Giuliana Iurlano, Il sionismo in America
"Free Ebrei", VI, 2, agosto 2017
Il sionismo in America: dall’evoluzione dell’idea alla dichiarazione Balfour
Abstract
Giuliana Iurlano summarizes us the history of Zionism in the United States from the 17th century till the Balfour declaration (1917) and demonstrates the hidden ties between Zion and Puritanism.
La presenza ebraica nel Nuovo Mondo è attestata sin dal 1654, quando uno sparuto gruppo di ebrei olandesi provenienti da Recife e diretto nelle isole caraibiche fu costretto a sbarcare a New Amsterdam, dopo che era stato catturato e derubato dai corsari. Con loro sbarcò anche, sul suolo americano, uno dei principi fondanti l’ebraismo di tutto il mondo, il Kelal Israel, vale a dire la responsabilità di ciascun ebreo per ogni correligionario in qualunque parte del mondo si trovi. Da quel momento in poi, quando gli ebrei olandesi si impegnarono – nonostante il parere contrario del governatore Peter Stuyvesant – a sostenere anche economicamente il piccolo gruppo approdato in America, il percorso dell’ebraismo prima, e del sionismo poi, in terra americana si è sviluppato in una maniera a dir poco originale rispetto a ciò che accadeva in Europa. In qualche modo, si può parlare anche per l’ebraismo americano di una forma di “eccezionalismo”, quello stesso “eccezionalismo” che ha caratterizzato da sempre la storia americana, dagli esordi coloniali alla nascita, nel 1776, della nuova entità statuale federale repubblicana e democratica.
In realtà, la sintonia quasi immediata tra ebraismo e puritanesimo (ma non solo) era data proprio dall’idea di Sion, dall’aspirazione a realizzare un esperimento di buon governo nella Terra Promessa, la famosa “città sulla collina”, che avrebbe costituito un esempio rispetto all’assolutismo del Vecchio Mondo, dove i rapporti politici, economici e sociali sembravano essere cristallizzati e ormai profondamente irreformabili. Fu abbastanza facile per le sei piccole comunità di ebrei del Nord America – stanziatesi a Montreal, Newport, New York, Filadelfia, Charleston e Savannah – organizzarsi attorno alla sinagoga, vero centro propulsore della comunità ebraica e spinta continua alla zedakah, alle opere caritatevoli, anche nei confronti degli ebrei di Palestina. Al contrario di ciò che accadeva in Europa, dove gli ebrei avrebbero dovuto attendere l’avvento della modernità per vedere riconosciuti i loro diritti civili e politici, la sinagoga esercitava, invece, un controllo sociale molto debole sui suoi membri, caratterizzandosi come punto di aggregazione molto tollerante e fortemente integrato nel contesto della fluida società americana. Di conseguenza, la battaglia per il passaggio dalla “tolleranza” alla “libertà” religiosa fu segnato, per gli ebrei americani – come, del resto, per molti altri gruppi religiosi – dalla consapevolezza di dover acquisire i diritti politici nell’ambito di una piena e sostanziale cittadinanza. Ed ecco, allora, la loro partecipazione in prima linea ai principali avvenimenti della storia americana, a cominciare dalla rivoluzione del 1776, che significò eguaglianza politica a livello federale – ribadita nel 1787 dall’Ordinanza del Nordovest e, nel 1791, dal I Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti d’America, una partecipazione ufficialmente riconosciuta anche dal presidente George Washington nel 1790 in una lettera alla congregazione di Newport. Tutto ciò, però, mise ben presto in luce uno strano paradosso, comune anche ad altri gruppi religiosi: se a livello federale gli ebrei erano a tutti gli effetti cittadini americani, non lo erano invece per parecchi Stati dell’Unione. Soltanto uno Stato, New York, concesse nel 1777 la piena cittadinanza agli ebrei, ma Stati come il Rhode Island, il New Hampshire, il New Jersey, il North Carolina e il Connecticut ancora fino al 1840 non consentivano loro di godere pienamente dei diritti propri di una sostanziale cittadinanza politica. Ed ecco, allora, gli ebrei americani, al pari di altri gruppi religiosi, lottare in prima persona per il riconoscimento formale e sostanziale dei loro diritti, in un contesto quale quello americano privo della linfa antisemitica medievale e in cui il pregiudizio anti-ebraico di matrice cristiana, pur talvolta presente, risultava facilmente contrattaccabile con una presa di posizione pubblica e a voce alta. La storia iniziale degli ebrei in terra americana è, dunque, parte integrante della storia stessa degli Stati Uniti e dei loro principi di eguaglianza e di libertà, ed anche la loro organizzazione rispecchiava la dinamicità e l’apertura della società americana: l’ebraismo americano, infatti, mostrò sin da subito di non obbedire all’idea di un’unica comunità a struttura gerarchica come quella europea, nata e sviluppatasi all’interno del recinto protettivo del ghetto. Ciò provocò molte divisioni interne, che, però, furono superate soltanto dalla volontà di difendere il popolo di Israele in qualunque parte del mondo fosse perseguitato ed oppresso. Certamente, il comune obiettivo non fu perseguito nello stesso modo: le due principali strade percorse dall’ebraismo americano saranno, ai primi del Novecento, quella dell’American Jewish Committee (AJC), fondato da Louis Marshall nel 1906, e quella della Federation of American Zionists(FAZ), guidata a partire dal 1914 da Louis D. Brandeis. Entrambe le associazioni tendevano ad affrontare la difesa degli ebrei del Vecchio Mondo secondo parametri differenti, ed anche questa diversità sarebbe stata una caratteristica peculiare dell’ebraismo americano e della sua idea di Terra Promessa.
Fu soprattutto nel marzo del 1881, quando venne assassinato lo zar Alessandro II e, con lui, fu affossataanche la speranza dell’emancipazione, che il destino degli ebrei russi cominciò ad intrecciarsi strettamente con quello degli ebrei americani. L’enorme esodo di ebrei dell’Europa orientale verso le coste americane, però, destabilizzò la comunità ebraica statunitense, rafforzatasi dopo i moti europei del ’48 con l’arrivo e l’integrazione degli ebrei tedeschi, alcuni dei quali parte di un’importante élite politica. Costoro, di fronte ai circa due milioni e mezzo di ostjuden – gli ultimi dei quali partiti dopo il feroce pogrom di Kishinev del 1903 portandosi appresso la grande nostalgia dello shtetl, della cultura yiddish e del proprio brackground di rigide e rigorose tradizioni religiose – reagirono dapprima in maniera negativa verso i newcomers totalmente unskilled e, soprattutto, decisi a non americanizzarsi come i loro correligionari dell’Europa centrale. Ma la lobby ebraica al potere, assimilazionista e rappresentata da uomini come Jacob H. Schiff, Oscar S. Straus, Jesse Seligman, Louis Marshall e Simon Wolf, si convinse ben presto della necessità di un intervento nei luoghi d’origine, là dove le persecuzioni avvenivano. Furono costoro che, sin dagli anni ottanta dell’800, spinsero l’allora presidente americano Benjamin Harrison a fare il primo importante passo a livello internazionale, così da convincere anche i governi francese ed inglese a fare altrettanto in difesa degli ebrei russi. Collegando la politica interna zarista alle conseguenze di un esodo incontrollabile verso gli Stati Uniti, i leaders ebrei americani ponevano per la prima volta la questione ebraica su un piano internazionale, inaugurando quella che poi sarebbe stata conosciuta come la “diplomazia umanitaria” statunitense. In questo percorso, Jacob Schiff incrociò anche il territorialismo di Israel Zangwill, autore della nota piéce teatrale sul meltingpot e fondatore della Jewish Territorialistic Organization (ITO), organizzazione che, proprio negli Stati Uniti, avrebbe trovato uno dei suoi maggiori canali operativisoprattutto nella elaborazione del piano Galveston, in Texas, come punto di approdo temporaneo degli ebrei est-europei, un piano che, tuttavia, non funzionò, nonostante il fatto che circa 9.000 immigrati ebrei avessero scelto la “via dell’Ovest”.
L’altra opzione fu, invece, quella del movimento sionista americano, fondato dal futuro giudice della Corte Suprema Louis Brandeis, anche lui membro dell’élitetedesca, ma presto convintosi della necessità di coniugare il proprio moderato liberalismo con un progressivismo militante – cosa che lo portò ad entrare nelle grazie della prima amministrazione Wilson, nella sua lotta contro il big business – e, poi, dopo un incontro con Nahum Sokolow, a Boston per un giro di conferenze nel 1913, convertitosi al sionismo e deciso ad incorporarlo a pieno titolo nell’americanismo di marca progressista: secondo la sua visione, infatti, il sionista era un americano al cento per cento perché condivideva al massimo grado i valori nazionali e, nello stesso tempo, cercava di estenderli e di radicarli anche al di fuori del proprio paese, innanzi tutto impegnandosi nella creazione di uno Stato nazionale ebraico in Palestina. La convergenza di questa idea con quella del “pluralismo culturale” – proposta in quegli anni da Horace Kallen – fecero del movimento sionista americano una sorta di punta di diamante soprattutto in occasione della Dichiarazione Balfour. Durante il primo conflitto mondiale, il sionismo americano aveva di proposito mantenuto una posizione di neutralità rispetto ai belligeranti, cercando di non far trapelare in alcun modo le scelte di campo individuali dei propri rappresentanti ufficiali, molti dei quali propensi a sostenere gli Imperi Centrali, piuttosto che l’odiata Russia zarista. In questo percorso strategico, Brandeis seguiva e appoggiava la stessa posizione di Wilson, che – pur dopo l’entrata nel conflitto degli Stati Uniti – non dichiarò mai guerra alla Turchia e cercò fino alla fine di portarla ad una pace separata. Per il presidente americano, la questione mediorientale era in qualche modo strettamente collegata alle attività missionarie e commerciali con la Sublime Porta, mentre l’aspetto politico era demandato all’Impero britannico, che nell’area aveva importanti interessi strategici. Nello stesso tempo, però, Wilson condivideva la “diplomazia umanitaria” delle amministrazioni precedenti e sosteneva la politica di aiuti umanitari agli ebrei della Palestina, secondo una linea molto cauta di conduzione della politica estera. Quando, però, i sionisti inglesi – guidati da Chaim Weizmann e intenzionati a premere sia sul British War Cabinet per una esplicita dichiarazione a sostegno di una national home in Palestina nella forma di un protettorato britannico, sia sui sionisti americani, affinché ottenessero l’approvazione di Wilson in tal senso – cominciarono ad insistere per far cambiare posizione al presidente, il movimento americano si trovò effettivamente in una posizione molto delicata, dovendo dimostrare nei fatti la propria lealtà all’America. La loro posizione “attendista” – così criticata dai sionisti britannici – accompagnava coerentemente la scelta wilsoniana di mantenersi distante dalle mire territoriali europee. Così, quando il 2 novembre 1917 – a seguito della stretta convergenza di interessi tra governo britannico e il movimento di Weizmann – Balfour rese pubblica la dichiarazione del governo di Sua Maestà a favore di una patria ebraica in Palestina nella forma di una lettera inviata al barone Rothschild e, alcune settimane più tardi, il generale Allenby entrò con il suo esercito a Gerusalemme, i sionisti americani, invece, dovettero attendere che Wilson maturasse la sua decisione: il 31 agosto 1918, a guerra ormai finita, il presidente inviò al rabbino Stephen Wise, l’anima religiosa del movimento, una lettera di approvazione della dichiarazione Balfour in occasione del Capodanno ebraico, congratulandosi con lui per il lavoro che la commissione Weizmann stava facendo in Palestina per la fondazione della Hebrew University di Gerusalemme. La paziente attesa dei tempi della politica americana aveva costituito un importante banco di prova della perfetta compatibilità tra sionismo ed americanismo: Wilson e Brandeis avevano proceduto in perfetta sintonia, entrambi in direzione della libertà e della democrazia americana da estendere in ogni parte del mondo e, soprattutto, da quel momento in poi la “solenne promessa” verso il popolo ebraico avrebbe marcato di fatto l’ingresso “discreto” degli Stati Uniti nello scenario mediorientale.
Casella di testo
Citazione:
Giuliana Iurlano, Il sionismo in America: dall'evoluzione dell'idea alla dichiarazione Balfour, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VI, 2, agosto 2017
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