Maria Grazia Meriggi, Pane di miseria

"Free Ebrei", V, 1, febbraio 2016

Pane di miseria. David Bidussa lettore del testamento spirituale di Lev Trotsky

 

di Maria Grazia Meriggi

 

Abstract

Maria Grazia Meriggi discusses David Bidussa's Italian edition of Leon Trotsky's last will. "Life is beatiful" tries to analyzes which could be Trotsky's legacy in the left political movements despite their political (communist) and existential (trotskyist) failure of the last century.

 

Scrivo queste note su sollecitazione del giovane amico e valente studioso Vincenzo Pinto ma non sono certa di rispondere esattamente alla sua richiesta. Mi si chiede di cogliere l’occasione della pubblicazione di un piccolo e luminoso libro curato e introdotto da David Bidussa (La vita è bella) che contiene testi di Lev Davidovic Bronstein/Trotsky per riflettere sulla peculiarità della sinistra di origine ebraica allo specchio di questo suo eccezionale esponente. I testi vanno dal periodo giovanile di vicinanza ai menscevichi (il primo risale al 1901) a quello della partecipazione attiva alla costruzione dell’Urss a quello tragico dell’esilio e della sconfitta.  Le cose che scriverò sono ben note agli storici – molti storici sono assai più di me specialisti di questi argomenti per un approfondimento dei quali è necessario conoscere lo yiddish – ma forse vale la pena di sottolinearle perché rimosse dalla discussione pubblica.

Infatti la partecipazione ebraica ai movimenti operai dell’Europa orientale e dell’emigrazione è così rilevante che la loro storia è impensabile senza quell’apporto. La vita di Trotsky dovrebbe dunque essere interpretata anche come una delle tante storie personali di questa vicenda collettiva. La storia e l’origine famigliare ebraica di Martov, Trotsky, Kamenev, Zinoviev, Litinov, Kaganovic – tanto denunciata da russi bianchi reazionari, da teorici dei complotti fascisti e antisemiti e poco gradita al Sorel delle Réflexions sur la violence, il cui antisemitismo non era stato particolarmente attenuato dall’ammirazione per la rivoluzione russa – non configura una “sinistra ebraica” visto che questi dirigenti sono stati chi menscevico, chi a lungo incerto fra le due correnti, chi bolscevico della prima ora, chi – Lazar Kaganovic – staliniano senza esitazioni né pentimenti. E questo discorso non può essere completo se almeno non si cita l’importanza della esperienza politica, sociale e culturale del Bund che oggi possiamo interpretare come l’anticipazione sconfitta ma anticipatrice di una possibile coesistenza di identità e universalismo. Disponibile in francese, il bel libro di Nathan Weinstock, Le pain de misère[1] incarna già nel titolo la complessità di quella esperienza dove accanto ai socialdemocratici grande è lo spazio dei bundisti ma anche degli esordi del sionismo socialista: “pane di miseria”, la matsa è però anche il cibo della festa della liberazione come il duro salario di sussistenza di quel proletariato era presupposto della sua liberazione sociale e culturale, dal confronto tragico con lo sfruttamento e con l’antisemitismo dall’alto e purtroppo anche dal basso. Tutti questi dirigenti infatti sono espressione di un movimento popolare e operaio sorto nei territori di residenza ebraica nei territori russo-polacchi sotto la combinazione di diverse sofferenze sociali. La crisi agraria e la riorganizzazione a favore di grandi imprese che caratterizzano la “lunga depressione” e che distruggono i residui spazi delle economie artigianali si accompagnano ai pogrom che costituivano non solo violenza contro le persone ma anche distruzione di spesso modestissime ricchezze, costringendo migliaia di artigiani e piccoli commercianti e di operai industriali e braccianti all’emigrazione. Impossibile qui ricostruire la genesi dei pogrom dove convergevano il pregiudizio alimentato dalla propaganda zarista e talvolta controversie salariali con lavoratori  a loro volta provocati dal difficile accesso di artigiani e proprietari ebrei ai crediti bancari statali, ma la situazione delle componenti più numerose (e più povere secondo la sempre valida formula sainsimoniana) delle comunità ebraiche alimentava contestazioni radicali dell’ordine sociale e politico sia in patria sia nell’emigrazione. Se una specificità “ebraica” si può individuare – naturalmente non etnica ma culturale – è una forte tendenza di lavoratori e lavoratrici, nell’emigrazione, a organizzarsi. Una religione che si fonda non su una predicazione a senso unico ma sulla pratica costante della discussione, della critica, del confronto fra interpretazioni, che valorizza lo studio e la cultura come strumento di elevazione spirituale potrebbe avere predisposto – senza nessuna generalizzazione e senza nessun determinismo, tengo a sottolinearlo – un’attitudine alla richiesta di giustizia, alla critica verso le gerarchie nella società e nelle stesse organizzazioni?  La militanza delle giovani sarte degli sweatshops non era certo prevista: ragazze poverissime cresciute sotto l’autorità paterna accettavano, leggevano in gruppo volantini che descrivevano le loro condizioni e osavano scioperare anche contro padroni della loro stessa origine e che magari parlavano yiddish come loro! trascinando con sé polacche e italiane, giovani operaie di varie origini nazionali. Ricordo solo il nome dell’ucraina Clara Lemlich e ricordo anche che pochi erano nel primo Novecento, sia negli Usa sia in Europa, i sindacati anche con prevalente base femminile che erano diretti da donne e l’International Ladies’ Garment Workers’ Union è proprio uno di questi. Lo stesso processo – a me più direttamente noto, ci sto infatti lavorando – lo incontriamo nell’emigrazione in Francia dove i lavoratori ebrei polacchi, rumeni, ungheresi, insieme agli italiani, furono il nerbo della Main d’Oeuvre Immigrée, la sezione della Cgtu organizzata sulla base della provenienza dei migranti numerosissimi nella Francia fra le due guerre.

Questo per una eventuale “specificità ebraica”: una emigrazione fortemente tendente alla sindacalizzazione elevatissima rispetto alla popolazione di quella origine e che può essere una delle cause del forsennato antisemitismo di Henry Ford che come è noto gli procurò, nel ‘38, la più alta onorificenza che il regime nazista potesse conferire a uno straniero. Secondo Ford gli ebrei, oltre che portatori di potenza finanziaria, lo erano anche di “contaminazione” e “meticciato”, erano renitenti al totalitarismo del “mondo nuovo” della fabbrica totale cui aspirava: lo ricorda molto finemente Roberto Finzi in un lavoro divulgativo pieno di spunti originali.[2]

Le peculiarità di Trotsky lungo il corso della sua vita “bella” e tragica non so se si possano ricondurre alla sua origine ebraica: è auspicabile che siano caratteristiche universali e d’altra parte come spiegare allora il “caso Kaganovic”? In un regime ferocemente autoritario[3] gli spazi di movimento e le scelte sono determinate da esso innanzi tutto. Certamente però possiamo rilevare che Bronstein è il dirigente bolscevico più tenacemente fedele all’internazionalismo, alla convinzione che i processi rivoluzionari erano interdipendenti. Se tali non fossero stati ogni percorso rivoluzionario nazionale sarebbe stato costretto a barricarsi nella costruzione di uno stato forte con tutte le derive nazionalistiche che ciò comporta: il patto Molotov-Ribbentrop ne sarà il frutto più avvelenato ma anche più conseguente. Del resto possiamo anche supporre che questa posizione – che traduce nella forma più nitida il marxismo di Trotsky – può essere anche connessa alla esperienza che le comunità ebraiche avevano nella loro lunga storia del pericolo che il nazionalismo faceva loro correre e un’altra traduzione del quale può essere l’ironica nostalgia di Joseph Roth per la dimensione sovranazionale dell’Impero austriaco. Una nostalgia che non rappresentava solo una fantasmagoria letteraria, dato che i socialdemocratici austriaci furono sempre sostenitori di una soluzione federativa nel futuro dell’Impero. Trotsky è anche – evidentemente e naturalmente – il dirigente bolscevico che seppe portare al punto di rottura la critica alla burocratizzazione e all’autosufficienza del partito che denunciava già da giovane menscevico.

Certamente Trotsky ha condiviso gli aspetti più tragici della accelerazione imposta a un paese in cui due generazioni separavano la rivoluzione bolscevica dall’abrogazione della servitù della gleba. La militarizzazione del lavoro – che Bidussa ricorda come pesante contraddizione nella sua storia – rappresenta anche il momento di massima distanza dalle sue originarie posizioni del periodo menscevico e certamente Trotsky è stato – non da solo – responsabile del tragico episodio in cui a Kronstadt[4] il nuovo governo si trova a reprimere non le resistenze dei privilegiati ma le richieste e le aspirazioni di gruppi di lavoratori protagonisti della stagione di risveglio d’azione e di coscienza dei primi mesi della rivoluzione. Ma come ricorda Bidussa nella sua bella introduzione è capace di comprendere – già prima della sconfitta e dell’esilio – che una trasformazione profonda della società non poteva solo venire dall’alto, ma “da una volontà di metamorfosi che coinvolgesse prima di tutto i costumi” senza alcun cedimento alle semplificazioni populiste ma indicando, anzi, l’importanza della condivisione nel quotidiano di processi di assunzione di responsabilità reciproca. Si leggano in proposito i testi “attenzione alle inezie”, “educazione e cortesia”, “la lotta per un linguaggio colto”. Il prefatore – che è un profondo conoscitore di Trotsky e anche dell’influenza da lui esercitata su ambienti limitati ma importanti della sinistra francese – accompagna il grande protagonista della vittoria militare alla critica radicale del sistema sovietico stalinizzato svolta con gli stessi strumenti con cui ne indicava già da dirigente il decorso necessario e le possibili derive.

Nella bella presentazione David Bidussa mette a fuoco anche temi che appartengono alla sua ricerca personale: le molteplici possibilità dell’esilio, la sconfitta riconosciuta senza rinnegamenti. In poche pagine si apre una catena di interrogativi da cui vale la pena di lasciarsi coinvolgere.

 

 

 

Note

[1] Editions Maspero, Paris 1982-84.

[2] L’antisemitismo: dal pregiudizio contro gli ebrei ai campi di sterminio, Giunti editore, Firenze 1997.

[3] Preferisco non usare il termine “totalitario” per il significato politico che esso ha assunto durante la guerra fredda, di equiparazione fra i regimi non democratico-rappresentativi. Ma accetto il termine “totalitario” al di fuori di quella contrapposizione per tutti i regimi che negano l’autonomia e la vitalità dei “corpi intermedi” rappresentanti degli interessi. Da questo punto di vista il nazismo abrogando con la violenza non solo (naturalmente) i sindacati dei lavoratori ma anche quelli imprenditoriali ha realizzato una forma perfetta di totalitarismo.

[4] È disponibile in rete l’articolo pubblicato dallo stesso Trotsky nel gennaio 1938  sulla rivista americana allora edita dal Socialis Workers Party, “The New International”, Hue and cry oves Kronstadt. Trotsky denuncia – certo giustamente – le ambigue alleanze fra sconfitti della rivoluzione che si fanno promotori di continue campagne sull’episodio che di articolo in articolo si trasforma addirittura in una strage e si preoccupa che queste accuse coinvolgano il peso e la credibilità della IV Internazionale e quindi servano, magari involontariamente, alla legittimazione dell’Urss staliniana. La descrizione della composizione sociale della regione di Kronstadt è comunque interessante e approfondita.

Casella di testo

Citazione:

Maria Grazia Meriggi, Pane di miseria. David Bidussa lettore del testamento spirituale di Trotsky, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", V, 1, febbraio 2016

url: http://www.freeebrei.com/anno-v-numero-1-gennaio-giugno-2016/maria-grazia-meriggi-pane-di-miseria

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