Fulvio Miceli, A proposito di settarismo

"Free Ebrei", V, 2, luglio 2016

A proposito di settarismo. Donald Trump, i neocons e Israele

di Fulvio Miceli

Abstract

Fulvio Miceli tries to explain the different positions inside American conservatism towards Donand Trump's Republican endorsement and Israeli/Jewish question, with special consideration to the debate on "Commentary".

La campagna elettorale americana e la vittoria di Donald Trump alle primarie del G.O.P. (partito repubblicano) sembrano aver prodotto come effetto collaterale un piccolo scisma nelle file del conservatorismo americano pro-israeliano, con tanto di reciproche scomuniche, accuse di tradimento e di incorreggibile attitudine stalinista. Alcuni neo-conservatori americani sostengono la tesi del “never Trump” in base alla quale l’imprevedibile e megalomane miliardario, ritenuto sostanzialmente estraneo all’ideologia e all’ethos del conservatorismo, non dovrebbe ricevere il sostegno di chi invece conservatore lo è, o ritiene di esserlo, davvero. Schierati su questa posizione sono molti collaboratori della storica rivista Commentary, il cui numero di maggio è intitolato “Taking Trump seriously”. Che si prenda Trump sul serio sull’economia, sulla Nato o su Israele, stando a Commentary ci sarebbe comunque molto di cui preoccuparsi. Le politiche che l’immobiliarista di New York vorrebbe attuare se riuscisse a conquistare la Casa Bianca sarebbero nel migliore dei casi indefinite e imprevedibili, nel peggiore dannose o catastrofiche. Un altro esponente di spicco del fronte “never Trump” è William Kristol, direttore di Weekley Standard, e figlio di uno dei fondatori e leader intellettuali del movimento neo-conservatore, Irving Kristol. È proprio Kristol (figlio) la figura più esposta del gruppo di intellettuali conservatori che sta cercando di promuovere l’entrata in campo di un candidato indipendente, alternativo sia a Trump che a Hillary Clinton.

Ed è proprio contro Kristol che, con un articolo pubblicato il 16 maggio sul sito Breitbart.com, che sta diventando la voce dei conservatori pro-Trump, è sceso in campo un altro alfiere della destra americana, David Horowitz, direttore del think tank Freedom Center ed editor di Frontpagemagazine, da anni in prima linea nelle “guerre culturali” contro i liberal e nella difesa di Israele e, come Kristol e Commentary, delle posizioni del governo Netanyahu nelle polemiche con l’amministrazione Obama.

Horowitz, ex marxista, ex militante di estrema sinistra, divenuto un appassionato “cultural warrior” conservatore e un critico implacabile dell’ideologia liberal, non è incline alle sfumature e alle compassate discussioni accademiche, e il suo attacco a Kristol é virulento come quasi ogni suo intervento. Dopo una critica non certo conciliante delle ragioni dei “never Trump”, liquidate come infondate e pretestuose, l’articolo si conclude accusando Kristol non solo di un enorme errore di valutazione politica, ma di tradimento, e, nello specifico, di tradimento nei confronti di Israele e del popolo ebraico, commesso per aver contribuito ad indebolire le speranze di successo nella corsa presidenziale del GOP, “l’unico partito che si frappone tra gli ebrei israeliani e il loro annichilimento”. Il titolo, ancora più incendiario, dato dal Breibart.com all’articolo è “Bill Kristol, Repubblican Spolier, Renegade Jew”: nel linguaggio politico lo “spoiler” è il candidato che, pur non avendo speranza di vincere, può farne perdere un altro, ma la parola può anche essere tradotta con “saccheggiatore” o “predone”. Come vedremo però, l’insulto più bruciante, e che ha suscitato le reazioni più indignate, è stato quello di “ebreo rinnegato".

Il giorno dopo l’articolo di Horowitz compare su Commentary la replica di James S. Tobin, commentatore generalmente focalizzato su Israele e sulla politica americana. Più misurato nei toni, ma nella sostanza altrettanto duro, Tobin, dopo aver difeso le credenziali di Kristol come sostenitore di Israele, e in particolare come critico delle politiche anti-israeliane, o comunque sgradite al governo Netanyahu, dell’amministrazione Obama, e aver rigettato il preteso diritto di un autoproclamato “Papa ebreo” a comminare scomuniche, conclude affermando che con il suo articolo Horowitz ha screditato se stesso, e Breitbard.com, nella “comunità pro-Israele e tra i conservatori capaci di giudicare con equità (fair-mindend)”. Non è finita. Nel suo articolo, Horowitz difende Trump anche dall’accusa di essere un “teorico del complotto”, mossagli, tra l’altro, per aver ripreso dal National Enquirer la storia di un presunto legame tra il padre del rivale Ted Cruz e Lee Harvey Oswald, l’assassino di John F. Kennedy. Non si è trattato di vera adesione alla teoria cospirativa, sostiene Horowitz, piuttosto di uno “sporco trucco” elettorale. Dando così il destro a Kristol per accusarlo di non aver mai smesso di pensare che il fine giustifichi i mezzi, di approvare, in contrasto con lo spirito e l’etica del conservatorismo, l’uso della menzogna per far fuori (politicamente) un avversario, e di essere in sostanza rimasto uno stalinista. L’uso del termine “renegade jew” nel titolo dell’articolo è invece accostato da Tobin agli attacchi antisemiti rivolti ai repubblicani ebrei ostili a Trump dalla “alt-right”, che è un movimento di intellettuali americani di estrema destra, nazionalisti e sostenitori del separatismo, se non del suprematismo, "bianco".

Al netto degli attacchi ad hominem e delle accuse di tradimento, papismo e stalinismo, i punti di dissenso tra Horowitz e i neocon di Commentary sembrano concentrarsi sulle questioni dell’adesione di Trump ai valori conservatori, della clausola morale, ovvero delle riserve sul suo carattere, e della continuità dei suoi programmi di politica estera con quanto già fatto da Obama. Per quanto riguarda il primo punto, lo stesso Tobin è disposto a concedere a Horowitz che il fatto che tra i possibili candidati indipendenti ipotizzati da Kristol e dal suo gruppo vi sia il miliardario Mark Cuban, descritto come una specie di alter-ego di Trump, di cui sembra condividere valori e stile di vita, tende a squalificare l’uso dell’argomento “non è un vero conservatore” contro il modello originale. La discussione sulla questione del carattere, d’altro canto, prende nei due articoli una piega vagamente surreale, concentrandosi sull’endorsement a Trump da parte di Mike Tyson e sul problema della sincerità ed esemplarità del pentimento del campione sportivo per la cattiva condotta (e per i crimini) che hanno caratterizzato la prima parte della sua vita.

La questione politicamente decisiva sembra essere proprio quella della valutazione della politica estera americana. E qui la faida conservatrice su Trump sembra più che altro rivelare i problemi che la destra americana incontra nel definire un’alternativa credibile e condivisa alla politica di Obama e sostituirsi a un mancato dibattito su questo punto. Horowitz, Kristol e Tobin condividono un giudizio negativo sulle scelte del presidente democratico, ma, non sulla direzione del cambio di rotta che riterrebbero necessario. Per Kristol, Tobin e il gruppo di Commentary il confronto con i nemici dell’America (e di Israele) è pensato come uno scontro essenzialmente ideologico tra totalitarismo islamista e democrazia liberale occidentale, e la strategia da perseguire rimane quella dell’esportazione della democrazia troppo brevemente tentata dall’America durante l’amministrazione Bush. Il loro candidato nelle primarie americane era Marco Rubio, che tra gli obbiettivi della sua politica estera avrebbe avuto, secondo il suo programma, la distruzione dell’Isis, ma anche il rovesciamento del regime di Assad. Trump, disposto ad allearsi con Assad per sconfiggere l’Isis, è invece sempre stato anatema per loro, ma anche gli altri candidati repubblicani, compreso Ted Cruz, che forse vantava le migliori credenziali di purezza ideologica conservatrice (sebbene di un conservatorismo più libertarian di quello di Commentary e al contempo innervato da un’ispirazione evangelica che non è quella della rivista ebraica) hanno meritato le loro critiche in quanto accomunati da un’insana propensione a mantenere al potere i dittatori mediorentali, qualora sembrino garantire la stabilità della regione e il contenimento dei gruppi jihadisti. Per Horowitz, tra i principali errori di Obama vi è la destabilizzazione dei regimi libico ed egiziano. La politica di stabilizzazione, anziché di democratizzazione, del Medio Oriente prospettata da Trump, pertanto, non gli appare così negativa. A ciò si collega la differenza di valutazione circa la volontà di Trump di perseguire un accordo con Putin. Un accordo che sembra auspicabile e possibile ad Horowitz, ma che è giudicato un eufemismo per la capitolazione dai neocon.

Queste differenze di giudizio sembrano comunque rimandare a un problema sottaciuto, ma centrale: quali che fossero i meriti o i demeriti della politica di esportazione della democrazia, il suo abbandono non può essere imputato esclusivamente all’amministrazione Obama, e ciò indipendentemente da quanto le diverse accuse rivolte a quest’ultima dai polemisti conservatori (incompetenza, anti-americanismo, anti-israelismo, antisemitismo, tradimento) siano fondate. Piuttosto, è ragionevole pensare che sia stata la mancanza di un sufficiente sostegno, nell’opinione pubblica, nell’elettorato e nella società americana nel suo complesso, all’impegno militare in Iraq e Afghanistan a contribuire alle stesse vittorie elettorali di Obama, se non anche a guidare scelte come il mancato intervento in Siria. Ciò rende politicamente inerte, in quanto evidentemente incapace di aggregare consensi, la semplice riproposizione dell’idea di esportazione della democrazia, priva dell’indicazione di un modo plausibile per renderla praticabile e di una riconsiderazione dei limiti e degli errori di quanto, in vista di questo obbiettivo strategico, è stato fatto in passato.

L’uso contro i neocon dell’accusa di essere pronti ad “abbandonare Israele” sembra poi segnalare un’altra tensione latente: quella tra impegno per gli interessi nazionali americani e sostegno a Israele. Già il commentatore di Asia Times David P. Godman, noto con pseudonimo di Spengler, sul sito conservatore Pjmedia.com aveva accusato i sostenitori neocon del “never Trump” di “non essere sionisti” in quanto con la loro scelta anteporrebbero l’ideologia dell’esportazione della democrazia alla sicurezza dello Stato ebraico. Per Goldman, l’esportazione della democrazia è appunto un’ideologia utopistica, dannosa per gli interessi dell’America non meno che per quelli di Israele, mentre per i neocon rappresenta oltre che una battaglia per i valori politici e morali fondamentali dell’America, l’opportunità di creare un ambiente politico sicuro per Israele in Medio Oriente. Sia l’uno che gli altri, però, muovono dal presupposto della coincidenza degli interessi americani con quelli israeliani. Ma quali ragioni vi sono per credere che un tale presupposto sia sempre valido? Nessuna delle due parti, in realtà, sembra saperle fornire. Perché si dovrebbe pensare che gli interessi di Stati Uniti e Israele necessariamente coincidano, per esempio, per ciò che riguarda il futuro dell’Egitto e la guerra civile siriana? Un governo dei Fratelli Musulmani al Cairo dovrebbe essere considerato dannoso per gli Stati Uniti quanto presumibilmente lo sarebbe per Israele? E l’intervento della Russia in Siria danneggia Israele quanto presumibilmente danneggia la posizione degli Stati Uniti in Medio Oriente?

Al problema della possibile divergenza di interessi strategici tra Stati Uniti e Israele sembra poi che si aggiunga nel dibattito interno alla destra ebraica americana una dimensione ideologica più generale, che giunge a toccare il piano delle scelte esistenziali. Alla fine del suo articolo, Horowitz confessa di non aver mai visitato Israele (ammissione prontamente rimarcata da Tobin) e afferma di non essere mai stato sionista, almeno non nel senso di aver mai creduto che gli ebrei debbano trasferirsi in una loro patria per non subire le conseguenze dell’antisemitismo. Il suo interesse per Israele, chiarisce Horowitz, deriva dalla minaccia di annientamento che grava sugli ebrei che vi vivono. Si può aggiungere che il suo principale interesse ideologico è invece sempre stata l’America. La carriera di Horowitz come intellettuale conservatore appare, infatti, complessivamente dedicata a un’incessante apologia della civiltà americana contro i suoi veri o presunti detrattori di sinistra. La vita ebraica è oggi concentrata, anche solo in termini demografici, in due centri: Israele e gli Stati Uniti. In essi gli ebrei hanno indiscutibilmente raggiunto una condizione di autoaffermazione senza precedente negli ultimi venti secoli. Non è sorprendente dunque che il sionismo e quello che potremmo definire americanismo appassionino molti intellettuali ebrei. Finora, queste due opzioni sono state declinate nell’ambito della destra ebraica americana secondo una lezione sostanzialmente concordista, ma ci si potrebbe chiedere se ciò sia sempre e indefinitamente possibile. Al di là delle contingenze, anche di lungo periodo, se si guarda ai fondamentali è difficile immaginare un contrasto più profondo. L’ideale americanista è essenzialmente filosofico e illuministico, è fondato sull’adesione a idee: la libertà, il diritto individuale alla ricerca della felicità, la separazione tra religione e Stato. L’ideale sionista, per contro, è essenzialmente esistenziale e romantico, e ciò vale anche per la sua versione più politica ed emotivamente fredda, che lo concepisce come risposta all’antisemitismo e al fallimento dell’integrazione, sia perché queste ultime sono state pur sempre condizioni esistenziali per gli ebrei, sia perché il progetto eminentemente razionalistico e secolare di garantire agli ebrei la cittadinanza attraverso la creazione di una maggioranza demografica e di istituzioni ebraiche non avrebbe mai potuto essere attuato senza l’apporto di passioni assai meno razionalistiche e secolari, come quella per la Terra.

Un contrasto latente, quello tra americanismo e sionismo, che sembra riflettersi specularmente in un’altra contraddizione irrisolta della destra pro-Israele americana, relativa alla definizione del nemico comune degli Stati Uniti e dello Stato ebraico. Dall’11 settembre in poi, esso è stato variamente definito come il terrorismo, l’islam, il fondamentalismo islamico. Lasciando da parte i semplici errori categoriali, quali quello implicato dal definire “nemico” una pratica, come il terrorismo, il problema sembra consistere nel fatto che i nemici mediorientali di Israele (e degli Stati Uniti) non sono mai stati e non sono esclusivamente islamici o islamisti e anzi, talora sono stati essi stessi nemici degli islamisti. Il regime siriano, che è certamente nemico degli Stati Uniti e di Israele, non è un regime islamista, come non lo era il regime nasseriano, certamente nemico degli Stati Uniti e di Israele. É pur vero che esistono, tra ideologie panarabiste e islamismo, complessi intrecci ideologici e interdipendenze, anche materiali (si pensi all’alleanza tra Damasco e Teheran).

Resta il fatto che si tratta di fenomeni ideologicamente distinti e che, sebbene possano essere talora alleati, altrettanto facilmente possono essere tra loro nemici, pur continuando ad essere, ciascuno indipendentemente dall’altro, nemici di Israele e degli Stati Uniti. La massima generale che si può forse trarre da questa circostanza è che un nemico non è definito dalle sue idee, per quanto sgradevoli possano essere, ma dal fatto (esistenziale) che ti sta combattendo. Il risvolto positivo della regola sarebbe che un amico, anche potenziale, non deve per forza avere le idee giuste. Conclusioni probabilmente difficili da accettare per chi, come un illuminista (sia pure conservatore) si definisce in base alle idee, ma che potrebbero invece risultare persino promettenti per chi, come un israeliano, è in fondo definito dal luogo in cui vive, e non è in condizione di scegliersi i propri vicini, né può ragionevolmente aspettarsi di riuscire a cambiarli radicalmente prima di poterci convivere.

Di seguito, i link agli articoli citati:

 

http://www.breitbart.com/2016-presidential-race/2016/05/15/bill-kristol-republican-spoiler-renegade-jew/ 

https://www.commentarymagazine.com/politics-ideas/campaigns-elections/breitbarts-renegade-jew-disgrace/

https://pjmedia.com/spengler/2016/02/29/note-to-conspiracy-theorists-the-neo-conservatives-arent-zionists/

Casella di testo

Citazione:

Fulvio Miceli, A proposito di settarismo. Donald Trump, i necons e Israele, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", V, 2, luglio 2016

url: http://www.freeebrei.com/anno-v-numero-2-luglio-dicembre-2016/fulvio-miceli-a-proposito-di-settarismo