uomo come animal rationale e del suo atteggiarsi uniforme, di matrice tecnica, nei confronti di quelle che sono le espressioni “culturali” più alte dell’epoca dell’oblio dell’essere, come l’arte e la scienza. Queste risultano ormai sempre più politicizzate e inclini a fornire “ideali di massa” figli di una concezione imprenditoriale del sapere.
Su un siffatto impianto teorico si inanellano, come in una serie di corollari, insospettate valutazioni critiche di Heidegger sulla situazione socio-politica della Germania del Terzo Reich. Il nazionalsocialismo, alla stregua dell’americanismo e del bolscevismo, è portatore di un eterno livellamento degli urti dell’essere sul piano del “vissuto” e della mera contemplazione dell’affermarsi del “soggetto”. Quest’ultimo aspetto diviene vettore di una sempre maggiore tecnicizzazione dell’ente nei totalitarismi, il cui risultato, dal fronte geo-politico, è una continua ridefinizione dei confini e delle istanze nazionali sullo scacchiere dello scenario mondiale.
A tal riguardo va precisato che il cosiddetto “antisemitismo metafisico” si dipana su un piano tutt’altro che scontato. Non è nella retorica nazionalsocialista di stampo razziale che prende forma - lungo il corso dei Quaderni - la critica agli ebrei, ma piuttosto nel modo in cui questi si configurano come “popolo”. Lontani dalla filiazione greco-tedesca essi rappresentano nella maniera più pura lo sradicamento dell’uomo moderno dal suolo e dalle origini occasiche. Contro l’affermarsi del popolo tedesco come unico reggitore di una storia carica di a-venire, nel senso di un nuovo inizio ontostorico, in grado di scardinare la stasi perpetua del “tramonto che non volge mai a notte” della modernità, tuttavia, non si para davanti soltanto la forza sradicatrice dell’ebraismo, ma gioca un ruolo egualmente decisivo la “politica culturale” promossa dal Reich, colma di semplificazioni inerenti sia questioni di carattere biologico-razziali sia squisitamente filosofico-religiose. La filosofia dell’esistenza come il cristianesimo sono fattori coadiuvanti del trionfo dell’uomo storiografico. Heyse allo stesso modo di Klages non rappresentano altro che espressioni massime di un’epoca in cui non ci si interroga più su ciò che per Heidegger è il “realmente conoscibile”, il decisivo, l’Essere.
Nella pagina conclusiva delle riflessioni VIII si legge: “Il conoscibile stesso non è né francese né tedesco, né italiano, né inglese, né americano – bensì costituisce senz’altro il fondamento (Grund) di tutte le nazioni” (p.232). Proprio nella messa in corsivo del termine Grund si gioca la partita del più grande dei fraintendimenti. Se la torsione semantica viene condotta sul piano di un becero giustificazionismo della situazione attuale, allora Heidegger è una nottola di Minerva sul tramonto della modernità, con tutte le critiche del caso legate soprattutto al Rektoradrede. Se a essa si attribuisce il valore di una necessaria e del tutto personale apertura alla meditazione e alla domanda dell’Essere, fondamento di ogni coscienza veramente völkisch (popolare) da parte dell’esser-ci, allora Heidegger ci apparirà come il promotore di una spinta quasi autodeterministica dei popoli e delle nazioni. Il meccanismo ermeneutico tuttavia si inceppa sul malcelato ardore con il quale il filosofo attribuisce al popolo tedesco l’esclusività nel determinare il proprio destino e di conseguenza il destino dell’Occidente, attraverso quei pochi eletti che egli nomina gli “advenienti” (Zukünftigen), coloro che possono accogliere il Kommende, l’avvento dell’essere che avvia l’uomo ad un nuovo rapporto con la deità (Göttlichkeit). Una simile esclusività, è di fondamentale importanza sottolinearlo, non occhieggia nemmeno lontanamente al dominio mondiale cui il Reich aspira agli albori della Seconda guerra mondiale. Tutto ciò si può evincere da una riflessione capitale sull’argomento:
“Chi non sa le decisioni non può nemmeno sapere che cos’è la guerra, persino se vi ha “partecipato”. Egli conosce solo il tratto spaventoso e amaro degli orrori di ciò che accade, conosce anche lo slancio verso le vittime e l’atteggiamento che si tiene mentre gli eventi precipitano, ma non saprà mai del fondo di verità e della mancanza di fondo, né del fatto che guerra e pace stanno ancora sempre su un solo lato – quello dell’ente – e non portano mai in sé la forza del dispiegarsi essenziale di una verità dell’Essere” (10, p. 249).
Il lettore dovrebbe pertanto sospendere il giudizio fino alla completa lettura della totalità dei quaderni, prima di farsi un’idea generale e obiettiva dell’intricato e troppe volte semplificato rapporto di Heidegger con le tesi nefaste dell’ideologia nazista.
Una critica diretta all’ebraismo compare solo in tre passi del secondo volume dei Quaderni neri. Tutt’altro che avere carattere sintomatico, i passi in questione segnano una collocazione topografica degli ebrei sulla cartina della dominazione della tecnica. Con essa, Heidegger disegna l’affermarsi della Machenschaft nel suolo desolato della modernità. Si segnala per incisività un passo delle riflessioni VII: “Una delle forme più nascoste del colossale, e forse la più antica, è la tenace abilità nel calcolare e nel trafficare e nel mescolare insieme in cui si fonda la mancanza di mondo dell’ebraismo” (5, p. 129). Il colossale di cui si fa parola nel passo non è altro che il movimento mastodontico di manipolazione dell’ente cui contribuiscono tutte le forze che verranno chiamate in campo lungo il dipanarsi dei Quaderni, non ultimi il cristianesimo e il nazionalsocialismo. Chi si aspetta, dunque, di poter affilare le proprie armi critiche nei confronti del tanto decantato e sconvolgente antisemitismo heideggeriano, troverà in questo secondo volume poca soddisfazione e dovrà attendere, semmai, la pubblicazione in italiano del volume terzo, che sarà, probabilmente, decisivo al riguardo.
Casella di testo
Citazione:
Martin Heidegger, Quaderni neri II (1938-1939) (Recensione di Daniele Nuccilli), "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", V, 2, luglio 2016
url: http://www.freeebrei.com/anno-v-numero-2-luglio-dicembre-2016/martin-heidegger-quaderni-neri-II-1938-1939