La Terra d'Israele. Il sionismo revisionista e il mandato palestinese

"Free Ebrei", I, 1, gennaio 2012

La Terra di Israele. Il sionismo revisionista e il mandato palestinese

di Vincenzo Pinto

Abstract

Vincenzo Pinto tries to analyzes the Zionist-Revisionist interpretation of British mandate on Palestine and its juridical foundation of a Jewish State over all Palestine

Premessa

Nell’aprile 1929, rispondendo agli articoli sul palestinismoi e sulla realtà palestinese di Itamar Ben-Avi, figlio del padre dell’ebraico moderno, Elizier Ben-Jehudaii, nonché direttore responsabile del giornale «Ha’Or» (La luce), l’intellettuale ebreo di origini ucraine Vladimir Jabotinsky sollevò il problema fondamentale del sionismo medesimo: il destino della minoranza palestinese nello Stato ebraico. L’articolo, intitolato La Terra di Israele, apparve in una particolare congiuntura della storia della Palestina mandataria: quella che potremmo chiamare «l’età dell’illusione», ovvero la «pacifica crescita» della contrapposizioneiii. Il problema fondamentale di Jabotinsky, che all’epoca risiedeva in Palestina e dirigeva il giornale «Doar Hayom» (Posta quotidiana), era quello di dimostrare la tesi che la convivenza tra i due popoli fosse fisiologicamente impossibile. La tesi di Ben-Avi, trasposta in questo articolo dal titolo piuttosto indicativo, era fondamentalmente questa: la necessità e la moralità di creare uno Stato palestinese (di qui il termine palestinismo) all’interno del quale convivessero pacificamente, come membri di un unico Stato palestinese, gli arabi e gli ebrei «palestinizzati». L’operazione del giornalista pacifista, primogenito di una cultura ebraica palestinese, era a dir poco radicale: cancellava con una spugna l’intero passato di entrambi i popoli e proponeva una nuova forma di aggregazione che fosse a un tempo politica, culturale e spiritualeiv.

La risposta di Jabotinsky, leader del sionismo revisionista, quello schieramento che fece dello Stato ebraico (cioè di un corpo politico a maggioranza ebraica) la propria unica e immodificabile bandierav, si articolava intorno a una difesa etica del sionismo:

Perché questo problema [quello della maggioranza ebraica] è un problema sionista: la struttura civile del futuro Stato ebraico è parte del programma sionista, parte del sionismo stesso. Gli altri aspetti dell’articolo del sig. Ben-Avi non sono sionisti, dato che la propaganda del Brith Shalomvi non è sionista. Naturalmente, lungi da me il voler paragonare il sig. Ben-Avi con le comiche figure del Brith Shalom. Lui ha un retroterra effettivo. È innanzitutto un nativo del paese, che è la sua patria, e questo gli basta. Questo, forse, è naturale, tanto quanto il legame di un ebreo tedesco “liberale” con la terra natia. La differenza, però, è che si dà il caso che il sig. Ben-Avi sia nato in una città dal nome di Gerusalemme, e non in una città dal nome Lipsia. Questo, forse, è naturale, ma non è sionista. Una persona che afferma di essere nata in questo posto e per la quale, perciò, la questione della patria non ha alcuna rilevanza per lei, e non ha alcun interesse che milioni di ebrei in esilio, che desiderano di vivere nella terra di Israele, sono costretti a restare in esilio, una persona del genere non parla da sionistavii.

L’argomentazione di Jabotinsky ci introduce al tema del nostro saggio: il sionismo e il mandato britannico sulla Palestina. In queste poche righe sono racchiuse alcune «verità» che continuano a rappresentare e a prolungare tragicamente sino ai giorni nostri l’eredità mandataria, un passato che fatica a passare: l’idea di una Palestina «completa». L’espressione, utilizzata dallo storico-giornalista Tom Segev nel suo saggio sul mandato britannico, ben illustra la peculiarità della storia di un’amministrazione coloniale fallita e fallimentare sin dalla sua codificazione istituzionaleviii. Che oggi si fronteggino l’etica della sicurezza israeliana e l’etica dell’autonomia palestinese in uno scontro che pare non avere né vincitori né vinti, deve molto non solo alla quasi totale assenza di una progettualità dialogica, come quella di un Ben-Avi, ritenuta irrealistica e dunque impossibile, ma anche al fatto che il mandato britannico sulla Palestina fu concepito come un testo assolutamente vuoto, privo di contenuti costruttivi, privo di obiettivi che non fossero la mera prosecuzione di un interesse coloniale sotto una diversa spoglia. Ed è proprio tale forma istituzionale che ci accingiamo a esaminare attraverso la lente – volutamente deformata e deformante – del sionismo revisionista.

Il titolo La Terra di Israele esemplifica chiaramente quale fu la tesi centrale della piattaforma giuridica revisionista: l’idea che la Palestina fosse stata riconosciuta come territorio storicamente legato all’ebraismo e, conseguentemente, politicamente unito, indivisibile e soggetto a un’unica forma di progettualità statale (quella del sionismo politico)ix. È piuttosto significativo come oggi, in entrambi gli schieramenti, si assista a una crescente eticizzazione dello Stato nazionale quale unico garante di un diritto alla sopravvivenza che, altrimenti, sarebbe negato dall’avversario. È piuttosto significativo come ieri, in entrambi gli schieramenti, il progetto palestinista di Ben-Avi non riscuotesse alcuna eco al di fuori di anguste cerchie di uomini provenienti da ambienti culturali diversificati e cosmopoliti. Dagli anni Venti, che segnarono una «pacifica» crescita della contrapposizione, sino allo spartiacque del 1929; dalla crisi etiopica (1935-36) sino al Libro Bianco MacDonald (1939). La nostra tesi di fondo è che l’etica del sionismo revisionista mise in mostra i limiti del mandato britannico e, all’interno della sua radicale rilettura del nazionalismo ebraico, essa fornì le coordinate politiche e istituzionali sulla base delle quali fu condotta la politica mandataria britannica volta a una Palestina «completa». Nonostante le incertezze britanniche, fu proprio la radicale interpretazione revisionista quella che contraddistinse l’etica e la politica del mandato sulla Palestina.

I. Gli esordi: la genesi della piattaforma giuridica revisionista

Nel luglio 1922 il mandato sulla Palestina fu approvato dal Consiglio della Società delle Nazioni. Si trattava in larga parte dell’esito della collaborazione tra Sir Herbert Samuel, Alto Commissario per la Palestina (una figura in tutto e per tutto simile a quella del governatore), e il ministero delle colonie britannico (Winston Churchill). Il testo del mandato era stato formulato sulla base di tre priorità politiche: 1) salvaguardare la forma dell’istituto del mandato, compreso nel Patto della Società delle Nazioni; 2) salvaguardare la propria zona d’influenza, in qualità di vincitore della guerra; 3) evitare la crescente contrapposizione tra le due comunità. Queste direttive avevano guidato la redazione del cosiddetto Libro Bianco Churchill, una dichiarazione d’intenti politica emessa dal governo britannico poche settimane prima dell’approvazione del mandato sulla Palestina. Essa conteneva l’intercorsa corrispondenza del ministero delle colonie britannico con la delegazione araba palestinese e l’Organizzazione sionistica mondiale. Il passaggio fondamentale riguardava l’obiettivo del mandato. Il governo britannico era riuscito a convincere la dirigenza sionista – non quella araba – ad accertare le linee-guida della propria politica coloniale fornendo un’interpretazione piuttosto elastica di focolare nazionale ebraico:

Quando viene chiesto che cosa significhi sviluppo del focolare nazionale ebraico in Palestina, bisogna rispondere che non significa l’imposizione di una nazionalità ebraica sugli abitanti di tutta la Palestina, ma lo sviluppo progressivo della comunità ebraica esistente, con l’ausilio degli ebrei degli altri paesi mondiali, affinché essa [la Palestina] diventi un centro del quale il popolo ebraico possa nutrire interesse e orgoglio per motivi religiosi e razziali. Ma, affinché questa comunità abbia la migliore prospettiva di uno sviluppo libero e il popolo ebraico abbia l’opportunità di mostrare le sue capacità, è essenziale che sia ribadito che si trova in Palestina per diritto e non per sofferenza. È questa la ragione per cui è necessario che l’esistenza di un focolare nazionale ebraico in Palestina sia garantita internazionalmente, e che venga formalmente riconosciuto che riposi sull’antico legame storicox.

Il testo del mandato era suddiviso in un preambolo e in 28 articoli, che fornivano le generiche linee-guida dell’amministrazione britannica. Due in particolare erano i passaggi basilari: l’articolo 2, che affrontava le finalità del mandato, e l’articolo 6, che affrontava il problema dell’immigrazione ebraica e dell’acquisto dei terreni. L’articolo 2 stabiliva quanto segue:

Il Mandatario si renderà garante di porre il paese in quelle condizioni politiche, amministrative e economiche che assicureranno lo stabilimento del focolare nazionale ebraico, così come affermato nel preambolo, e lo sviluppo di istituzioni di auto-governo; si renderà altresì garante di salvaguardare i diritti civili e religiosi di tutti gli abitanti della Palestina, indipendentemente dalla razza o dalla religione di appartenenza.

L’articolo 6 stabiliva quanto segue:

L’amministrazione della Palestina, mentre assicurerà che i diritti e lo status degli altri settori della popolazione non vengano pregiudicati, faciliterà l’immigrazione ebraica a precise condizioni e incoraggerà, in collaborazione con l’Agenzia ebraica di cui all’articolo 4, l’insediamento fitto degli ebrei sul territorio, incluso quello sulle terre demaniali e quelle desertiche che non siano richieste per scopi pubblicixi.

Si può sostenere che il problema del mandato britannico sia racchiuso entro queste poche righe. Sino all’emissione del Libro Bianco MacDonald nel tarda primavera del 1939, tali direttive avrebbero guidato la politica mandataria britannica, sempre attenta a fornire una lettura rigidamente statica delle condizioni sociali e economiche della Palestina. Tali direttive avrebbero anche attirato l’attenzione e fornito l’argomento di discussione entro le fila del movimento sionista. La posizione di Jabotinsky è, da questo punto di vista, illuminante. Membro dell’Esecutivo sionista all’epoca dell’approvazione del mandato, l’intellettuale ucraino non gradì la clausola dell’articolo 4 che subordinava la «conformità» dell’Agenzia Ebraica, l’organo politico ebraico consultivo incaricato di partecipare allo stabilimento del «focolare nazionale ebraico»xii, all’arbitrio del governo britannicoxiii. Riteneva però che gli articoli 2 e 6 della carta lasciassero aperti spiragli di trattativa e di speranza alla sua interpretazione del sionismo politico. Come sosteneva il Libro Bianco Churchill, Eretz Israel, la terra di Israele, era storicamente e spiritualmente legata al popolo ebraico. L’idea che tale legame storico e spirituale dovesse essere saldato alla trasformazione della Palestina in uno Stato ebraico, può essere considerata il filo conduttore del suo revisionismo politico.

Jabotinsky si dimise dall’Esecutivo sionista all’inizio del 1923, fermamente convinto che la dirigenza di Chaim Weizmann non sarebbe stata in grado di far rispettare le clausole filo-sioniste contemplate nel mandato britannicoxiv. Due anni dopo, nell’aprile 1925, promosse la costituzione a Parigi dell’Unione mondiale dei sionisti-revisionisti. Revisionismo significava, dunque, il ritorno alla fonte originaria del sionismo, quella herzliana, «contaminata» e travisata dai suoi epigoni spiritualisti e moderati. Le risoluzioni della Conferenza, mentre ribadivano l’obiettivo finale nella creazione di una Palestina ebraica, rimarcavano anche come la cooperazione della potenza mandataria fosse la condizione necessaria del successo dell’impresa sionistaxv. Quale tipo di cooperazione richiedeva il revisionismo? Quali erano le deficienze attribuite alla dirigenza sionista? Quale ruolo rivestiva la comunità araba palestinese in questa lotta che appariva del tutto interna al sionismo?

Negli anni in cui il sionismo revisionista fissava la propria piattaforma giuridica, la situazione politica e economica palestinese subì ingenti trasformazioni. Herbert Samuel terminò il proprio mandato nel 1925, senza essere riuscito a applicare le clausole previste dalla carta del mandato (vedi la creazione di istituzioni di autogoverno). La delegazione araba palestinese aveva rifiutato di sottoscrivere l’interpretazione britannica del mandato espressa nel Libro Bianco Churchill; rifiutò anche di sottoscrivere il cosiddetto Palestine-Order-in-Council, una sorta di costituzione della Palestina entrata in vigore al termine dell’estate 1922; promosse il boicottaggio delle elezioni al Consiglio Legislativo palestinese, organo politico a un tempo consultivo e sussidiario previsto dall’Order-in-Council, che furono fissate all’inizio del 1923; declinò, infine, l’offerta di costituire un’Agenzia Araba del tutto simile a quella ebraicaxvi. Il fronte del rifiuto si basava sulla tesi che la carta del mandato britannico sulla Palestina fosse costituzionalmente incompatibile con l’articolo 22 del Patto della Società delle Nazioni, che fissava i compiti e gli obiettivi dell’istituto del mandato, tra cui quello di favorire l’autodeterminazione dei popoli delle ex colonie tedesche e dei territori turchi nel Vicino Orientexvii. Si giunse così alla ratifica del mandato britannico nell’ambito del Trattato di Losanna (settembre 1923) stipulato dalla Turchia di Kemal Atatürk con le potenze dell’Intesa.

A fronte di una situazione politica cristallizzata, gli anni Venti furono gravidi di profondi mutamenti economici e sociali nella Palestina mandataria. Fu proprio in seguito a questi mutamenti che germinò l’opzione «revisionista». Dal 1924 al 1928 la Palestina divenne per la prima volta terra di immigrazione di massa: dalla Polonia, in particolare, sopraggiunsero nel territorio sotto mandato le famiglie ebraiche rovinate dalla politica economica deflazionistica attuata dal primo ministro Vladislav Grabsky (di qui il nome di aliyah, cioè immigrazione, Grabsky)xviii. La comunità ebraica-sionistica della Palestina, cioè lo Yishuv, subì dei profondi mutamenti strutturali: il mito del pioniere che si rigenerava attraverso il contatto con la terra, con il paesaggio natio, fu ben presto scosso dalla realtà di una società stratificata, composta in numero crescente di artigiani, piccoli borghesi e negoziantixix. La dirigenza sionista palestinese non fu in grado di assorbire e di comprendere questa ventata di «novità», percepita e paventata come una sorta di «diasporizzazione» di Eretz Israel, come un pericoloso ritorno al passato. Fu proprio il vuoto di rappresentanza politica a dare linfa all’interpretazione massimalista del mandato britannico presentata dal revisionismo: la tesi della «proletarizzazione progressiva» sostenuta dall’ideologo sionista marxista Ber Borochovxx, si dimostrò fallace. I nuovi immigranti ebrei non rincorrevano ossessivamente la terra o l’industria nascente: cercavano di inserirsi nel mercato lavorativo utilizzando la propria formazione e le proprie abilità acquisite nella diaspora.

La piattaforma politica e giuridica del revisionismo fu l’esito del crescente mutamento morfologico della società ebraica palestinese nella seconda metà degli anni Venti. Proprio l’incapacità da parte dell’amministrazione mandataria e dei corpi ebraici di far fronte alla crisi della quarta aliyah (il saldo migratorio divenne ben presto passivo e la Palestina fu colpita da una recessione causata da una saturazione del mercato del lavoro e dalla speculazione edilizia), riportò prepotentemente all’attenzione il contenuto e gli obiettivi della carta del mandato, espresso nella forma degli articoli 2 e 6. La medesima Commissione permanente dei Mandati, l’organo tecnico incaricato di esaminare i rapporti annuali delle potenze mandatarie e di fornire un parere non vincolante al Consiglio della Società delle Nazioni, l’organo politico, non mancò, riunita per la quinta sessione a Roma nel novembre 1924, di rimarcare i limiti della politica migratoria britannica in Palestina:

La Commissione è costretta a osservare che la politica della Potenza Mandataria in materia di immigrazione suscita profonde critiche. Non soddisfa completamente i sionisti, che ritengono che lo stabilimento del focolare nazionale ebraico sia il primo compito della Potenza Mandataria e manifestano una certa impazienza per le restrizioni imposte sull’immigrazione e nella concessione di terreni agli immigranti. Questa politica è, dall’altra parte, respinta dalla maggioranza araba del paese, che rifiuta di accettare l’idea di un focolare nazionale ebraico e ritiene che l’azione dell’amministrazione minacci il suo patrimonio tradizionalexxi.

Queste osservazioni generali riflettono chiaramente il problema fondamentale del mandato britannico e della teoria dell’obbligo duplice formulata nel Libro Bianco Churchill del 1922: come conciliare la «dinamica» del focolare nazionale ebraico e la «statica» della Palestina sotto l’ambigua espressione di «capacità economica di assorbimento»?xxii L’amministrazione mandataria britannica, ovvero l’Alto Commissario, che sostanzialmente restò l’artefice indiscusso della politica palestinese sino al 1936, cercò di perseguire una maturazione economica e politica della Palestina che, paradossalmente, si adeguasse allo status quo: lo sviluppo del paese restava rigidamente subordinato a una condizione politica cristallizzata e controllabile. Laddove, come avvenne dopo il 1929, il governo britannico cercò di risolvere o di ovviare al crescente problema delle due comunità «a due velocità» con uno studio sistematico delle condizioni economiche, sociali e morfologiche del territorio, fallì: la forbice tra le due comunità era ormai troppo vasta.

Le prime serie frizioni della storia del mandato britannico si ebbero a cavallo tra la fine del 1928 e l’inizio del 1929. Lord Plumer, successore di Samuel (1925), perseguì una rigida politica di «non intervento» nelle faccende istituzionali palestinesi, lasciando così decadere il progetto di Consiglio Legislativoxxiii. Nel settembre 1928, in occasione della celebrazione dello Yom Kippur, il mancato rispetto ebraico dello status quo liturgico determinò gli incidenti nei pressi del cosiddetto Muro del Pianto. La reazione britannica, sotto forma di Libro Bianco, si limitò a ribadire la persecuzione dello status quo che, per quanto memore della lunga esperienza coloniale, cozzava profondamente contro le profonde trasformazioni del paese sotto mandatoxxiv. Jabotinsky, giunto in Palestina in concomitanza con i fatti del Muro del Pianto, intraprese la propria attività pubblicistica di pressione sugli organi responsabili sionisti e britannici. Dalla III Conferenza mondiale revisionista (dicembre 1928) sino alla creazione a Londra della Lega del Settimo Dominio (febbraio 1929): il sionismo revisionista caldeggiava apertamente un’alleanza strategica con la Potenza mandataria. Lo status quo britannico, che perdurava sostanzialmente dal 1923, fu schiacciato da una concomitanza di eventi: l’elezione di Chancellor quale nuovo Alto Commissario, che annunciò l’intenzione di perseguire il progetto di Consiglio Legislativo e la costituzione della Commissione per i Luoghi Santi; la creazione dell’Agenzia Ebraica «allargata», composta, cioè, per metà da ebrei sionisti e per metà da ebrei non-sionistixxv.

II. Fuga dallo status quo ante massacrum? L’etica dell’indipendenza

È sintomatico che la prima seria sferzata alla storia del mandato britannico sia stata inferta dalla mancata risoluzione britannica del problema dei siti religiosi. Abbiamo visto quanto religione e politica rivestissero un ruolo centrale nel medesimo Libro Bianco Churchill, in certi suoi tratti ambiguo. Abbiamo anche visto quanto poco la Potenza mandataria fece per ridefinire la proprietà o la semplice custodia dei siti religiosi, venendo meno – in questo modo – a precise clausole della cartaxxvi. Abbiamo anche visto come gli incidenti del settembre 1928, causati dal semplice utilizzo di paraventi non autorizzati, fosse stato letto dagli arabi palestinesi quale tentativo di cancellare con una spugna la propria storia millenaria. Il «palestinismo» invocato da uomini quale Ben-Avi, alacremente criticato da Jabotinsky nella sua Eretz Israel, mostrava chiaramente quanto le icone religiose fossero investite di una plus-valenza politica e simbolica. Non è casuale, dunque, che gli incidenti dell’agosto 1929 furono determinati da una manifestazione della gioventù betarista (da Betar, il movimento giovanile direttamente affiliato a Jabotinsky), che pretese apertamente la paternità e il controllo sul Muro del Pianto – e, di converso, su ciò che vi giaceva sopra, la moschea di Al-Aqsa. La reazione palestinese, acuita dalle voci provenienti da Zurigo, dove si era appena concluso il XVI Congresso sionista, con la ratifica dell’Agenzia Ebraica, si espresse attraverso una «grande paura» che determinò incidenti e disordini in altre città del paesexxvii. Lo storico Neal Caplan evidenzia la centralità dell’agosto 1929:

Gli incidenti del 1929 avevano sollevato, ovviamente, molto di più che la questione dei diritti sui Luoghi Santi di Gerusalemme. L’intera questione del sionismo e delle relazioni arabo-ebraiche in Palestina rimasero sospese negli anni successivi agli incidentixxviii.

Le deficienze dell’apparato militare palestinese, nonché le pesanti e pressanti critiche piovute su Londra, indussero gli ambienti responsabili britannici a valutare una possibile sferzata strategica alla politica mediorientale. Tra l’ottobre e il novembre 1929 lavorò in Palestina la Commissione d’inchiesta Shaw, incaricata di indagare sulle cause degli incidenti d’agosto. Che la situazione stesse mutando, lo dimostrò il provvedimento assunto dalle autorità britanniche, su consiglio dell’Alto Commissario Chancellor, nei riguardi di Jabotinsky. Questi aveva tenuto un discorso incendiario a Tel Aviv nel dicembre 1929 e, di ritorno da Londra, dove aveva deposto davanti alla Commissione Shaw, gli fu negato il visto per la Palestina. Il capo revisionista aveva alacremente criticato sia la dirigenza sionista sia l’amministrazione mandataria, sostenendo ripetutamente l’intenzione del legislatore della dichiarazione Balfour e del mandato: Stato ebraico su tutta la Palestina, a maggioranza ebraicaxxix. Allorquando, nel marzo 1930, apparve il rapporto della Commissione Shaw, che raccomandò una definizione più chiara degli obiettivi del mandato e la soluzione dei problemi immigratorio e fondiarioxxx, la testimonianza di Jabotinsky spiccava per chiarezza. Innanzitutto, il capo revisionista fornì un’interpretazione dello Stato ebraico:

Esso [lo Stato ebraico] non significa necessariamente indipendenza nel senso di avere il diritto di dichiarare guerra a chiunque, ma significa innanzitutto una maggioranza di ebrei in Palestina, affinché, tramite un governo democratico, il punto di vista ebraico possa sempre prevalere, e, secondariamente, quella misura di autogoverno che, per esempio, possiede lo Stato del Nebraska. Questo mi soddisferebbe completamente nella misura in cui sia un autogoverno locale, sufficiente a condurre i nostri affari, e che ci sia una maggioranza ebraica nel paesexxxi.

In secondo luogo, Jabotinsky, dopo aver sostenuto la sua concezione dello sviluppo politico futuro della Palestina era la sola logica interpretazione della politica incarnata nella dichiarazione Balfour, sottolineò come la differenza tra gli «estremisti» e la dirigenza sionista fosse solo formale, non sostanziale:

[...] la politica che essi sostengono è di fatto basata sulla parola scritta e orale dei leader sionisti, il cui fine ultimo, così egli dice, è identico a quello dei revisionisti, per quanto i loro metodi per l’ottenimento di quel fine siano differentixxxii.

La Commissione Shaw lasciò il passo a una nuova Commissione d’inchiesta, questa volta sull’immigrazione, sull’insediamento e sullo sviluppo fondiario della Palestina, capeggiata da Hope Simpson, esperto di affari coloniali. Che fosse alle viste un possibile mutamento di strategia in Palestina fu evidenziato sia dalle deposizioni dei rappresentanti accreditati britannici in occasione della XVII sessione straordinaria della Commissione permanente dei mandati, svoltasi a Ginevra nel giugno 1930xxxiii, sia dagli esiti della Commissione Simpsonxxxiv e del Libro Bianco cosiddetto Passfield (dal nome del ministro delle colonie britannico), pubblicato in ottobre. La teoria dell’obbligo duplice pareva profondamente scossa alle fondamenta. Passfield, infatti, pur premettendo che tale teoria teneva ancora banco, raccomandava la costituzione del Consiglio Legislativo e, date le condizioni critiche dell’assetto fondiario palestinese descritto da Simpson, raccomandava che l’immigrazione ebraica fosse sottoposta a pesanti limitazioni, alla «capacità economica d’assorbimento»xxxv. Il Libro Bianco produsse una profonda crisi all’interno del sionismo, che rientrò parzialmente solo con la pubblicazione sul «Times» di Londra, nel febbraio 1931, di una lettera del primo ministro Ramsay MacDonald a Weizmann, nella quale si ribadiva che la Potenza mandataria continuava a rispettare la teoria dell’obbligo duplice. Trascorso l’agosto del 1929 e istituite nuove commissioni d’inchiesta sullo stato fondiario del paese, guidate da French e Stricklandxxxvi, il governo britannico si limitò a ritornare allo status quo.

L’etica dello status quo fu profondamente criticata dal revisionismo. Nella IV Conferenza mondiale, riunitasi a Praga nell’agosto 1930, Jabotinsky tenne un indirizzo intitolato La crisi nel sionismo e i compiti del movimento sionista. A conclusione della sua arringa contro il «governo di Hebron» (cioè l’amministrazione mandataria) e la dirigenza sionista ufficiale, il capo revisionista lanciò la parola d’ordine dell’ultimo esperimento e un deciso «no» allo status quo ante massacrum:

Inoltre, l’ebraismo non può attendere un tempo indefinito per la svolta della politica britannica. Il protrarsi delle condizioni dominanti nell’epoca di Plumer – a prescindere da quelle attuali – significa già il rafforzamento degli elementi che ci osteggiano. Il periodo che ora incombe su di noi dovrà ritenersi oggettivamente come l’ultimo periodo dell’esperimento. E alla fine di questo periodo il popolo ebraico tirerà le somme e dovrà decidere se la presenza dell’Inghilterra in Palestina sia conciliabile con l’interesse del sionismo.

Ma la necessità incombente è quella di esigere dall’Inghilterra la svolta, nel senso del sionismo dello Stato degli ebrei. Noi, che abbiamo sempre previsto tutto in maniera così curiosa, crediamo fermamente alla possibilità della svolta – se l’Inghilterra è ancora una nazione. Ed è questa la domanda che l’ebraismo deve porre adesso all’Inghilterra, nella cui lotta crede di basarsi sulla coscienza dell’intero mondo civilexxxvii.

I moniti di Jabotinsky presagivano il lancio della cosiddetta «etica dell’indipendenza»: l’autonomia politica come condizione del risanamento morale dell’ideale sionistaxxxviii. Il revisionismo, infatti, profondamente insoddisfatto dell’amministrazione britannica e della dirigenza sionista, stava meditando una secessione che gli fornisse spazi di manovra politici e diplomatici più ampi. La svolta alle velleità indipendentiste fu indubbiamente inferta dalla congiuntura politica internazionale e palestinese. Sul piano internazionale, l’ascesa al potere di Hitler in Germania e l’introduzione di una legislazione antiebraica resero l’opzione palestinese nuovamente appetibile, dopo la stagnazione che perdurava da circa un quinquennio. L’«antisemitismo al potere» non faceva che confermare le pessimistiche tesi revisioniste circa il futuro dell’ebraismo europeo. Sul piano interno, l’assassinio nel giugno 1933 a Tel Aviv di Chaim Arlosoroff, esponente politico di spicco dell’Agenzia Ebraica, nonché uno dei maggiori sostenitori dell’intesa commerciale con la Germania nazista (l’accordo Haavara, consistente in uno scambio tra merci tedesche e beni ebraici requisiti per coloro che erano disposti a emigrare in Palestina)xxxix, gettò non poche ombre sul movimento revisionista, non solo e non tanto per il fatto che alcuni membri del Betar furono accusati di essere gli esecutori materiali del delitto, quanto per la politica di delegittimazione strisciante attuata sulla stampa e sulla pamphletistica di orientamento revisionistico. L’«etica dell’indipendenza» si riflesse anche sulla dirigenza revisionista. In seguito alla V Conferenza mondiale, svoltasi a Vienna nell’estate 1932xl, e alla seduta dell’esecutivo tenuta a Katowice del marzo 1933xli, apparve ormai chiaro che Jabotinsky non intendeva temporeggiare ulteriormente: esautorando il proprio esecutivo con il proclama di Lodz del marzo 1933, il capo revisionista si assumeva le responsabilità di una decisa sferzata secessionista e decisionistaxlii.

Fu proprio a cavallo del 1933-34, in seguito all’attuazione dell’«etica dell’indipendenza», che il movimento revisionista lanciò la propria «politica di petizione». Mentre il governo britannico, nelle vesti del nuovo Alto Commissario Wauchope e del nuovo ministro delle colonie Cunliffe-Lister, sposava una politica di lento «disimpegno» economico palestinese, che si rifletteva in un allentamento dei vincoli riguardanti l’immigrazione e la vendita di terreni, da una parte, e in una politica dei notabili (o di «assimilazione» delle due comunità), dall’altra, il sionismo revisionista cercò di mettere in pratica la propria dottrina della pressione moralexliii. Tale dottrina rappresentava in un certo qual modo la risposta al «petizionismo» della dirigenza palestinese, che – come detto – rifiutò sempre di negoziare sulla base della teoria dell’obbligo duplice: da una parte, si trattava inondare i centri politici decisionali con una serie di rimostranze e di richieste volte a evidenziare le mancanze dell’amministrazione mandataria; dall’altra, si trattava connettere la crescente miseria economica e sociale dell’ebraismo mondiale e il mancato rispetto delle clausole filo-sioniste del mandato. Il primo passo in tal senso fu una petizione, firmata da Jabotinsky in persona, che fu inoltrata al re Giorgio V nella primavera 1934xliv. A fronte di una risposta negativa del ministero delle colonie britannico, che ignorò la petizione ricorrendo a motivazioni di carattere procedurale, il revisionismo diresse le proprie attenzioni verso l’unico forum realmente in grado di sostenere e di comprendere le proprie esigenze: la Società delle Nazioni.

Il garante ufficiale del mandato britannico sulla Palestina restava il Consiglio della Società delle Nazioni, che, nel 1922, aveva ratificato la carta del mandato insieme all’interpretazione offerta da Churchill. L’obiettivo del revisionismo fu quello di rendere maggiormente partecipe delle faccende palestinesi la Commissione permanente dei Mandati, l’organo tecnico incaricato di vigilare sull’attuazione delle clausole mandatarie. La congiuntura pareva indubbiamente favorevole: fu, infatti, a cavallo del 1933 e del 1934 che i membri della Commissione, nella fattispecie il presidente Alberto Theodoli, iniziarono a manifestare la volontà di ingerenza nelle faccende palestinese, proponendo un progetto di «cantonizzazione» della Palestinaxlv. La XXVI sessione della Commissione, riunitasi a Ginevra nell’autunno 1934, discusse la petizione revisionista firmata dal leader palestinese Avraham Weinshall e intitolata Il significato del mandato: la creazione di uno Stato ebraicoxlvi. La petizione fu inoltrata alla Commissione ginevrina passando attraverso l’Alto Commissario, il ministero delle colonie e quello degli esteri britannicixlvii. Il rapporteur Orts, uniformandosi in larga parte al parere conforme allegato dal governo britannico, a sua volta emanazione di quello di Wauchope, si limitò a cassare l’intero testo della petizione sulla base delle premesse ritenute in palese contraddizione con l’interpretazione vigente degli obblighi del mandatario:

[....] Invero, l’opinione dell’autore della petizione circa lo scopo del mandato palestinese è in contraddizione con l’interpretazione che la Commissione stessa ha dato a quel documento, in particolare nel suo rapporto alla XVII sessione, e che fu approvato dal Consiglio.

Per questa ragione, il vostro rapporteur pensa che non ci sia nemmeno bisogno di esaminare i vari punti sollevati nella petizione. Ce n’è uno, tuttavia, che merita attenzione perché esso riflette un’ansietà abbastanza diffusa – cioè, le osservazioni sul pericolo che minaccerebbe la popolazione ebraica della Palestina in considerazione della scarsa fiducia che è riposta in una forza di polizia, il cui 60% è reclutato tra la popolazione araba, e della debolezza della guarnigione britannica.

A questo riguardo, il vostro rapporteur vi ricorda che, durante la nostra XV sessione [...] il rappresentante accreditato della Potenza Mandataria in Palestina dichiarò formalmente che l’autorità mandataria rispose per il mantenimento dell’ordine in ogni caso con i mezzi a disposizionexlviii.

Un anno dopo, il revisionismo palestinese inoltrò una seconda petizione che difendeva l’ammissibilità procedurale della prima. Ricorrendo a numerosi precedenti arabi, l’autore della petizione lamentò il mancato esame delle rimostranze di carattere pratico e la necessità di affrontare direttamente e inderogabilmente il problema dell’obiettivo finale del mandatoxlix. In occasione della XXVIII sessione della Commissione dei mandati, riunita nell’autunno 1935, Orts fu incaricato nuovamente di fare il resoconto sulla seconda petizione Weinshall. Dopo aver esposto le motivazioni che avevano indotti i revisionisti ad appellarsi all’organo ginevrino, il diplomatico belga consigliò nuovamente la cassazione della petizione:

Poiché la nuova petizione del dr. Weinshall è, tutto sommato, solo un’amplificazione di quella precedente, non mi sembra il caso di chiedere un giudizio da parte della Commissione diverso da quello adottato in riferimento alla prima». In sintesi, anche questa petizione non adempie le condizioni di ammissibilità, avendo sollevato pretese incompatibili col mandato palestinesel.

III. Il conflitto italo-etiopico: emersione o immersione dello «spirito del mandato»?

Il panorama politico internazionale nel 1935 era profondamente mutato rispetto a quello del 1929. Le spinte egemoniche e coloniali dell’Italia fascista determinarono lo scoppio del conflitto abissino e l’inizio dello sgretolamento definitivo del sistema societario, che si reggeva sul trattato di Locarno e sul patto Briand-Kellog; fallimento peraltro già evidenziato dalla crisi mancese del 1931 e dai progetti di direttorio europeo caldeggiati dopo la nazificazione della Germania e il naufragio delle convenzioni sul disarmo. Abbiamo visto come il mutamento dello scenario internazionale fu letto dal sionismo come la possibilità di imprimere una svolta decisiva alla propria politica migratoria e fondiaria. Abbiamo anche visto come il revisionismo cercò di insinuarsi nella congiuntura favorevole imprimendo una sferzata decisionista alla propria piattaforma politica e istituzionale con il lancio dell’«etica dell’indipendenza». Alla critica crescente della dirigenza sionista (va ricordato che, nel 1931, Sokolov era subentrato a Weizmann a capo dell’Esecutivo sionista) si accompagnò la condanna, da parte del Tribunale d’onore del Congresso sionista, per attività politiche non autorizzate (gennaio 1933)li, la summenzionata politica di petizione (anch’essa condannata dal Tribunale del Congresso) e la costituzione di una “Nuova” Organizzazione sionistica a Vienna nel settembre 1935 (d’ora in avanti NOS). Essa rappresentava l’alternativa populistica e di destra all’Organizzazione sionistica: intendeva trasformare la piattaforma politica revisionista in quella di tutto l’ebraismo mondiale filo-sionistalii. La secessione definitiva dall’Organizzazione sionistica coincise, dunque, con la vigilia dello scoppio del conflitto italo-etiopico, vale a dire con quell’evento che avrebbe inferto una svolta decisiva alla strategia britannica nel Vicino Oriente.

Il primo serio sentore che la situazione politica palestinese potesse in qualche modo risentire del conflitto italo-etiopico, fu il progetto di Consiglio Legislativo avanzato dall’Alto Commissario Wauchope nel dicembre 1935. Qualora, infatti, le Camere britanniche avessero espresso un giudizio favorevole allo schema, la maggioranza araba avrebbe posto un veto sia all’immigrazione ebraica sia alla vendita di terreni. La NOS, che proprio nel dicembre 1935 aveva inoltrato agli ambienti politici responsabili la propria Dichiarazione della costituzione e dei fini all’insegna della dottrina della pressione morale (enfasi sulla miseria dell’ebraismo mondiale, richiamo alla giustizia dell’opinione pubblica, ecc.)liii, doveva risolvere l’annoso problema del riconoscimento giuridico da parte della Potenza mandataria. Il ministero delle colonie britannico non riconobbe mai alcun locus standi alla formazione jabotinskiana, che si auto-proclamava l’erede del sionismo politico di Herzl, sulla base di motivazioni a un tempo tattiche e strategiche: l’Agenzia Ebraica, divenuta, dopo il XIX Congresso sionista di Lucerna (agosto 1935), un’emanazione del laburismo di Ben Gurionliv, restava un partner più affidabile e diplomaticamente rispettabile; la NOS, benché affermasse di accogliere i consensi della maggioranza dell’ebraismo sionista, rappresentava l’alter ego dell’intransigente dirigenza araba palestinese; il mandato britannico era stato concepito sull’idea-guida che non ci dovesse essere alcun obiettivo di lungo periodo, dato che – per sua stessa conformazione e finalità – il ministero delle colonie era preposto a governare e ad amministrare colonie, non a pianificare la creazione di future entità statuali autonome.

Il legame tra la Palestina e la situazione politica internazionale si strinse ulteriormente nei mesi successi. Nel marzo 1936 lo schema del Congresso Legislativo fu bocciato dalle Camere britanniche, pochi giorni prima che, rimilitarizzando la Renania, la Germania di Hitler contravvenisse al trattato di Locarno e desse una seconda spallata al sistema di sicurezza europeo architettato negli anni Venti da Stresemann e Briand. All’inizio di aprile scoppiò la «rivolta araba» in Palestina, che trovò assolutamente impreparata – oltre che la dirigenza palestinese dei notabili – l’amministrazione mandataria. La confusione regnante nel ministero delle colonie britannico, dove quattro ministri si alternarono nel giro di pochi mesi (Cunliffe-Lister, MacDonald, Thomas e Ormsby-Gore), fece sì che l’intera responsabilità del processo decisionale gravasse sulle spalle dei funzionari anziani e, di converso, sull’Alto Commissario, entrambi piuttosto restii a una maggiore ingerenza delle forze armate e del ministero degli esteri nelle faccende palestinesilv. Gli equilibri politici e diplomatici si stavano ormai spostando verso le sorti del continente europeo. La tesi revisionista, che l’amministrazione mandataria fosse costituzionalmente «antisemita» e «antisionista», contrariamente al governo britannico londinese, «filo-sionista», sembrava ricevere ulteriori conferme dall’assoluta impreparazione palesata dall’Alto Commissario di fronte all’iniziativa araba. Nell’escalation della crisi palestinese della primavera 1936 va collocata la seconda – e, forse, decisiva – politica di petizione revisionista. Londra e, soprattutto, Ginevra riassunsero un ruolo strategico di primo piano.

La NOS approntò altre due petizioni da sottoporre alla Commissione permanente dei mandati: la prima, inoltrata alla fine di marzo, era una tenace condanna dello schema di Consiglio Legislativo avanzato da Wauchopelvi; la seconda, inoltrata – per ritardi nel lavoro di redazione – in agosto, era la migliore e più compiuta giustificazione revisionista dello «spirito del mandato». È sintomatico che il miglior documento in grado di gettare chiarezza su questo passaggio della storia revisionista – e, più in generale, del medesimo mandato britannico – sia una lunga lettera che, alla fine di marzo, il compagno di penna italiano di Jabotinsky, Isacco Sciakylvii, inoltrò al marchese Theodoli, presidente della Commissione dei mandati. La lunga lettera è una presentazione delle petizioni revisioniste; è soprattutto il compendio della radicale rilettura revisionista del mandato britannico. Che il destinatario della lettera fosse il marchese romano dimostrava la sedimentazione di una nuova tattica e strategia del revisionismo: l’intenzione di aggirare l’ostacolo Wauchope e di adire direttamente la tribuna ginevrina; la percezione che l’Italia fascista, che, di fatto, Theodoli rappresentava in seno alla Commissione ginevrina, fosse o sarebbe ben presto diventata una grande potenza continentale e mediterranea in grado di negoziare alla pari con la Gran Bretagna.

La lunga lettera di Sciaky era una difesa della «forma» del mandato britannico, vale a dire della carta del mandato approvata dalla Società delle Nazioni nel luglio 1922. L’autore metteva in mostra la cinica politica britannica già attuata nella risoluzione del mandato irakeno e intenta a creare in Palestina due entità di pari forza che si fronteggiassero e che quindi obbligassero il mandatario a concedere, al massimo, un’indipendenza «limitata». Poi affrontava il problema dell’opposizione araba in un passaggio che va riportato per esteso:

[...] Si potrebbe dimostrare, con l’analisi particolareggiata di ciascuno degli atti compiuti dall’amministrazione britannica in Palestina dall’instaurazione del regime di mandato fino ad oggi, che tutti questi atti tendevano, come tendono, da una parte a rallentare il ritmo dell’attività ebraica nel paese, dall’altra, a promuovere, – entro certi limiti – lo sviluppo della popolazione araba, non però nel senso più proprio a favorire i veri interessi di questa, quanto in quello voluto da un gruppo di... politici o politicanti, dei quali la potenza mandataria pensava e pensa forse di poter servirsi come di strumenti, sia pure in apparenza più o meno recalcitranti. É un fatto che, tanto in Palestina come in altri paesi mussulmani [sic], l’apparente desiderio di indipendenza dei più accesi nazionalisti si scompagna, solitamente, dal desiderio o dalla disposizione a un’alleanza con la potenza occupante – Francia o Inghilterra, – che assicuri agli elementi dominanti certi vantaggi. In Palestina, abbiamo visto tenersi, sotto gli occhi dell’amministrazione mandataria, quel congresso islamico che doveva essere uno dei fatti intesi a costituire nel paese un centro di agitazione panislamica, ed è stata pure nel paese data ostentatamente sepoltura al ribelle cirenaico Omar el Mukthtar, come inizio di un pantheon mussulmano da erigervi contro l’Europa cristiana e, in generale, contro la civiltà di tipo occidentalelviii.

Le personalità giuridiche costitutive della carta del mandato erano due: il popolo ebraico mondiale e la comunità araba palestinese. Lo schema del Consiglio Legislativo, investito di poteri in materia di immigrazione, di acquisizione di terreni e di polizia, avrebbe tradito la ratio originaria – e formale – proprio perché negava la prima personalità giuridica limitandola alla sola popolazione ebraica palestinese. La Potenza mandataria sosteneva che rientrasse nei fini del mandato la creazione del Consiglio Legislativo, mentre la Commissione dei mandati aveva indicato tale istituzione «fra gli scopi del mandato da posporre alla creazione delle condizioni per l’attuazione del fine, distinguendo tra compiti attuali e fini della politica mandataria». Ed è proprio su questa diversità di vedute che Sciaky introduceva la tesi revisionista del dualismo del mandato, che ben si discostava dalla dualità (o dell’obbligo duplice) del mandato esposta nel Libro Bianco Churchill e accettata quale interpretazione legittima dalla medesima Commissione ginevrina. Mentre la dottrina ufficiale cercava di portare avanti i due obblighi di eguale peso (focolare nazionale ebraico e sviluppo delle comunità non ebraiche), la dottrina revisionista parlava schiettamente di parte positiva e di parte negativa del mandato. La parte positiva consisteva nella creazione di quelle condizioni politiche tali da permettere lo stabilimento di uno Stato ebraico, vale a dire la maggioranza ebraica, l’acquisizione di terreni e la salvaguardia fisica degli ebrei. La parte negativa consisteva nella salvaguardia dei diritti civili e religiosi degli abitanti non ebrei della Palestina, ben esposta nel preambolo della carta del mandato.

È evidente che la dottrina revisionista, basata sulla rigida e formalistica lettura del testo del mandato, negava qualsiasi atto di forza offensivo nei riguardi degli arabi palestinesi e, come Weinshall e lo stesso Jabotinsky avevano ripetuto, era lungi, in teoria, dal negare i diritti civili e politici consoni a qualsiasi minoranza nazionalelix. A questo riguardo Sciaky individuò nella forma stessa della carta del mandato un’analogia affatto casuale con le clausole di salvaguardia delle minoranze nazionali contenute nei trattati che contemplavano la costituzione dei nuovi paesi europei sorti dopo la I Guerra Mondiale. Inoltre, la medesima espressione «diritti politici» degli ebrei di altri paesi sottintendeva – secondo il filosofo attualista e statalista – l’erezione in Palestina di un’entità politica ebraica autonoma. Il Consiglio Legislativo appariva, dunque, come un’istituzione di autogoverno assolutamente necessaria per il mandato britannico, ma – come dimostrava la «dottrina ginevrina» – era subordinato all’ottenimento delle condizioni per l’attuazione del fine, vale a dire la maggioranza ebraica:

[...] A quale fine le è stata data pienezza di poteri se non perché mancavano gli elementi possibili per un autogoverno nel paese? E come si giustifica che ora essa voglia istituire un Consiglio Legislativo, con maggioranza di quell’elemento di popolazione che, oltre a tutto, è il meno colto, il meno civile, e che solo sta di fronte a tutto il popolo ebraico come un tutto, con la sua storia, la sua civiltà, con la grandezza e la tragicità dei suoi problemi? Né occorre che io faccia più che accennare a Lei come, mentre in Egitto l’Inghilterra ha resistito quanto ha potuto alle richieste di ripristino delle libertà costituzionali, in Palestina, essa vuol imporre organi propri di un tale regime, mentre le forme di reggimento parlamentare si son rivelate di così difficile attuazione perfino in paesi di alta cultura europei. In Egitto tali istituzioni potevano essere una minaccia per essa, in Palestina possono essere un mezzo per ridurre l’importanza dell’elemento ebraico e rendersi indispensabilelx.

La lunga lettera si concludeva con la richiesta di applicare lo spirito e la lettera del mandato, nonché con un monito piuttosto significativo:

[...] Si desidera che il mandato dia quei frutti che deve e può ancora dare, onde il popolo ebraico, deluso, non soggiaccia alla più grande crisi di disperazione che esso abbia mai conosciuto, e non veda finalmente questa disperazione, nella sua gioventù ovunque privata, si può dire, d’aria e di luce, sfociare in quell’estremismo rivoluzionario e disgregatore che ha già una volta minacciato, prima che gli altri popoli, il popolo ebraico, come espressione di rivolta disperata contro l’ordine costituito. Il dolore ebraico è ormai giunto a intensità difficilmente conosciute in passato, mentre non si tiene forse abbastanza presente in generale che è stato il sionismo a contenere questo dolore, indicando alle giovani generazioni una via d’uscita al loro elementare bisogno di vivere. Si confida nello spirito di giustizia della Commissione perché essa, con la sua autorità confermi quanti han confidato in una pacifica soluzione di uno dei più gravi problemi della vita internazionalelxi.

La storia del conflitto israelo-palestinese è costellata di documenti e di «forma». Il sionismo revisionista poneva un secco aut-aut tra forma (diritto) e violenza, appellandosi a un’interpretazione del testo desueta in se stessa, prima ancora che fosse approvata dalla Società delle Nazioni nel 1922. La Commissione dei Mandati si riunì a Ginevra nel maggio 1936 per la sua XXIX sessionelxii. Fu solo, però, alla XXXII sessione straordinaria, fissata per l’estate 1937, che sarebbe stata discussa la situazione palestinese venutasi a creare con la «rivolta araba», sospesa – grazie alla mediazione delle potenze arabe circonvicine – dall’autunno 1936lxiii. Il governo britannico, infatti, approfittò della relativa quiete per inviare in Palestina la Commissione reale d’inchiesta Peel, che indagasse sulle cause profonde del conflitto. In un certo qual modo, la Commissione era incaricata di chiarire al medesimo governo britannico quali fossero, all’alba dell’appeasement europeo, gli obiettivi del mandato sulla Palestina: uno Stato ebraico, uno Stato arabo, una Confederazione oppure un nuovo mandato limitato ai siti religiosi? A sospingere nella direzione di una maggiore chiarezza era anche la petizione revisionista inoltrata nell’agosto 1936, firmata dall’avvocato ebreo di stanza a Parigi Harry Lévy, che sintetizzava e sviluppava le argomentazioni revisioniste proponendo la rottura di qualsiasi indugio e la scelta definitiva in direzione di uno Stato ebraicolxiv.

Nel febbraio 1937 Jabotinsky poté deporre a Londra davanti alla Commissione reale. La sua testimonianza, poi pubblicata sotto forma di opuscololxv, non era nient’altro che un’enfatizzazione della base «formale» del sionismo revisionista e dello «spirito del mandato»: uno Stato ebraico a maggioranza ebraica su entrambe le rive del Giordano. Il rapporto della Commissione Peel, pubblicato all’inizio di luglio, partiva dalle medesime premesse revisioniste (conflitto politico irrisolvibile), ma proponeva due soluzioni realistiche alternative: la spartizione o la cantonizzazione. È interessante osservare come i sionisti revisionisti fosse descritto come «ferocemente contrari al mandato così come gli arabi nazionalisti», pronti a chiedere il trasferimento del mandato a un’altra potenza se questa permettesse l’immigrazione ebraica di massa, sospettati di essere responsabili di un atto di terrorismo politico come l’assassinio di Arlosorofflxvi. Non meno caustico fu il giudizio circa il rigido riferimento ai testi, che palesava in maniera cristallina l’applicazione della clausola rebus sic stantibus, secondo cui la validità del trattato doveva decadere in quanto ché le circostanze essenziali tra i contraenti erano notevolmente mutate rispetto all’epoca in cui fu emessa la dichiarazione Balfour:

È vero che, come spiegato nel capitolo II, gli ebrei intesero, nei giorni della dichiarazione Balfour, che qualche risultato del genere sarebbe potuto essere il suo esito finale. Ma l’intera situazione è cambiata in seguito a ciò che è avvenuto nel frattempo. Nelle circostanze attuali il programma revisionista non è solamente in palese dissonanza con i nostri obblighi legali e morali: la sua esecuzione trasformerebbe l’amicizia di tutti i popoli arabi in un implacabile risentimento e reazione oltre i confini di tutto il mondo musulmanolxvii.

La XXXII sessione straordinaria della Commissione dei mandati, totalmente dedicata alla Palestina, fu investita del compito di esaminare le raccomandazioni del rapporto della Commissione Peel espresse in un Libro Bianco pubblicato subito dopo. Va aggiunto che il ministero delle colonie britannico aveva deciso di sondare le tribune ginevrine prima di compiere atti ufficiali, come quello di sottoporre il progetto di spartizione alle Camere. La Commissione, che rinviò la discussione delle petizioni riguardanti la «rivolta araba» alla sessione successiva, concordò sul principio che la spartizione rappresentasse l’unica ragionevole soluzione del conflitto; consigliò tuttavia un prolungamento di un periodo di apprendistato politicolxviii. Tale fu anche la decisione assunta dal Consiglio della Società delle Nazioni, riunito in settembre. La spartizione del paese fu anche approvata come obiettivo di medio-lungo periodo dal Congresso sionista, riunito a Zurigo per il suo XX Congresso contemporaneamente alla sessione straordinaria della Commissione dei mandati. Lo Stato ebraico, più che le sue dimensioni, appariva l’obiettivo del sionismo ufficiale di Ben Gurionlxix. La NOS mise in atto un’estenuante campagna antispartizionistica sia a Londra sia a Ginevra, nel vano tentativo di accantonare lo schema Peel e di ritornare alle «fonti» del mandato, ovvero – come scrisse Jabotinsky in una lettera all’amico Jacobi di fine settembre 1937: «“stop nonsense and carry out the Mandate to full”»lxx.

La situazione politica palestinese precipitò nuovamente a fine settembre, allorquando l’assassinio del commissario distrettuale della Galilea determinò la ripresa della «rivolta araba» e la feroce repressione britannica, che, di fatto, decapitò il movimento nazionalista palestinese della propria leadership politicalxxi. La politica spartizionistica, invece, fu di fatto accantonata a fine ottobre, allorquando una riunione del governo britannico decise di inserire la questione palestinese nel più ampio quadro della strategia mediorientale che riservava maggiore attenzione all’opinione pubblica dei paesi circonvicinilxxii. In dicembre fu deciso di nominare la commissione d’inchiesta Woodhead, incaricata di esaminare la spartizione della Palestina, raccomandandone il rigetto e la prosecuzione del mandatolxxiii. Di fronte a quella che aveva tutta l’apparenza di essere una politica di spartizione, la NOS continuò la propria azione di pressione morale a Londra e a Ginevra, inoltrando, nel gennaio 1938, un’ennesima petizione sulla «democratizzazione» dell’Agenzia Ebraica. La XXXIV sessione della Commissione dei mandati, riunitasi a Ginevra nell’estate successiva, si limitò a prendere atto delle intenzioni britanniche di proseguire sulla strada della spartizione, ma non ritenne di sottoporre alcuna raccomandazione al Consiglio circa le rimostranze revisionistelxxiv. A Ginevra, dunque, il revisionismo assisteva all’immersione dello «spirito del mandato» e della «forma», unico ancoraggio capace di salvare la disperazione ebraica dalla propria paventata violenza rivoluzionaria.

IV. Il Libro Bianco MacDonald: tramonto della parabola revisionista?

Proprio mentre Neville Chamberlain rientrava da Monaco alla fine di settembre 1938 con la pia illusione di aver salvato l’Europa dal baratro della guerra, si svolse a Londra una riunione interna tra i rappresentanti del ministero degli esteri e quelli del ministero delle colonie intorno alla realizzabilità della spartizione della Palestina. Il nuovo ministro delle colonie, Malcolm MacDonald, tutt’altro che convinto della profondità del sentimento nazionalista arabo palestinese, consigliò di sospendere il progetto di spartizione e l’emigrazione ebraica sino al termine del possibile conflitto con la Germania nazistalxxv. Circa un mese dopo apparve il rapporto della Commissione Woodhead, che, dopo aver speculato su tre possibili progetti di spartizione, si limitava a una conclusione piuttosto amara quanto realistica:

La questione se la spartizione sia praticabile implica considerazioni di due tipi: pratiche e politiche. Le prima riguarda principalmente la finanza e l’economia; le difficoltà amministrative sono rilevanti, ma non possono essere ritenute insuperabili, se esiste la volontà di trovare una soluzione. Ma le difficoltà finanziarie e economiche [...] sono di tale natura che non troviamo un modo per risolverle entro i nostri termini di riferimento. [...]

Rimangono le difficoltà politiche. Non possiamo ignorare la possibilità che una o entrambe le parti possano rifiutarsi di operare la spartizione a qualsiasi condizione. Non è nostro dovere [...] consigliare che cosa si dovrebbe fare in quel caso. Ma c’è anche la possibilità che entrambe le parti possano essere disposte ad accettare un compromesso ragionevole. Non possiamo sentirci sicuri che questo accadrà, ma sottoponiamo le proposte [...] nella speranza che esse possa costituire la base di un accomodamento negozialelxxvi.

Pochi giorni dopo apparve un Libro Bianco che, prendendo atto dell’impraticabilità della spartizione, annunciava l’intenzione del governo britannico di invitare a Londra i rappresentanti delle comunità ebraica e araba (palestinese e non) per conferire sul futuro assetto politico del paese e sul problema migratorio ebraicolxxvii.

La Conferenza del Palazzo di Saint James, che si svolse a Londra tra il febbraio e il marzo 1939, si concluse come era logico – e il governo britannico auspicava – che si concludesse: con un nulla di fatto. MacDonald congedò le delegazioni annunciando la pubblicazione di un Libro Bianco con le nuove direttive della politica britannica e – questa volta – un’interpretazione degli obiettivi del mandatolxxviii. Jabotinsky, alle prese con il crescente malcontento delle sue frange più oltranziste in Eretz Israel (l’Irgun, il braccio militare di Jabotinsky, e il Betar)lxxix, bollò sarcasticamente come «vanità delle vanità» o come «terra della fata Morgana» il progetto britannico di cercare un territorio alternativo alla Palestina dove dirottare l’emigrazione ebraicalxxx. Il 19 maggio 1939 apparve il Libro Bianco MacDonald, con la paventata svolta filo-araba (piuttosto che filo-palestinese): il focolare nazionale ebraico era definito come un fatto compiuto; entro dieci anni sarebbe stato creato uno Stato palestinese legato da opportuni trattati alla Gran Bretagna; l’immigrazione ebraica sarebbe stata limitata alla capacità economica d’assorbimento per il primo quinquennio (secondo una ratio che l’avrebbe portata a essere un terzo della popolazione totale), alla volontà della popolazione araba palestinese per il secondo; la vendita dei terreni sarebbe stata soggetta a precise restrizionilxxxi.

La mobilitazione ebraica non si fece attendere. L’unica tribuna, però, in grado di poter bloccare l’attuazione della politica britannica restava Ginevra. La NOS partecipò alla campagna pubblicistica contro il Libro Bianco MacDonald, facendo circolare una serie di memoriali negli ambienti ginevrini e in altri paesi europei (Francia e Polonia)lxxxii, dove temeva una reazione del cosiddetto «antisemitismo delle cose»lxxxiii. La XXXVI sessione della Commissione permanente dei mandati, riunita a Ginevra nel giugno 1939, diede ragione alla tesi sionista: la nuova piattaforma politica esposta da MacDonald era in flagrante contraddizione con la precedente interpretazione del testo del mandato offerta dal governo britannico e approvata dal Consiglio della Società delle Nazioni. Da questo punto di vista, è piuttosto singolare notare che l’opposizione ginevrina faceva leva su quella dualità del mandato esposta dal revisionismo nella sua piattaforma giuridica del 1936: un assetto istituzionale definitivo del paese era rinviato a un accordo politico tra le due partilxxxiv. La Commissione consigliò in definitiva di perseguire sulla vecchia politica tracciata nel 1922, respingendo di fatto il Libro Bianco MacDonald già applicato in Palestina. Lo scoppio della II Guerra Mondiale determinò un aggiornamento sine die del Consiglio della Società delle Nazioni e, quindi, un esame della nuova politica britannica.

V. Conclusioni. Quale terra?

Lo scoppio della II Guerra Mondiale pose fine non solo a un’epoca della storia europea e mondiale, ma anche alla storia della Palestina mandataria. Ciò che successe durante la guerra e nell’immediato dopoguerra, nei tragici giorni che precedettero l’abbandono britannico del mandato e la dichiarazione della nascita dello Stato d’Israele, sono un’«altra storia». Questo nostro cammino lungo il ventennio mandatario e la lotta del sionismo revisionista per la terra di Israele ha dimostrato come le argomentazioni revisioniste, per quanto ripetutamente respinte dagli ambienti politici responsabili, misero a nudo la «forma» del mandato britannico sulla Palestina: il testo proponeva una «forma» nuova – quella dell’istituto del mandato – e una «sostanza» vecchia – quella del colonialismo britannico ottocentesco. In secondo luogo, la medesima concezione di Eretz Israel alternativa e esclusiva, sganciata dal testo reale e immersa in un contesto per certi versi irreale e avvenire, può essere considerata un simbolo medesimo di quel dualismo irriducibile al quale soggiacciono oggi le due etiche, quella della sicurezza e quella dell’autonomia: lo spazio è caricato di un bagaglio simbolico e politico assolutamente smisurato e soffocante. Di certo, il revisionismo rappresentò l’ala più fieramente «orientalista» del sionismolxxxv. Fu però quella parte che andò diritta al cuore del nazionalismo ebraico, scoprendo senza pudore la sua essenza etica relativa e occidentalisticalxxxvi.

Quale «Terra di Israele» ci restituisce l’esperienza mandataria a sei decenni di distanza? L’eredità del mandato britannico sulla Palestina è ancora tragicamente presente e difficilmente sradicabile. Non lo è tanto nelle mancate riforme agrarie, urbanistiche o economiche, in una parola in quell’idea di «sviluppo» (development) che una potenza europea in declino cercò di importare nel Vicino Oriente arabo. Lo è per quella dualità che conteneva e che non riuscì mai a superare; lo è in quella dualità che divenne dualismo, il dualismo del «focolare nazionale ebraico» e delle «comunità non ebraiche», in qualche modo sublimato nella teoria dell’obbligo duplice. Lo è per quel medesimo status quo religioso e politico della Potenza mandataria, che ignorò una realtà che non aveva assolutamente pietre di paragone con gli altri territori privi di sovranità emersi dalla I Guerra Mondiale, soggetti alla «forma» dell’autodeterminazione nazionale. L’esperienza del mandato britannico è ormai parte integrante della storia della Palestina e di Israele. L’esperienza della terra divisa è parte integrante del presente della Palestina e di Israele. Riuscirà il futuro a superare il passato, restituendo una Palestina «completa» e realmente condivisa?

Note

i Sin dalle sue origini, il concetto di palestinismo ha subito diverse connotazioni. In questo caso, palestinismo definiva un’opzione politica decisamente incentrata sul nativismo e sull’idea che la terra di Palestina potesse aiutare l’integrazione delle due etnie in un’unica e pacifica convivenza. Cfr. M. Buber, J. L. Magnes and E. Simon (ed.), Towards Union in Palestine. Essays on Zionism and Jewish-Arab Cooperation, Jerusalem, Ihud Association, 1947; S. Hattis Lee, The Bi-National Idea in Palestine during Mandatory Times, Haifa, Shikmona, 1970; E. Ben Ezer (ed.), Unease in Zion, New York, Quadrangle Books, 1974.

ii Eliezer Ben Jehuda (1858-1922), studioso ebreo lituano autore del primo dizionario dell’ebraico moderno.

iii Su che cosa gli anni Venti abbiano rappresentato politicamente per la storia del mandato britannico sulla Palestina esistono una serie di correnti interpretative, le une tendenti a enfatizzare gli sforzi – più o meno limitati – di rappacificazione e di dialogo operati dall’amministrazione mandataria e da alcuni settori delle élites, le altre tendenti a rimarcare la crescente e inevitabile separazione tra le due comunità sostenuta dalla medesima amministrazione mandataria, nella figura – per esempio – dell’Alto Commissario Samuel. Cfr. N. Shepherd, Ploughing Sand. British Rule in Palestine, London, John Murray, 1999; S. Huneidi, A Broken Trust. Herbert Samuel, Zionism and the Palestinians 1920-1925, foreword by W. Khalidi, London, I. B. Tauris, 2001.

iv Cfr. L.J. Silberstein, The Postzionism Debates. Knowledge and Power in Israeli Culture, New York and London, Routledge, 1999, cap. 2.

v Cfr. Y. Shavit, Jabotinsky and the Revisionist Movement, 1925-1988, London, Frank Cass, 1988.

vi Patto per la pace, associazione ebraica sorta nel 1925 che sosteneva il riavvicinamento tra gli ebrei e gli arabi.

vii V. Jabotinsky, La Terra di Israele, in «Doar Hayom», Gerusalemme, 12 aprile 1929. (Il testo è reperibile anche nel sito www.betar.org.il/English/ideology/benavi.htm).

viii Cfr. T. Segev, One Palestine, Complete. Jews and Arabs under British Mandate, translated by H. Watzman, London, Little, Brown & Company, 2000.

ix Cfr. I. Kolatt, Political Zionism and the Entrance of the Jews into History, «Jewish Studies», XXXVIII, 1998, pp. 43-55.

x Cfr. Palestine. Correspondence with the Palestine Arab Delegation and the Zionist Organisation, June 1922, Cmd. 1700, p. 19.

xi Cfr. League of Nations, Mandate for Palestine, C. 529. M. 314. 1922. VI (12/8/1922), artt. 2 e 6.

xii Cfr. ivi, art. 4.

xiii Cfr. Cfr. M. W. Weisgal (General Editor), B. Wasserstein (Editor) e J. S. Fishman (Assistant Editor), The Letters and Papers of Chaim Weizmann, Transaction Books, Rutgers University, Israel University Press, Jerusalem 1977, vol. XI, serie A: January 1922-July 1923, lettera di Weizmann a Vera Weizmann (29/8/1922), n. 185.

xiv Cfr. CZA (Central Zionist Archives di Gerusalemme), Fondo Z4 (Ufficio londinese dell’Organizzazione sionistica mondiale e dell’Agenzia Ebraica per la Palestina, 1917-1955), file Z4/3295, lettera di Jabotinsky a Presidente del Comitato d’Azione (18/1/1923), in tedesco.

xv Cfr. Conference des sionistes revisionistes tenue à Paris du 26 au 30 avril 1925, édité par le soins de l’Associtation des sionistes revisionnistes de Salonique (juillet 1925), pp. 30-32.

xvi Cfr. N. Caplan, Palestine Jewry and the Arab Question, 1917-1925, London, Frank Cass, 1978, pp. 146-165.

xvii L’articolo 22 del Covenant era quello che definiva l’essenza e la finalità dell’istituto del mandato. La prima sezione affermava infatti: «A quelle colonie o a quei territori che, in seguito all’ultima guerra, hanno cessato di essere sotto la sovranità degli stati che prima li governavano [si noti la circonlocuzione giuridica per stati sconfitti] e che sono abitati da popolazioni incapaci di essere autonome in base alle salde condizioni del mondo moderno, sarà applicato il principio che il benessere e lo sviluppo di tali popolazioni rappresentano una sacra missione della civiltà e che le garanzie per l’applicazione di questa missione siano incorporate nel Patto».

xviii Cfr. D. Giladi, Lo yishuv nel periodo della quarta aliyah, 1924-1929, Tel Aviv 1973 (in ebraico).

xix Cfr. V.Z. Jabotinsky, Il commerciante, in id., Dialogo sulla razza. Scritti, a cura di V. Pinto, postfazione di P. Di Motoli, Milano, M&B, 2003, pp. 235-239.

xx Cfr. A. Yassour, Philosophy, Religion, Politics. Borochov, Bogdanov and Lunacharsky, «Studies in Soviet Thought», XXXI, 3, April 1986, pp. 199-230; J. Frankel, Gli ebrei russi. Tra socialismo e nazionalismo (1862-1917), Torino, Einaudi, 1990, cap. 7; V. Pinto, Monismo o dualismo? Ber Borochov e la problematica sintesi tra marxismo e sionismo (1902-1917), «Studi Storici», XLI, 3, 2000, pp. 871-906.

xxi Cfr. League of Nations, Permanent Mandates Commission, Minutes of the 5th (extraordinary) Session (Geneva, October 23th –November 11th, 1924), General Observations.

xxii Il concetto di capacità economica sarebbe stato la vera discriminante che avrebbe diviso sionisti e politici inglesi sull’interpretazione del mandato. Da parte dei sionisti, infatti, tale capacità era inteso dinamicamente, ovvero essi ritenevano che l’immigrazione avrebbe potuto aumentare la capacità economica, sostenendo lo sviluppo e la crescita del benessere ebraico e generale. Da parte degli inglesi, il concetto era inteso staticamente e politicamente: la capacità economica andava valutata sulla base delle condizioni presenti del paese, tali da non mettere a repentaglio i diritti delle altre comunità presenti sul territorio (leggi creare dei problemi al governo mandatario). Cfr. N. Halevi, The Political Economy of Absorptive Capacity: Growth and Cycles in Jewish Palestine under the British Mandate, «Middle Eastern Studies», XIX, 4, October 1983, pp. 456-69; S. I. Troen, Calculating the "Economic Absorptive Capacity" of Palestine. A Study of the Political Uses of Scientific Research, «Contemporary Jewry», X, 2, 1989, pp. 19-38.

xxiii Cfr. B. Wasserstein, The British in Palestine. The Mandatory Government and the Arab-Jewish Conflict 1917-1929, Oxford, Basil Blackwell, 19912, p. 152.

xxiv Cfr. The Western Wailing Wall in Jerusalem. Memorandum by the Secretary of State for the Colonies, November 1928, Cmd. 3229.

xxv Sull’intera faccenda dell’allargamento dell’Agenzia Ebraica, alacremente criticata dai revisionisti, che erano contrari in principio a devolvere una parte dell’autorità del Congresso sionista ai magnati ebrei non-sionisti e non eletti sulla base di motivazioni finanziarie (il sionismo pativa una cronica carenza di fondi per l’acquisizione dei terreni), si veda: CZA, Fondo Z4, file 3293/1. Non si dimentichi che, finché il governo britannico non approvò il «lodo Weizmann» sull’Agenzia Ebraica allargata (1930), fu l’Organizzazione sionistica mondiale a fungere da organo consultivo nell’amministrazione del mandato palestinese.

xxvi Cfr. League of Nations, Mandate for Palestine, cit., art. 14.

xxvii Cfr. Segev, One Palestine, Complete, cit., cap. 14.

xxviii N. Caplan, Futile Diplomacy, vol. I: Early Arab-Zionist Negotiation Attemps 1913-1931, London, Frank Cass, 1983, p. 82.

xxix Cfr. PRO (Public Record Office di Londra-Kew), CO 733 (Colonial Office: Corrispondenza originale della Palestina), file 186, fascicolo 3.

xxx Cfr. Palestine. Report of the Commission on the Palestine Disturbances of August, 1929, March 1930, Cmd. 3530, pp. 163 ss.

xxxi Ivi, p. 109.

xxxii Ivi, p. 110.

xxxiii Cfr. League of Nations, Permanent Mandates Commission, Minutes of the 17th (extraordinary) session (Geneva, June 3rd – 21st, 1930).

xxxiv Cfr. Palestine. Report on Immigration, Land Settlement and Development by Sir John Hope Simpson, October 1930, Cmd. 3686.

xxxv Cfr. Palestine. Statement of Policy by His Majesty’s Government in the United Kingdom, October 1930, Cmd. 3692, passim.

xxxvi Cfr. B. J. Smith, The Roots of Separatism in Palestine. British Economic Policy, 1920-1929, London and New York, I. B. Tauris & Co. Ltd Publishers, 1993

xxxvii JI (Jabotinsky Institute di Tel Aviv), Fondo G2 (Esecutivo revisionista londinese, 1929-33), file 3/1/7, Das Referat von V. Jabotinsky: “Die Krise im Zionismus und die Aufgabe der Zionistischen Bewegung” (gekürzte Wiedergabe), p. 4.

xxxviii Cfr. W. Jabotinsky, Die Ethik der Unabhängigkeit, in Rasswjet. Deutsches Sonderheft, Paris, den 30. August 1931, pp. 31-35.

xxxix Cfr. E. Black, The Transfer Agreement. The Dramatic Storm of the Pact Between the Third Reich and Jewish Palestine, Cambridge (Massachussetts), Brookline Books, 1999; F. Nicosia, The Third Reich and the Palestine, New Brunswick, Transaction Publishers, 2000.

xl Cfr. JI, Fondo G2, file 3/4/7.

xli Cfr. J.B. Schechtmann, The Life and Times of Vladimir Jabotinsky, Eshel Books, Silver Springs (Maryland) 1986, vol. II: Fighter and Prophet: The Last Years, Silver Springs (Maryland), Eshel Books, 1986, p. 166.

xlii Cfr. CZA, Fondo S25 (Dipartimento politico dell’Agenzia Ebraica per la Palestina), file 2086, W. Jabotinskys Aufruf (Varsavia, 24/3/1933).

xliii Cfr. S. Sofer, Zionism and the Foundations of Israeli Diplomacy, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, pp. 213-215.

xliv Cfr. PRO, CO 733, file 262, fascicolo 9.

xlv Cfr. ivi, file 268, fascicolo 19.

xlvi Cfr. A. Weinshall, The Meaning of the Mandate. The Creation of a Jewish State, Haifa, Hasollel Press, 1934 (C.P.M. 1550).

xlvii Cfr. PRO, FO 371 (Foreign Office: Corrispondenza generale), file 17883, lettera del segretario di stato al segretariato generale della Società delle Nazioni (14/6/1934).

xlviii Cfr. League of Nations, Permanent Mandates Commission, Minutes of the 26th session (Geneva, October 29th – November 11th, 1934), Annex 6, pp. 179-180.

xlix Cfr. A. Weinshall, Petition on the Meaning of the Mandate, Haifa, Hasollel Press, 1935 (C.P.M. 1694).

l Cfr. League of Nations, Permanent Mandates Commission, Minutes of the 28th session (Geneva, October 17th – November 2nd, 1935), allegato 6.

li Cfr. CZA, Fondo S25, file 2086.

lii Cfr. V. Pinto, Forza e diritto. Il sionismo revisionista e lo «spirito del mandato», «Teoria Politica», XX, 1, aprile 2004 (di prossima pubblicazione).

liii Cfr. JI, Fondo G4 (Presidenza della Nuova Organizzazione sionistica, 1935-1946), file 1/1, The New Zionist Organisation. Statement of Constistution and Aims (dicembre 1935).

liv Cfr. Protokoll der Verhandlungen des XIX. Zionisten Kongresses, Wien 1937.

lv Cfr. M.J. Cohen, Sir Arthur Wauchope, the Army, and the Rebellion in Palestine, 1936, «Middle Eastern Studies», IX, 1, January 1973, pp. 19-34; G. Sheffer, British Colonial Policy-Making Towards Palestine (1929-1939), «Middle Eastern Studies», XIV, 3, October 1978, pp. 307-322.

lvi Berchin, Petition submitted by the New Zionist Organization, London, New Zionist Press, 1936 (C.P.M. 1761).

lvii Isacco Sciaky (1896-1979), nato a Salonicco, immigrò in Italia nel 1917, si laureò in filosofia a Firenze e insegnò nelle scuole italiane all’estero dal 1932 al 1935, prima di ottenere incarichi accademici a Firenze (1937) e a Urbino (1938). Immigrò in Palestina nel 1939, dove insegnò a Tel Aviv e all’Università ebraica. Cfr. V. Pinto, Sionismo e idealismo. Note sull’incontro tra revisionismo sionista e attualismo militans nel pensiero e nell’opera di Isacco Sciaky, «L’Acropoli», III, 2, aprile 2002, pp. 131-164; id. (a cura di), Stato e libertà. Il carteggio Jabotinsky-Sciaky (1924-1939), postfazione di S. I. Minerbi, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2002.

lviii JI, Fondo P307 (Isacco Sciaky), file 3/2, lettera di Sciaky a Theodoli (13/3/1936), con acclusa lettera-memoriale di presentazione delle petizioni revisioniste.

lix La questione dei diritti civili e religiosi della minoranza araba erano stati presentati da Jabotinsky in quello che è forse il suo scritto politico più famoso: Il muro di ferro, pubblicato sul «Rasswjet» (Alba) nel novembre 1923. Tale scritto ha dato vita negli ultimi anni a un ripensamento generale della politica estera israeliana verso il mondo arabo. Cfr. V.Z. Jabotinsky, Il muro di ferro (Noi e gli arabi), in id., Dialogo sulla razza, cit., pp. 175-182; A. Shlaim, I. Lustick, To Build and to Be Built. Israel and the Hidden Logic of the Iron Wall, «Israel Studies», I, 1, Spring 1996, pp. 196-223; A. Shlaim, Il muro di ferro. Israele e il mondo arabo, Bologna, Il Ponte, 2003; V. Pinto, Politiche dell’interpretazione. Narrazioni del conflitto israelo-palestinese, «Studi Storici», XLIV, 2, aprile-giugno 2003, pp. 556 ss.

lx JI, Fondo P307 (Isacco Sciaky), file 3/2, lettera di Sciaky a Theodoli (13/3/1936), con acclusa lettera-memoriale di presentazione delle petizioni revisioniste.

lxi Ibidem.

lxii Cfr. League of Nations, Parmanent Mandates Commission, Minutes of the 29th session (Geneva, May 27th – June 12th, 1936).

lxiii Cfr. M.J. Cohen, Origins of the Arab States’ Involvement in Palestine, «Middle Eastern Studies», XIX, 3, July 1983, pp. 244-252.

lxiv Cfr. H. Lévy, Petition submitted on behalf of the Nessiut (Presidency), New Zionist Organisation, London 1936 (C.P.M. 1839).

lxv Cfr. V. Jabotinsky, Evidence submitted to the Palestine Royal Commission, House of Lords, London, February 11th 1937, London, New Zionist Press, 1937.

lxvi Cfr. Palestine. Royal Commission Report, July 1937, Cmd. 5479, p. 62.

lxvii Ivi, p. 103.

lxviii Cfr. League of Nations, Parmanent Mandates Commission, of the 32nd (extraordinary session) devoted to Palestine (July, 30th – August 18th, 1937).

lxix Cfr. I. Galnoor, The Partition of Palestine. Decision Crossroads in the Zionist Movement, Albany (New York), State University of New York Press, 1995

lxx Cfr. JI, Fondo A1 (Vladimir Jabotinsky), file 27/2, lettera di Jabotinsky a Jacobi (26/9/1937).

lxxi Cfr. N. Caplan, Futile Diplomacy, vol. II: Arab-Zionist Negotiations and the End of the Mandate, Frank Cass, London 1986 pp. 78-85.

lxxii Cfr. PRO, FO 371, file 20816, memoriale di Rendell sulla politica britannica in Palestina (27/10/1937).

lxxiii Cfr. ivi, file 20822, estratto delle conclusioni di Gabinetto (8/12/1937).

lxxiv Cfr. League of Nations, Parmanent Mandates Commission, Minutes of the 34th session (Geneva, June 8th – 23rd, 1938), allegati 7 e 11.

lxxv Cfr. PRO, FO 371, file 21863, memoriale (segreto) del segretario di stato per le colonie al Gabinetto (21/8/1938).

lxxvi Palestine. Partition Commission Report, October 1938, Cmd. 5854, p. 246.

lxxvii Cfr. Palestine. Statement by His Majesty’s Government in the United Kingdom, November 1938, Cmd. 5893.

lxxviii Cfr. Caplan, Futile Diplomacy, vol. II, cit., pp. 105-113.

lxxix Cfr. D. Ofer, Escaping the Holocaust. Illegal Immigration to the Land of Israel, 1939-1944, New York and Oxford, Oxford University Press, 1990, pp. 69-88.

lxxx Cfr. V. Jabotinsky, Vanitas vanitatum, in id., Verso lo Stato. Scritti e discorsi di politica sionista, a cura di L. Carpi, Roma, DAC (Istituto Superiore di Studi Ebraici), 1983, pp. 363-371; id., The Fata Morgan Land, «The Jewish Herald», 24 febbraio 1939.

lxxxi Cfr. Palestine. Statement of Policy, May 1939, Cmd. 6019.

lxxxii Sulla frenetica attività diplomatica revisionista nella primavera 1939 si veda: JI, Fondo G4, file 4/5; Fondo A1, file 1/29/2.

lxxxiii Nella seconda metà degli anni Trenta Jabotinsky coniò la teoria dei due antisemitismi: quello degli uomini e quello delle cose. Mentre il primo era di ascendenza culturale, il secondo derivava la sua forza dalla necessità ambientale che, specialmente nell’Europa orientale, stava sospingendo inesorabilmente gli ebrei ai margini della vita economica. A questo riguardo si veda J. Tomaszewski, Anti-Semitism of Men and Anti-Semitism of Things inside Vladimir Jabotinsky’s World of Ideas, in S. Kapralski (a cura di), The Jews in Poland, Cracow, Judaica Foundation, Center for Jewish Culture, 1999, vol. II.

lxxxiv Cfr. League of Nations, Parmanent Mandates Commission, Minutes of the 36th session (Geneva, June 8th – 29th, 1939).

lxxxv Cfr. E. Kaplan, Between East and West. Revisionism as a Mediterranean Ideology, in I. Davidson Kalmar and D.J. Penslar (ed.), Orientalism. The Jewish Dimension, Berkeley, Lebanon (New Hampshire), University of New England Press, 2004.

lxxxvi Cfr. V.Z. Jabotinsky, L’etica del “muro di ferro”, in id., Dialogo sulla razza, cit., pp. 183-186.

[Il saggio è del 2003. Avrebbe dovuto essere pubblicato in un volume collettaneo a cura di Marcella Simoni]

Citazione

Citazione:

Vincenzo Pinto, La Terra d'Israele. Il sionismo revisionista e il mandato palestinese, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", I, 1, gennaio 2012

url: http://www.freeebrei.com/home/anno-i-1-gennaio-giugno-2012/la-terra-disraele-il-sionismo-revisionista-e-il-mandato-palestinese