Lauria, Pietrafesa, La Shoah in Italia e le interpretazioni di Sarfatti e di Collotti

“Free Ebrei", VII, 2, luglio 2018 

Nel cono d'ombra 

La Shoah in Italia e le interpretazioni di Sarfatti e di Collotti 

di Pierpaolo Lauria e Lucia Pietrafesa

Abstract

Pierparolo Lauria and Lucia Pietrafesa summarize the Shoah interpretations by Michele Sarfatti and Enzo Collotti, who tried to revise the "classical" (and instrumental) view of Italian anti-Semitism by Renzo De Felice.

Premessa

 

Il gorgo della Shoah ha inghiottito 6 000 000 di ebrei nelle viscere del secolo breve, secondo la stima accreditata dalla maggior parte degli storici.[1] Di queste vite 7 000 erano di ebrei italiani, costituivano, come ha scritto Michele Sarfatti, “il segmento italiano della Shoah”.[2]

Per decenni nel nostro paese è prevalsa, nel senso comune storiografico e nell’immaginario collettivo di una vastissima parte dell’opinione pubblica, l’idea assolutoria, confortata anche dal mito del “bravo italiano”, che la Shoah toccasse l’Italia di striscio e in quanto vittima. Principalmente la pubblicistica, ma non solo, ha coltivato indisturbata l’immagine di un paese immune dalle colpe, assegnando il ruolo di carnefice al cattivo tedesco.

Il senso dell'innocenza è germogliato e ha prosperato anche grazie a una storiografia compiacente, distratta e silente, al pari di ampi settori della società italiana che hanno preferito considerare la Shoah una questione esclusivamente ebraica: stranieri le vittime e i carnefici, estranei gli italiani. 

Va aggiunta, sul piatto della bilancia della rimozione, anche la voce di chi invece, come R. De Felice dall’alto della sua autorità accademica e delle sue pionieristiche ricerche, non esitò a parlare avvalorando la tesi dell’estraneità italiana alla Shoah.

Fino agli anni '90 del Novecento ha osservato M. Toscano “appare difficile parlare di una vera e propria storiografia italiana sulla Shoah”.[3]

Enzo Collotti ha, inoltre, fatto notare che la volontà di occultare e nascondere il coinvolgimento italiano nella Shoah è alla base anche del silenzio e della mancata resa dei conti con la politica razzista del fascismo: “la ragione del lungo silenzio che ha coperto la politica razzista del regime fascista sta proprio nel risultato che si voleva evitare di pervenire al riconoscimento delle ampie corresponsabilità e complicità di parte italiana che hanno contribuito allo sterminio degli ebrei”.[4]

In questi ultimi trent’anni la situazione è però mutata, si è registrato un risveglio vigoroso degli studi che ha posto rimedio all'amnesia della ricerca, riuscendo a recuperare, almeno in parte, il terreno perduto rispetto alla produzione storiografica internazionale.[5]

All’interno della messe di ricerche prodotte negli ultimi decenni, che hanno squarciato il velo delle responsabilità italiane nella Shoah, le interpretazioni di Sarfatti e Collotti hanno rappresentato due fuochi intorno a cui è gravitata, si è misurata e si è alimentata la discussione critica italiana sulla persecuzione e sullo sterminio degli ebrei italiani.

 

Persecuzione, sterminio e interpretazioni

 

Se altrove in Europa gli ebrei erano una minoranza non trascurabile, ritenuta pericolosa in alcuni ambienti antisemiti, in Italia la loro era una presenza numericamente inconsistente, talmente sparuta che ben si prestava a diventare un facile bersaglio.[6]

La vigliaccheria e l’ingiustizia della persecuzione subita dagli ebrei è stata messa a nudo dalle parole d’accusa e di denuncia pronunciate il 18 ottobre 1941 dal presidente della Comunità ebraica di Venezia Giuseppe Jona: “Siamo un bersaglio senza difesa. Non possiamo reagire colla violenza, perché sarebbe provocare un massacro. Non possiamo reagire per le vie legali, perché saremmo inascoltati. Perciò ci si può pugnalare, colla offesa atroce di tutti i giorni, sicuri dell’impunità. Comunque io non sono venuto ad invocare generosità od equità. Vi ripeto, domando una cosa sola: sappiate serbare nell’avvenire maggiore misura, per rispetto a voi stessi”.[7]

L’esiguità numerica non impedì a Mussolini e seguaci di allarmare e di armare il Paese contro “il troppo ebreo”. In un articolo senza firma, intitolato Il troppo storpia, pubblicato sul Popolo d’Italia l’ultimo dell’anno del 1936, si annunciava una drastica inversione di rotta rispetto alle politiche d’integrazione del passato.

Mussolini, definendo l’“antisemitismo come conseguenza del troppo ebreo”, metteva le mani avanti e faceva ricadere la colpa di possibili azioni vessatorie e persecutorie sulle stesse vittime. In precedenza, negli anni ‘20 e nei primi anni ‘30, Mussolini aveva negato, in varie circostanze, la presenza in Italia dell’antisemitismo; per tenersi le mani libere, non l’aveva però mai escluso in via di principio, anzi avvertiva gli ebrei di “continuare a essere abbastanza intelligenti, per non suscitare l’antisemitismo nell’unico paese dove non c’è mai stato”.[8]

Gli ebrei nel calcolo politico di Mussolini rappresentavano una risorsa, una riserva da sfruttare in caso di bisogno: potevano servire da valvola di sfogo in cui convogliare e scaricare le tensioni e le ansie crescenti nel popolo oppure il piccione con cui allenarsi alla guerra.

Al principio del 1937, quindi, agli occhi del regime l’ebreo cominciò ad apparire di troppo ai fini del progetto di costruzione di un nuovo stato totalitario, ariano e razzista. Spuntava dappertutto, ingigantito a dismisura, decuplicato nel numero e accresciuto nella forza ad opera di una massiccia dose di propaganda; fu imbruttito nell'aspetto, raffigurato storpio e deforme e per suscitare oltre il ribrezzo anche lo spavento gli furono appiccicati pure coda e corna. L'ebreo ritornava ad essere, secondo vecchi stereotipi, una serpe in seno e una minaccia.

Il mostro fu partorito anche grazie all'apporto teorico del popolazionismo e del razzismo biologico[9]. Il primo non solo proclamava come base della forza di una nazione il principio del numero, ma anche la purezza e la difesa della razza: oltre che dalla quantità, la forza dipendeva anche dalla qualità della razza, ne conseguiva il corollario che la mescolanza delle razze, il meticciato, era il peggiore dei mali possibili, una degenerazione che indeboliva i popoli, consegnandoli alla decadenza e alla rovina. Il secondo asseriva l’esistenza di una ferrea gerarchia delle razze, una piramide che vedeva al vertice gli ariani, ai piedi neri e ebrei.

Su questa fantomatica entità, la razza, seguendo una tipica strategia retorica, si faceva leva per capovolgere e mascherare, in senso difensivo e vittimistico, intenzioni di tutt'altro segno. Infatti, la sacralità in cui era ammantata la razza consentiva di reagire contro chi attentava alla sua purezza virginale, il sommo bene che andava preservato e protetto ad ogni costo dai corpi esterni, le infettanti razze inferiori e “i bastardi”. Non è un caso che siano e si chiamino “bastardi” quelli che, in una sorta di contrappasso narrativo, danno la caccia ai nazisti ariani nel beffardo rovesciamento prodotto da Quentin Tarantino nel suo film Inglorious basterds.

Se è indubbio che dal 1938, per la prima volta nella storia dell’Italia unita, dei cittadini venivano declassati e perseguitati prima nei diritti e poi nelle vite, è altrettanto vero che ci fu una lunga storia di un’Italia disunita in cui l’ebreo era discriminato e tenuto ai margini della società. Non è inverosimile che le reminiscenze e gli echi della precedente situazione contribuissero a far accettare la legislazione antiebraica nella misura in cui non era qualcosa di inedito e alieno alla memoria degli italiani, sebbene le sue disposizioni fossero di una gravità inaudita, senza precedenti con il passato.[10] Si trattò, allora, di ricostruire il nemico, a misura fascista però, secondo le esigenze proprie di un regime totalitario.

Umberto Eco, riflettendo sui meccanismi di costruzione del nemico, notava come il diverso non direttamente minaccioso - magari pure debole e innocuo, come l’ebreo è - ben si prestava a svolgere il ruolo di nemico di cui servirsi per perseguire secondi e reconditi fini: “Sin dall’inizio vengono costruiti come nemici non tanto i diversi che ci minacciano direttamente (come sarebbe il caso dei barbari), bensì coloro che qualcuno ha interesse a rappresentare come minacciosi anche se non ci minacciano direttamente, così che non tanto la loro minacciosità ne faccia risalire la diversità, ma la loro diversità diventi segno di minacciosità”.[11]

Nel cantiere della propaganda fascista il meccanismo descritto da Eco era pienamente operante. La diversità ebraica, vera o presunta o inventata che fosse, veniva di conseguenza enfatizzata per procurare artificiosamente i segni, le stigmate, dell’ostilità.

La caricatura dell'ebreo prendeva così forma. Perdendo la sua individualità storica, l'ebreo si trovava catapultato in uno stereotipo collettivo e negativo, quello del nemico interno e cospiratore, poiché la teoria del complotto è componente dell'invenzione.[12]

La costruzione dell’ebreo di cartapesta era in Italia, a parere di M. Sarfatti, impresa non semplice, perché il terreno, la società italiana, in condizioni naturali mal si adattava alla coltivazione della pianta velenosa dell'antiebraismo, al contrario dei campi ricchi di humus per questo genere di semina dei paesi dell’Europa orientale.[13]

Nell’interpretazione di Sarfatti, il fascismo, che aveva in mano le leve del potere, riuscì a superare e a rimuovere tutti gli inconvenienti che si frapponevano ai suoi progetti, mobilitando e dispiegando gli apparati di coercizione e di propaganda.

Sulla questione del terreno di coltura antisemita si consuma un primo parziale, ma significativo strappo, tra le interpretazioni di Michele Sarfatti ed Enzo Collotti.

Mentre Sarfatti considera il terreno aspro, bisognoso di essere dissodato, Collotti lo trova, alla vigilia della legislazione antisemita, già pronto per essere coltivato, arato dai riverberi dell'antigiudaismo cattolico e dalla politica imperialista e razzista intrapresa dal regime: “Nel 1937 l’esplosione della campagna contro gli ebrei, nel contesto della polemica contro le democrazie definite schiave della massoneria e del giudaismo, e del razzismo nelle colonie, cadeva in un clima di “spirito pubblico” già predisposto ad accettare il discorso razzista e in cui fra l’altro era ancora viva l’eco di un’antica componente di antigiudaismo cattolico”.[14]

Entrambi gli studiosi concordano, però, su un punto fondamentale: l'iniziativa partì dall'alto, dal centro del sistema di potere: i bacilli del morbo, capace di espandersi a macchia d’olio a tal punto da sfociare in una epidemia, erano stati iniettati dal potere politico che aveva promosso, organizzato e diretto la campagna razzista e antisemita, senza ricevere spinte o pressioni popolari.

Mussolini e i suoi accoliti prima invocarono e poi agitarono sinistri spettri, attraverso una massiccia e aggressiva campagna di propaganda razziale, una crociata lanciata nel 1937 attraverso la rivista La difesa della razza. A ruota seguì una legislazione discriminatoria molto ben architettata e severa.

L'intero corpus normativo era formato da un pacchetto di leggi, le cui principali furono promulgate d’un fiato tra il settembre e il novembre 1938. Le leggi furono tutte promulgate con l'assenso del re, Vittorio Emanuele III, che non si sottrasse né ebbe tentennamenti nel firmare gli atti legislativi che gli venivano sottoposti, con ciò rinnegando la tradizione liberale e risorgimentale della sua dinastia.

L’onda d'urto antisemita travolse i residui anticorpi democratici, logorati e fiaccati dai duri anni della dittatura. Nel paese prevalse l’obbedienza, inculcata dal regime e propagandata come suprema virtù civile.

Le obiezioni in generale furono marginali. La protesta si levò soltanto dall’esilio degli antifascisti; in patria, oltre allo spirito gregario, dilagarono ovunque e largamente conformismo e indifferenza.

L’amaro commento di Ian Kershaw che “la strada per Auschwitz fu costruita dall’odio, ma lastricata dall’indifferenza” trova conferma anche per l'Italia.[15]

“Così – ha scritto Sarfatti – l’antisemitismo attivo, praticato senz’altro da una minoranza della popolazione, venne affiancato da una fascia di indifferenza passiva, ben più diffusa del primo, ma di fatto sempre più complice di esse. E, giorno dopo giorno, il regime fascista accrebbe il tasso medio di antisemitismo della società nazionale”.[16]

Sulla forza subdola dell’indifferenza come agente di storia restano memorabili le profetiche parole scritte nel 1917 da Antonio Gramsci: “Odio gli indifferenti […] L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera […] Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare”.[17]

Quanto al conformismo valga l’autorevole e sofferta testimonianza di Norberto Bobbio che in una lettera allo storico G. Turi confessò le sue debolezze e i suoi cedimenti di fronte alla soverchiante prepotenza della dittatura fascista: “Gli anni di cui parla nell’articolo sugli intellettuali e la politica razziale del fascismo sono anni di vergogna, anche per coloro che hanno taciuto, come io e tutti i miei colleghi e amici non fascisti abbiamo taciuto (intendo pubblicamente). Perché? Perché parlare, anche dire una sola parola di disapprovazione in pubblico, voleva dire perdere il proprio posto. Il conformismo per interesse personale è uno degli effetti perversi delle dittature. Non mi sottraggo, e non mi sono mai sottratto, alla dichiarazione di questa colpa, e dei benefici che io stesso ho tratto dalla espulsione dei professori ebrei [...] senza l’espulsione di quattro professori ebrei nella mia disciplina, non sarei mai arrivato così giovane all’Università di Padova”.[18]

La dittatura in alcuni casi generò, come scrive Bobbio, in altri favorì la peste morale del conformismo che calcola e soppesa opportunisticamente le convenienze e i vantaggi personali che si possono ricavare dalle disgrazie altrui, sotterrando sotto un cumulo di cinismo ogni soffio di umana solidarietà.

In taluni casi più che il conformismo o l'indifferenza fu la paura a vincere e a reprimere nel foro interiore l’indignazione della gente comune che però di tanto in tanto affiorò in piccoli gesti di ribellione: “La cosiddetta gente comune (ossia coloro che non erano fascisti convinti o antifascisti) fu costretta a misurarsi con la propaganda attivata dal regime. Esistono varie tracce di contestazioni, minoritarie e non pubbliche, attuate dentro la penisola da intellettuali e non”.[19]

Tra questa gente, alcuni si riveleranno giusti. Accettando rischi personali e affrontando grandi pericoli, costoro non fecero mancare l’aiuto e il soccorso a uomini e a donne che continuavano a ritenere fratelli.

In questo quadro, risulta ancora complesso spiegare le ragioni del silenzio del Vaticano. La Chiesa, infatti, manteneva intatta nel paese la sua capillare rete organizzativa e quindi una propria autonomia e forza, e proprio in virtù di questo entrava sovente in attrito con la tendenza bulimica del fascismo.[20]

Nell’infermità che colpì il capo della chiesa e le alte sfere ecclesiastiche giocarono probabilmente  una serie di fattori: il credito di cui, nonostante qualche screzio, godeva nella curia il conciliatore Mussolini, l'uomo che aveva chiuso l’avvilente questione romana, per cui non vi era alcuna intenzione di mettere a rischio i patti siglati in Laterano per questioni considerate marginali e che non toccavano direttamente gli interessi vaticani; il secondo motivo è di ordine ideologico: siccome Mussolini era la guardia svizzera in camicia nera, baluardo contro il pericolo rosso, era ritenuto saggio non interferire nei suoi piani e non contrariare i fascisti su questioni giudicate, per l’appunto, secondarie. Agì, infine, una forte spinta antiebraica, presente in particolare negli ambienti del potente ordine dei Gesuiti, che vedeva di buon occhio e assecondava, dove poteva, la persecuzione del popolo di Abramo.

Difronte alle leggi antiebraiche fasciste, dalla Santa Sede si abbozzò una flebile protesta per il divieto dei matrimoni misti, sebbene il pontefice Pio XI avesse mostrato in vari occasioni segni di inquietudine e d’insofferenza nei confronti del razzismo, arrivando a prime parole di condanna dell’antisemitismo.[21] Con il suo successore, Pio XII, chiusosi in un enigmatico silenzio, non più parola si proferì sulle persecuzioni e sullo sterminio degli ebrei che nel frattempo era sopraggiunto.[22]

Dei silenzi di papa Pacelli si è parlato a lungo: c’è chi vi ha visto semplicisticamente un silenzio assenso di matrice antisemita[23]; chi un silenzio di convenienza per il timore di eventuali ritorsioni e violenze contro i cattolici in Germania e negli altri paesi caduti sotto il giogo nazista, chi, come Giovanni Miccoli, l’ossequio a una politica diplomatica di tradizionale equidistanza tra le parti in guerra – tant’è che il Vaticano fu sia rifugio di antifascisti e di ebrei sia stazione di transito di fuggiaschi gerarchi nazisti in direzione Sudamerica. La diplomazia vaticana, in quest'ultima spiegazione, sembrerebbe incagliata al congresso di Vienna, mostrando una drammatica incomprensione della situazione e una sottovalutazione del fenomeno nazifascista.[24] C’è chi, tra l'ingenuo e il malizioso, allude a un tacito dissenso che un’autorità pubblica avrebbe fatto bene a esplicitare perché, come ha fatto osservare Amos Luzzatto, “pesò anche il silenzio”[25]; c'è anche chi, come il filosofo Jacques Maritain sulla base di una testimonianza quantomeno controversa, vi ha scorto un silenzio doveroso per evitare che l’intervento del papa provocasse guai peggiori agli ebrei.

Maritain riporta una confidenza (il confidente, sospetta R. Pertici, potrebbe addirittura essere il Sostituto Segretario di Stato Giovanni Battista Montini, il futuro papa Paolo VI), raccolta fra le segrete mura del Vaticano all’ebreo francese André Chouraqui. Il confidente scrive in una lettera del 17 gennaio 1969: “Quanto a Pio XII, sarebbe gravemente ingiusto attribuire a indifferenza il suo silenzio nell’ora della persecuzione hitleriana: a Roma mi sono informato in alto loco sulle ragioni di questo silenzio, e so che è stato dovuto solo alla paura di aumentare gravemente la persecuzione, se avesse alzato la voce. Il papa aveva consultato alcune comunità ebraiche tedesche, ed è proprio questo che esse avevano risposto. Se abbia avuto torto o ragione a seguire questo parere e ad astenersi da una grande testimonianza che avrebbe auspicato rendere e che sarebbe stata a sua gloria, ma che sarebbe costata migliaia di vite umane sacrificate in sovrappiù, chi di noi può giudicarlo? Il suo motivo è stato quello che ha ritenuto un obbligo di coscienza, ed era un motivo profondamente umano”.[26]

Particolarmente istruttivo è il caso di Giovanni Palatucci per comprendere i tentativi fatti dal revisionismo cattolico di riscrivere la storia al fine di scagionare dalle accuse e riabilitare i vertici della chiesa di allora. Serviva un santo a cui aggrapparsi. Palatucci, alto funzionario della questura di Fiume, innegabilmente e meritoriamente, aiutò un numero imprecisato, ma con ogni probabilità non molto elevato, di ebrei a sfuggire alla deportazione, pagando il suo gesto con la morte a Dachau.

Siccome Palatucci era cattolico praticante e nipote del potente vescovo di Campagna, una località nei pressi di Salerno, scattò un bizzarro sillogismo, che fa della sua azione e del suo sacrificio un anello, finora mancante, di una presunta catena forgiata dai vertici del mondo cattolico per il salvataggio degli ebrei.

Lo studio critico di Marco Coslovich ha smontato facilmente con gli strumenti della critica la catena inventata e ha mandato in frantumi il tentativo di redenzione a buon mercato operato dalla pubblicistica cattolica.[27]

Sulla grottesca vicenda è intervenuto anche Enzo Collotti, sostenendo che “è buon diritto della Chiesa e del mondo cattolico mettere in evidenza e difendere la parte da essi svolta nell’azione di soccorso agli ebrei e ai perseguitati in generale, ma questo non autorizza né indebite generalizzazioni né salti logici che trasferiscono il comportamento di singoli appartenenti alla gerarchia o di singole istituzioni religiose al vertice delle gerarchie ecclesiastiche e vaticane”.[28] A ognuno il suo, dunque, per evitare di fare di tutta l’erba un fascio.

Il 14 luglio del 1938 fu pubblicato sul Popolo d’Italia il manifesto ufficiale del razzismo fascista, Il Fascismo e i problemi della razza, assai più noto con il titolo volutamente fuorviante di Manifesto degli scienziati razzisti. Il manifesto enunciava i principi fondamentali della nuova dottrina, a partire da quello principe: “Il concetto di razza è concetto puramente biologico”.[29] Al punto nove si affermava che “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana.[30]

Il filo del processo risorgimentale di integrazione ed emancipazione che aveva incluso gli ebrei nello Stato italiano qui si spezza definitivamente, in questo momento si cede il passo a una nuova politica di separazione e di esclusione.

Fu uno strappo drammatico, un trauma. Su questo punto le interpretazioni di Collotti e di Sarfatti collimano. Lo storico fiorentino, sottolineando la rottura del patto di eguale cittadinanza stretto durante il Risorgimento (il filo verrà riannodato nel momento dell’ingresso degli ebrei nelle fila della Resistenza), in velata polemica con Ernesto Galli della Loggia, ha affermato, che “Fu allora, nell’autunno del 1938, che l’Italia cessò di essere la nazione che era stata”.[31]

Nella radiografia di Collotti la prima lesione della rottura si fa però risalire al Concordato del 1929: “Il regime fascista pervenne di diritto e di fatto alla revoca dell’emancipazione degli ebrei, ovvero al diniego della loro uguaglianza […] già a seguito del Concordato del 1929 che aveva accordato al culto israelitico lo statuto di semplice “culto ammesso” […] era stato intaccata la piena parificazione degli ebrei italiani al resto dei cittadini italiani, una prima lesione alla realtà dell’emancipazione che era stata generalizzata con l’unità d’Italia”.[32]

Nell’agosto 1938 venne predisposto ed effettuato “il censimento speciale”. L’impostazione del censimento era dichiaratamente razzista perché riguardava solo gli ebrei e non la totalità della popolazione. I censiti furono tutte le persone che avevano almeno un genitore ebreo o ex ebreo. Sulla base di questo criterio furono censiti 58 412 individui, ridotti a circa 51 100, di cui 46 656 ebrei effettivi e 4500 non ebrei, per la scrematura seguita all’introduzione di un diverso parametro di classificazione in sede di elaborazione legislativa, fermo restando, naturalmente, il criterio razzista generale.[33]

“Indipendentemente da quanto oggi possa turbare – ha affermato Sarfatti – la base della normativa fascista antiebraica fu il razzismo biologico, ovvero l’analisi del sangue “posseduto” dagli italiani”.[34]

Appartenenti alla razza ebraica furono definiti tutti quelli che avevano entrambi i genitori ebrei, a prescindere dalla loro fede, e una parte di quelli nati da matrimoni misti, sempre indifferentemente dalla religione professata. Per questi ultimi, dopo una fase di oscillazioni, si stabilì, per disposizione amministrativa, che chiunque avesse “il 75 % di sangue ebraico” ovvero “più del 50% di sangue ebraico” venisse classificato “di razza ebraica”.[35]

La legislazione antiebraica italiana fu a maglie strette, persino più rigida di quella nazista, non prevedendo la categoria dei “misti” tra ariani ed ebrei.

Delle eccezioni furono previste, minime esenzioni chiamate discriminazioni, per alcuni nuclei familiari che annoveravano componenti caduti in guerra o martiri della causa fascista o per particolari e assai discrezionali “benemerenze”. Gli ebrei venivano, attraverso questo setaccio razziale, retrocessi a cittadini di seconda classe, i loro diritti amputati, il loro patrimonio saccheggiato, la loro dignità offesa.

Dopo la sperimentazione nel laboratorio coloniale del corno d'Africa, si instaurava sul suolo italiano un regime di apartheid. L’intero corpus legislativo si basava sul paradigma antisemita di colpa dell’ebreo, reo per natura, o meglio per razza, necessariamente e giustamente punito.

I provvedimenti riguardarono innanzitutto la scuola, con l'espulsione dalla scuola pubblica di studenti e insegnanti. Poi colpirono gli ebrei stranieri e a seguire gli ebrei italiani, perseguendo la strategia di identificare l'ebreo con lo straniero. Nel settembre 1938, il regime vietò agli ebrei stranieri nuovi ingressi. Altri successivi provvedimenti, a guerra inoltrata, riguardarono gli ebrei tedeschi e centro-europei, sotto gli artigli di Hitler, a cui furono proibiti il soggiorno e il transito sul suolo italiano.[36] Dopo l’ingresso in guerra fu avviata la politica dell’internamento.[37]

Animi sovraeccitati dalla retorica della patria in pericolo favorirono l’introduzione di tale misura contro gli ebrei stranieri, sospettati di spionaggio e intelligenza con il nemico, estesa poi anche agli ebrei italiani classificati come pericolosi. Nel corso della guerra tutti i provvedimenti antiebraici vennero inaspriti.

Tra i principali provvedimenti c'erano, oltre all' esclusione dalla scuola e l'allontanamento dai pubblici uffici, il divieto di prestare servizio militare, di esercitare l’ufficio di tutore, di essere proprietari di aziende di interesse nazionale, di essere proprietari di terreni e fabbricati.

Sono misure che perseguono l'obbiettivo di configurare l'ebreo come un corpo estraneo rispetto alla comunità nazionale.

Dal pregiudizio dell’ebreo infido e traditore discendeva che non dovesse militare nell’esercito; non dovesse, per la stessa ragione, ricoprire uffici pubblici e possedere imprese di interesse nazionale; lo stereotipo dell’avidità ebraica era il giusto pretesto per cacciare gli ebrei dalle banche e dalle assicurazioni, ma anche dal commercio e dalla vendita di oggetti preziosi.

In tutti questi casi, corollario implicito della dottrina razzista, era una precisa corrispondenza tra la gerarchia razziale e i gradini della scala sociale, per cui i ruoli di responsabilità e i posti più prestigiosi e meglio remunerati spettavano di diritto agli ariani.

In alcune professioni, l’avvocatura e il notariato, agli ebrei fu consentito di continuare a esercitare all’interno di un regime di apartheid, fornendo, cioè, consulenza e servizi esclusivamente agli “appartenenti alla razza ebraica”.

Nel settore del commercio, colpito con una certa durezza, il divieto di esercizio per certi mestieri fu totale. Piuttosto che la ghettizzazione, si preferì il divieto assoluto di svolgere il lavoro: tutto il lucroso settore divenne così monopolio ariano.

Il lavoro obbligatorio, nel burocratese fascista detto precettazione, fu un altro fardello d’infamia e umiliazione che colpì gli ebrei, introdotto con il lasciapassare del tempo di guerra. Questo genere di lavoro era in realtà una gogna pubblica, con scarsa o nessuna utilità pratica; aveva soprattutto un valore simbolico, era un contrappasso, la pena che certificava la colpa genetica degli ebrei, e rimarcava una volta di più la distinzione tra servi e padroni. La corvée pubblica rappresentava anche la giusta punizione inflitta “agli ebrei avidi e avari”, che lavoravano solo per se stessi e per il proprio tornaconto. 

Per cristallizzare le razze, fu imposto il divieto patrizio dei matrimoni misti. Agli ariani furono vietati anche gli incroci matrimoniali con gli africani e le convivenze di fatto, il cosiddetto madamato. Proibire le unioni tra razze garantiva il perpetuarsi dell’ordine delle caste. Il matrimonio misto, per qualunque politica razzista, è sempre una sovversione inaccettabile dell’ordine naturale delle cose.

Tutte le norme persecutorie, compresa la confisca dei beni degli ebrei, attuata nella seconda fase della persecuzione, quando si passò ad attentare alle vite e alle cose e non più solo ai diritti degli ebrei, furono applicate con grande rigore e severità.

Sulla questione, fortemente inquinata dalla propaganda politica, dell’attribuzione alla Germania della paternità della legislazione antiebraica italiana, attraverso un’imposizione forzata o un’influenza diretta del Terzo Reich, le opinioni di Collotti e Sarfatti convergono.

Entrambi, infatti, respingono decisamente una siffatta tesi, che ai loro occhi non è più che una favoletta, stracolma di miseria e viltà, in quanto tenta di scaricare sui tedeschi l'intero peso del misfatto, compresa la quota parte di responsabilità italiana.

In tal modo ambedue rispondono, implicitamente, a Renzo De Felice, ridimensionando la portata dell’alleanza con la Germania, che lo storico reatino aveva sopravalutato e assunto a causa principale della svolta antisemita di Mussolini nel suo studio pionieristico sul rapporto tra fascismo ed ebrei, relegando gli altri fattori in gioco ai margini della sua interpretazione.[38]

Sarfatti, rivolgendesi implicitamente anche a lui, ha osservato: “Ai fabbricanti di consolazioni aventi nazionalità non tedesca, piace affermare che la Germania nazista impose agli altri Stati l’adozione di legislazioni antiebraiche. In realtà sappiamo che tali imposizioni non ebbero luogo. Da un lato nessun documento le attesta. Dall’altro, qualora fossero esistete, le deboli Romania, Ungheria e Slovacchia avrebbero dovuto adottare sin dal 1938-1939 il criterio classificatorio biologico. E, qualora esse fossero esistite, l’Italia non avrebbe emanato nel settembre-novembre 1938 norme talora più gravi di quelle che in quel preciso momento vigevano in Germania […] e la debole Francia di Vichy avrebbe finito anch’essa, come tutti gli altri più forti governi antisemiti, per stabilire nel 1940-1944 il divieto di nuovi matrimoni “razzialmente misti”.[39] Non c’è traccia di forzature e pressioni tedesche sull’Italia; Mussolini non subì nessun ricatto e nessuna costrizione.

Da parte sua Collotti ha affermato che “la campagna contro gli ebrei e la legislazione contro di essi non furono introdotte dal fascismo per imposizione della Germania. Esse furono iniziativa e prodotto autonomo del regime fascista”, chiarendo che “il ruolo della Germania nella proclamazione delle leggi fasciste consiste nella sua influenza indiretta, mediata più che immediata, in quanto essa offriva la cornice europea entro la quale veniva a collocarsi la persecuzione in Italia, non per semplice opportunismo del regime nei confronti del più potente partner dell’Asse, ma per consapevole scelta politica”.[40]

Contò, chiarisce Sarfatti, soprattutto l'esempio: “Questo fu, in quegli anni, il tremendo ruolo continentale della Germania nazista”.[41] Essa indicò al resto d’Europa la strada per riportare indietro le lancette dell'orologio della storia: “Berlino mostrò che, dopo le ferrovie e il telegrafo, dopo la Rivoluzione francese e le costituzioni liberali, era possibile tornare indietro di oltre duecento anni: uno Stato moderno e avanzato poteva legiferare contro l’eguaglianza dei propri cittadini, giungendo a revocare ad alcuni di essi lo stesso diritto di cittadinanza”.[42]

L'alibi tedesco conduceva a due effetti perversi e mistificanti: da un lato, l'accanirsi contro i nazisti spostava l'attenzione dal nesso che collegava, chiamando in causa i fascisti, la prima fase discriminatoria, presupposto necessario e fondamentale, con la seconda fase sterminazionista o, per dirla, con le incisive espressioni di Sarfatti, “la persecuzione dei diritti con la persecuzione delle vite”, dall’altro la deresponsabilizzazione della legislazione fascista attenuava fino a far scomparire la corresponsabilità della Repubblica di Salò nella deportazione.

Anche sulla data in cui fu presa la decisione di introdurre in Italia una legislazione antiebraica i due storici concordano: tra la fine del 1935 e l’inizio del 1937 maturò la svolta; sono gli anni del picco del consenso raggiunto dal regime, fatto che agevolò non poco l’operazione.

La decisione era parte integrante del progetto dell’italiano nuovo, che era stato varato e messo in cantiere dal demiurgo Mussolini in seno al più vasto programma di trasformazione dell'intera società italiana in senso fascista. Far spazio all'italiano nuovo significava estirpare alla radice, senza alcuna possibilità di compromesso, il vecchio italiano, imbelle, panciafichista, borghese.[43]

All’orizzonte si profilavano sfide epocali da affrontare contro nemici letali: il bolscevismo, parto mostruoso dell’ebraismo, e il capitalismo plutocratico e individualista, anch’esso affiliato al giudaismo. Occorreva essere all’altezza dei tempi e l’italiano di ieri non lo era.

Laddove Sarfatti e Colotti sono fortemente in disaccordo è sulle ragioni che portarono alla legislazione antiebraica, dunque sull’interpretazione di fondo da dare al fenomeno storico.

Per Sarfatti la scelta di perseguitare gli ebrei, “sebbene fosse interrelata alle altre linee di azioni di governo (processo di alleanza con la Germania nazista, sviluppo di una politica razzistica indirizzata soprattutto contro gli africani, i neri e il “meticciato”, costruzione di una “dignità imperiale” e di un “carattere fascista” collettivi, strutturazione del totalitarismo ecc.), costituì un’azione politica autonoma, attinente alla politica interna e non a quella estera – fin qua, tolta la parentesi di cui diremo, il cammino dei due studiosi, come in precedenza abbiamo rilevato, è comune, ma da qui in avanti diverge ampiamente –, con motivazioni riconducibili o alla crescita dell’antiebraismo nel paese, nel gruppo dirigente e in Benito Mussolini, o all’ostilità di questi ultimi per l’autonomia mostrata in più occasioni dagli ebrei”.[44]

A peggiorare la già precaria situazione degli ebrei nei confronti del fascismo, sempre secondo Sarfatti, erano intervenuti la disobbedienza delle strutture associative ebraiche – le Comunità israelitiche e l’Ucii – verso la politica di inquadramento e disciplinamento del regime; il fallimento del tentativo di mediazione della dirigenza dell’ebraismo italiano per il ritiro delle sanzioni contro l’aggressione dell’Etiopia nel 1935; la solidarietà mostrata ai confratelli tedeschi vittime del nazismo, un atteggiamento, a dir poco, fastidioso e irritante, non in linea con i nuovi indirizzi del governo fascista in politica estera. La tesi di fondo che Sostiene Sarfatti è che “in sostanza le leggi antiebraiche furono non un atto strumentale ad altre politiche”, bensì un atto avente prima di tutto “finalità antiebraica”[45].

Tesi ribadita anche quando spiega che “l’obiettivo generale” della legislazione, la soluzione a ciò che era diventata “la questione ebraica” o ridiventato “il problema ebraico”, era la disebreizzazione e l’antisemitizzazione del Paese, “l’eliminazione degli ebrei, italiani e stranieri, dal territorio e dalla società italiana”, a cui conseguiva di riflesso quello arianizzatore concernente la società italiana in vista della realizzazione di uno Stato ariano e razzista.[46]

Se per Sarfatti rendere la società e la nazione del tutto ariane erano solo effetti, quasi collaterali, rispetto al vero obbiettivo fascista: punire gli ebrei per vendicarsi di alcune posizioni assunte e, soprattutto, per soddisfare le pulsioni e i sentimenti antisemiti che covavano in Mussolini e in parte del gruppo dirigente, per Collotti è vero il contrario: il fine di Mussolini era principalmente di natura politica e mirava alla costruzione, attraverso il razzismo, che comprendeva anche l’antisemitismo -concetto chiave nell'ottica di Sarfatti con cui vuol rimarcare la specificità della persecuzione e che tiene distinto e non fa confluire in quello di razzismo- di una società omogenea e uniforme.[47]

Per Collotti la natura delle leggi razziali era eminentemente strumentale, mirava a ottenere una maggiore presa sulla società italiana da parte del regime, a compattare e rinserrare i ranghi in vista delle future sfide che attendevano l'Italia fascista: “La campagna contro gli ebrei rivela un carattere essenzialmente strumentale, per creare l’obiettivo contro il quale convogliare la mobilitazione popolare per una più rigida fascistizzazione della società”.[48]

A suo parere le leggi razziali del 1938 assumono senso soltanto all’interno di un complesso e articolato quadro storico, le cui direttrici principali sono la politica di potenza, l’imperialismo e la costruzione dell’italiano nuovo che implicavano la fascistizzazione della società e l’accelerazione in direzione di un totalitarismo compiuto.

A metà degli anni '30, il fascismo aveva promosso una nuova fase politica, caratterizzata da ambizione imperiale e dal desiderio di modificare gli equilibri internazionali in favore di un nuovo ordine antidemocratico, che avrebbe dovuto collocare l’Italia nel novero delle grandi potenze. Il regime, dunque, si schierava con la Germania hitleriana intorno a un programma politico di revisione della carta d’Europa e dell’ordine uscito dal primo conflitto mondiale, anche attraverso l'uso della forza e a costo di una nuova guerra.

La politica di potenza e l’imperialismo sono gli assi cartesiani, le coordinate lungo cui si delineeranno e si svilupperanno, in questo periodo, le traiettorie politiche del fascismo.[49]

Il nesso centrale tra imperialismo e razzismo è confermato anche da alcune esplicite asserzioni che si trovano nell'incipit della Dichiarazione sulla razza, redatta dal supremo organo del fascismo, il Gran Consiglio, nella seduta del 6 ottobre 1938, quando i primi provvedimenti antiebraici erano stati vergati ed erano già entrati in vigore: “Il Gran Consiglio del Fascismo, in seguito alla conquista dell’Impero, dichiara l’attualità urgente dei problemi razziali e la necessità di una coscienza razziale. Ricorda che il Fascismo ha svolto da sedici anni e svolge un’attività positiva, diretta al miglioramento quantitativo e qualitativo della razza italiana, miglioramento che potrebbe essere gravemente compromesso, con conseguenze politiche incalcolabili, da incroci e imbastardimenti”.[50]

Alla base dell’imperialismo c’è, dunque, l’ideologia del razzismo biologico che a sua volta fa da cornice anche all’antisemitismo fascista, il quale si innesta sul sostrato dell'antigiudaismo cattolico.

Il fascismo, oltre a ricavare vantaggio dall’ antigiudaismo cattolico, trae alimento da una tradizione di studi razziali antecedenti la politica razzista.[51] È questo un punto su cui Collotti non si sofferma molto, mentre insiste sul fatto che i materiali del razzismo biologico sono stati forgiati e testati al fuoco della legislazione coloniale, trapiantati nella legislazione antiebraica e provenienti dal “retaggio nazionalista che esaltava la superiorità della stirpe come fatto biologico e non solo culturale” e dalle pratiche di confine e di oltremare del fascismo: “dal razzismo nei confronti delle minoranze nazionali entrate sotto la sovranità dello Stato italiano dopo la prima guerra mondiale (con particolare riferimento alle minoranze slave della Venezia Giulia, ma non solo a esse), al razzismo praticato nei territori coloniali”.[52]

La politica razzista del fascismo, si configura, spiega Collotti, come il punto di convergenza e di cerniera di diverse spinte  culturali e politiche: “la guerra d’aggressione contro l’Abissinia nel 1935-1936 non fu l’inizio ma l’occasione per mettere a fuoco una politica razzista dell’Italia fascista, che poteva portare a un momento di sintesi e di unificazione di esperienze diverse”.[53]

Fin dall’inizio degli anni ‘30 la polemica contro le vecchie potenze, Inghilterra e Francia, che impedivano l’espansionismo italiano, fu combattuta anche a colpi di argomenti razzisti: l’accusa, rivolta specialmente contro la Francia, era di pugnalare l’Occidente con le politiche di naturalizzazione dei nativi delle colonie. Il razzismo diventerà sempre più, nel corso di questo decennio, un elemento di discrimine tra gli schieramenti politici e militari che si andavano formando. Nell'ottica di Collotti, il punto di non ritorno che sfocia nel razzismo di Stato è rappresentato dall'occupazione dell’Etiopia e dalla successiva instaurazione dell’Impero. Come ha dichiarato in una intervista rilasciata a Bruno Gravagnuolo, la politica imperialista condurrà, insieme ad altri fattori, all’adozione del razzismo come idea trainante e collante sociale: “Il momento di svolta è quello successivo alla proclamazione dell’Impero. Il regime vuole darsi un volto nuovo, capace di galvanizzare la popolazione. E il razzismo è un richiamo forte e serve alla preparazione psicologica della guerra, una guerra permanente, dall’Etiopia, alla Spagna, al 1940, con alle spalle la riconquista della Libia. Occorre l’idea di un primato ariano e romano dell’Italia. Per esempio il “dissidente” Bottai è uno dei più accaniti a rivendicarlo e a farlo applicare nella società. Il fascismo ambiva a gerarchizzare i popoli e ad affermare una sua identità transazionale superiore. Sicché, per meglio, affrontare la sfida globale si attrezza in senso razzistico”.[54]

La campagna del 1938, infatti, non incontrò particolari ostacoli e resistenze perché cadde in un clima pubblico già anestetizzato dall’impresa etiopica - il legame tra razzismo coloniale e razzismo antiebraico è inscindibile -, piuttosto ben disposto in ampie fasce della popolazione ad accogliere il discorso razzista: “Stabilire comunque il nesso tra razzismo coloniale e razzismo antiebraico è la continuità fra di essi è fondamentale per rendersi conto dell’assuefazione della maggioranza della popolazione al discorso razzista e dell’assoluta mancanza di aperte manifestazioni di dissenso, al di là di casi isolati”.[55]

Oltre all’imperialismo e alla politica di potenza, entrarono pesantemente in gioco nella svolta razzista e nel montare dell’antiebraismo,  altri due fondamentali fattori della politica fascista della metà degli anni ‘30, tra loro strettamente intrecciati: la costruzione dell’ “italiano nuovo”, un soldatino di piombo, uscito dallo stampino dell'ingegneria sociale del regime, ciecamente obbediente alle autorità e fanaticamente orgoglioso del suo destino di dominatore, e l’accelerazione totalitaria del regime, avviata dopo il 1936, che implicava la lotta al diverso, e l’ebreo, nell’Italia di allora, era il più diverso che c'era.

Riguardo al primo aspetto, Collotti rimarca come il fascismo cerchi un’identità nazionale forte per mezzo del razzismo e dell’espediente del nemico interno, poiché i nemici esterni, troppo lontani, non erano in grado di smuovere e compattare gli animi degli italiani: “L’antisemitismo fascista si colloca così al crocevia tra l’inserimento, con lotta ai “diversi”, in un motivo tipico del pensiero antidemocratico e antiegualitario della destra fascista e filofascista e la ricerca di un’identità forte dell’“italiano nuovo”, tipica della fase di costruzione dell’impero […] L’appello al razzismo coloniale non sembra sufficiente a realizzare la mobilitazione razzista di cui il regime aveva bisogno per rilanciare la spinta volontarista e rafforzare il consenso intorno a sé. La possibilità di usare direttamente la mobilitazione all’interno della stessa società italiana offerta dal fatto di additare l’ebreo come “il nemico fra noi”, fu la ragione ultima della riesumazione e addirittura dell’invenzione di un pericolo ebraico. Sono i mesi in cui Mussolini persegue una “rivoluzione del costume” degli italiani, che parla di una “terza ondata” della rivoluzione fascista […] Contemporaneamente la campagna contro l’ebreo assume la funzione di creare un “nemico”, e al di là del nemico effettivo, la possibilità di agitare l’immagine di un nemico nel momento in cui, già alla fine del ’38, il regime marcia consapevolmente verso l’avventura bellica e la minaccia bellica si fa sempre più incombente”.[56]

Il mito dell’“italiano nuovo” per poter reggere e stare in piedi attinge, quindi, a piene mani dal serbatoio dell’antisemitismo e dalla psicosi dell’accerchiamento del nemico.

Anche la spinta totalitaria, che non tollera più diversità, minoranze ed eccezioni, che restringe gli spazi di libertà individuali e sociali, impressa dal regime, in previsione di un conflitto armato, si nutre di razzismo e antisemitismo. Nel solco tracciato da E. Gentile, Collotti ha affermato che “La strumentalizzazione della lotta contro gli ebrei, al di là del generico connotato razzistico, assume grande rilevanza sia nel tentativo di rivitalizzare dall’interno il costume di vita fascista, sia nella sua proiezione verso l’esterno di un mito collettivo destinato ad assolvere una primaria importanza nella preparazione psicologica della guerra. Null’altro che una anticipazione dell’immagine dell’ebreo come longa manus dello straniero e del nemico, che sarà diffusa alla vigilia e nel corso della guerra. In questo senso la questione del razzismo antiebraico si configura come una delle componenti di quel processo di accelerazione totalitaria (l’espressione è di Emilio Gentile) che la politica del regime avvia intorno al 1936”.[57]

Tirando le somme del confronto tra i due studiosi è lecito affermare che Collotti operi un completo rovesciamento dell'interpretazione di Sarfatti e rimuova la parentesi in cui erano tenuti chiusi motivi e argomenti ritenuti secondari da questi portandoli in primo piano sulla scena storiografica.

A parere di Collotti, infatti, sono proprio l’alleanza con la Germania nazista, lo sviluppo di una politica razzista, l’edificazione di una “dignità imperiale”, la costruzione di un “carattere fascista” collettivo e il consolidamento del totalitarismo le molle che azionano l’antiebraismo fascista, i pilastri su cui poggia la politica contro gli ebrei, che è, in ultima istanza, componente funzionale e parte integrante, del vasto progetto nazifascista di un nuovo ordine europeo.[58]

In entrambi gli studiosi tutti questi elementi sono presenti; ciò che cambia è l’ordine degli addendi, e con esso il peso e le proporzioni assunte dai singoli fattori: ciò che per Sarfatti viene senz’altro prima e pone al centro della sua ricostruzione, per Collotti segue ed è sfuocato; ciò che per il primo è la causa principale, certamente non l'unica, l’antiebraismo, per il secondo non è altro che un effetto; ciò che per il secondo è lo strumento, l’antiebraismo, per il primo è lo scopo, e viceversa. Cause e conseguenze, mezzi e fini sono nei due storici visibilmente ribaltati, invertiti e scambiati.

Riguardo alla posizione di Sarfatti, lo storico Tommaso Dell’Era parla di tautologia: “Alla domanda perché Mussolini decise di perseguitare gli ebrei in Italia con l’adozione della legislazione antisemita nel 1938, Sarfatti risponde con una tautologia, perché intendeva perseguitare gli ebrei”.[59]

Come lo stesso Dell’Era riconosce, la prospettiva delineata da Sarfatti include, seppure relegati sullo sfondo, altri motivi, di cui si è detto; tuttavia è innegabile che lo studioso riconduca la persecuzione degli ebrei, e più in generale la politica antisemita del fascismo, all’aumento dell’odio, delle convinzioni e dei pregiudizi antiebraici in Mussolini.

Sarfatti, quindi, definisce l’intera vicenda persecutoria per un verso come un fatto di natura principalmente ideologico culturale, legato al crescente antisemitismo della classe dirigente  fascista, che fa un uso antisemita della politica: la dittatura e il totalitarismo sarebbero stati piegati a favorire l’ascesa dell’antisemitismo nella società italiana; per un altro verso sarebbe una sorta di resa dei conti con gli ebrei, un nuovo capitolo della lunga storia dell’odio nei loro confronti, quasi del tutto scollegata dalla politica razzista delle colonie .

Al contrario Collotti, pur non negando il ruolo svolto dal pregiudizio, collega la persecuzione contro gli ebrei al calcolo politico, ossia alla politica razzista attuata dal regime, facendone una componente organica di un ambizioso progetto politico, articolato lungo le direttrici dell’imperialismo, dell’italiano nuovo e del totalitarismo. Nella sua interpretazione il fascismo fa un uso politico dell’antisemitismo, che rientra in una più generale politica razzista del regime.

In conclusione se per Sarfatti si tratta di travasare il vino vecchio in botti nuove e a cambiare è assai più la forma che la sostanza per cui la causa delle leggi antiebraiche è l’antisemitismo per la prima volta attuato in grande stile da un regime totalitario, da cui la radicalità della persecuzione, per Collotti l’antisemitismo rappresenta il tornio con cui rifinire e levigare l’opera totalitaria, lo scalpello con cui cavar fuori dal legno storto l’uomo nuovo di stampo fascista. Le due interpretazioni, pur nelle loro cospicue differenze, hanno il merito di aver contribuito a sfatare la menzogna della propaganda neofascista, che trasforma le leggi razziali in un semplice incidente di percorso di un regime per tanti versi apprezzabile, e a gettar luce nel cono d’ombra della Shoah, secondo la nota edulcorata formula defeliciana, che risparmierebbe l’Italia dall’infamia.[60]

In rapporto al primo punto, il percorso intrapreso dal fascismo, in ambedue le interpretazioni, conduce consapevolmente alla persecuzione ebraica e se proprio di incidente si vuol parlare si tratta di un incidente mortale: la legislazione ebraica ha preparato e favorito il successivo sterminio.

Rispetto al secondo, la dichiarazione d'innocenza di fronte alla Shoah, basti ricordare che a Verona venne promulgato il 15 novembre 1943 il manifesto politico-programmatico del fascismo repubblicano, il cui articolo 7 decreta: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”; a Salò tale documento fu recepito dall’ordine di polizia n 5 del 30 novembre 1943, diramato dal ministero degli interni della Repubblica fascista, con il quale si disponeva “l’arresto di tutti gli ebrei […] a qualunque nazionalità appartengono”; a Roma, capitale d’Italia, tra il 16 e il 18 ottobre 1943, sotto gli occhi del  Papa, e di quelli accondiscendenti del Duce, ritornato sulla sella del potere, e di molti altri italiani, scudieri e spettatori indifferenti, si prelevarono con una retata, la più grande della Shoah italiana, 1023 persone che vennero deportate ad Auschwitz. Per molti di loro il viaggio fu senza ritorno; a Fossoli, vicino Modena, venne istituito il campo di concentramento nazionale, la cerniera tra Salò e i campi di sterminio dell’Europa dell’est, dove gli ebrei arrestati da milizie repubblichine, italiani dunque, “passavano di mano”; a San Sabba, nei pressi di Trieste, in una risiera venne installato un campo fornito di camera a gas; erano italiane le guardie di confine che impedivano agli ebrei il passaggio in Svizzera, italiani erano i deputati e i senatori che votarono le leggi razziali, italiano era il re che le sottoscrisse, italiane le vittime, tra loro anche non ebrei schedati come appartenenti alla razza ebraica, e italiani i complici dei carnefici.

Per tutto ciò, l’Italia è compromessa ed è a pieno titolo risucchiata dentro il cono d’ombra della Shoah.

Note

[1] “La stima più accreditata –ha scritto W. Benz-del numero delle vittime ebree dell’Olocausto, sulla base delle ultime ricerche, è che almeno 6 milioni di persone vennero uccise con il gas o fucilate, oppure morirono di fame e per maltrattamenti fisici”. W. Benz, Vittime, calcolo delle in Dizionario dell’Olocausto, a cura di W. Laqueur, Einaudi, Torino, 2004, p. 821.

[2] M. Sarfatti, La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei durante il fascismo, Torino, Einaudi, 2005, p. 109. 

[3] M. Toscano, Storiografia in Italia in Dizionario dell’Olocausto (a cura di W. Loqueur), Roma, la biblioteca di Repubblica – l’Espresso, 2012, p. 736.   

[4]E. Collotti,, La Shoah e il negazionismo  in La storia negata A. Del Boca (a cura di), Vicenza, Neri Pozza, 2009, p. 239.

[5]All’interno di una ormai copiosa bibliografia elenchiamo alcuni titoli rappresentativi: L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall'Italia 1943-1945, Milano, Mursia, 1991; M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei,Torino, Zamorani, 1994; M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 2000; E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei, Roma - Bari, Laterza, 2003; S.  Levi Sullam, I carnefici italiani, Milano, Feltrinelli, 2015.  

[6] La leggenda nera fu propagata da I protocolli dei saggi di Sion, libello fasullo fabbricato in Russia ai primi del Novecento.

[7] Citato in R. Segre (a cura di), Gli ebrei a Venezia 1938-1940. Una comunità tra persecuzione e rinascita, Venezia, Il Cardo, 1995, p. 95.

[8] L’antisemitismo, a ogni modo, non fu per Mussolini una scoperta dell’ultima ora, una rivelazione sulla via della costruzione dello stato razziale avvenuta a metà anni ‘30, bensì fu una corda profonda che vibrava in vario modo a secondo la musica dei tempi e delle opportunità. Il giovane socialista sfoggiava, ad esempio, senza il minimo imbarazzo l’epiteto di “ebreo” in senso dispregiativo per apostrofare e screditare gli avversari politici di tale fede e appartenenza culturale e identitaria.

[9] Sulla questione del razzismo si rinvia al volume di A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia, Il Mulino, Bologna, 1999; sul popolazionismo e le implicazioni eugenetiche a F. Cassata, Molti, sani e forti, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.

[10] E. Traverso, Antisemitismo in Italia in W. Laqueur (a cura di) Dizionario dell’Olocausto, Einaudi, Torino, 2004, pp. 35-39.

[11] U. Eco, Costruire il nemico,http://www.golemindispensabile.it/index.php?_idnodo=16773&page=2&_idfrm=61 Golem. L’indispensabile, 1.05.2008. In esergo a volume, che contiene anche questo articolo, Eco rivela lo scopo del nemico inventato, il fantoccio di cartapesta che funziona da spaventapasseri: “Per tenere i popoli a freno, di nemici bisogna sempre inventarne, e dipingerli in modo che suscitino paura e ripugnanza”. U. Eco, Costruire il nemico e altri scritti occasionali, Milano, Bompiani, 2011.

Sugli elementi e le strategie per la costruzione del nemico si rinvia, oltre al citato Eco, a F. Germinario, Costruire la razza nemica, Torino, Utet, 2010.

[12] La realtà era naturalmente ben diversa. Gli ebrei italiani analogamente agli altri italiani, “erano moderati e progressisti, reazionari e rivoluzionari, poveri e benestanti, industriali e venditori ambulanti di “spilli a braccio”, operai e insegnanti, laici e religiosi” e perciò non tutti indistintamente intenti, in una sorta di internazionale ebraica del male, a ordire ogni genere di misfatto, comprese occulte trame e segreti piani di conquista planetaria. M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, Torino, Einaudi, 2002, p. 13.

[13] M. Sarfatti, La Shoah in Italia, Torino, Einaudi, 2005, p. 77.

[14] Per ragioni di sinteticità e per la schematicità delle tesi di fondo esposte, che hanno agevolato il confronto con Sarfatti, si è preferito far riferimento alla relazione La politica razzista del regime fascista per esprimere le posizioni di Enzo Collotti piuttosto che il volume Il fascismo e gli ebrei, in cui il tema è trattato più in dettaglio. Il testo è consultabile all’indirizzo http://www.italia-liberazione.it/novecento/interCollotti.html.

[15] Citato in P. Pezzino, Alcune tematiche di storia della Shoah in Capire gli stermini. Per una didattica della Shoah, Firenze, Dispense Regione Toscana, 2011, p. 45.

[16] M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani, Torino, Einaudi, 2002, p. 46.

[17] A. Gramsci, Odio gli indifferenti, Milano, Chiarelettere, 2011, pp. 3-4.

[18] G. Turi, Il consenso degli intellettuali e il controllo del regime in A. D’Orsi (a cura di), Gli storici si raccontano. Tre generazioni tra revisioni e revisionismo, Roma, manifestolibri, 2005, pp. 238-239.

[19] M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani, cit., p. 44.

[20] P. Scoppola, La chiesa e il fascismo, Laterza, Bari, 1971.

[21] Fu la Segreteria di Stato Vaticana a predicare cautela e prudenza. Sulle posizioni critiche assunte da Pio XI si rimanda a R. Perin, La svolta di fine pontificato: verso una condanna dell'antisemitismo, Il pontificato di Pio XI nella crisi europea. Atti del Colloquio di Villa Vigoni, 4-6 maggio 2015, Venezia, Edizioni Ca' Foscari, 2015, pp. 37-55.

[22] Papa Ratti il 15 luglio 1938, significativamente all’indomani della pubblicazione del Manifesto della razza, invitava gli assistenti di Azione Cattolica a meditare sul fatto che “cattolico vuol dire universale e non razzistico, nazionalistico e separatistico”, citato in D. Menozzi, La chiesa e gli ebrei, in Capire gli stermini. Per una didattica della Shoah, Firenze, Dispense Regione Toscana, 2011, pp. 33 e 35.

[23] J. Cornwell è tra coloro che sostengono il filonazismo di papa Pacelli, dichiarato già nel titolo di un suo libro sulla questione in modo inequivocabile ed esplicito Il Papa di Hitler. La storia segreta di Pio XII, Milano, Garzanti, 2003.

[24] G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio II. Vaticano, seconda guerra mondiale e Shoah, Milano, Rizzoli, 2000.

[25] L’intellettuale ebreo, ex presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, sul peso del silenzio ha scritto: “Si pone il quesito se una presa di posizione ufficiale della Chiesa cattolica, una dichiarazione di condanna del razzismo e dell’antisemitismo, sia pure in termini diplomatici e con tutte le cautele del caso, fatta prima che si muovessero le truppe, sarebbe servita concretamente o no. Io penso di sì, perché almeno una parte dei cattolici di Francia, Belgio, Germania e Austria, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Slovenia e Croazia non avrebbero lasciato al protestante re di Danimarca e agli ortodossi di Bulgaria il monopolio di gesti di solidarietà verso gli ebrei perseguitati. Ammettiamo che sia vero il contrario: una dichiarazione esplicita non avrebbe avuto alcun effetto. Ma è lo stesso silenzio ad avere sempre un effetto. Agli occhi di coloro che hanno il monopolio del potere spietato, il semplice non intervenire non resta privo di effetto, anche il silenzio ha un peso, ha avuto un significato, ha consolidato la dottrina e la prassi della tirannide sanguinaria”. Amos Luzzatto, Pio XII: pesò anche il silenzio, Confronti.net, http://www.confronti.net/EDITORIALI/pio-xii-peso-anche-il-silenzio

[26] R. Pertici, I “silenzi” di Pio XII erano un dovere?, l’Occidentale, 18 gennaio 2009. Il caso dei silenzi di Pio XII fu sollevato e fatto esplodere dal dramma teatrale Il Vicario di Rolf Hochhuth negli anni ’60. L'opera rappresentò una scossa per una storiografia in grave ritardo su tema.

[27] M. Colovich, Giovanni Palatucci. Una giusta memoria, Atripalda, Mephite, 2008.

[28]E. Collotti, La Shoah e il negazionismo in A. Del Boca (a cura di) La storia negata, Vicenza, Neri Pozza, 2009, p. 251.

[29] Michele Sarfatti sull’intera questione ha osservato: “Indipendentemente da quanto ciò oggi possa turbare, la base della normativa fascista antiebraica fu il razzismo biologico, ovvero l’analisi del sangue “posseduto” dagli italiani”. M. Sarfatti, La Shoah in Italia, Torino, Einaudi, 2005, p. 81.

[30] Il manifesto fu riferimento sia della legislazione razziale, sia del documento politico Dichiarazione sulla razza del Gran consiglio del fascismo del 6 ottobre 1938, in cui gli ebrei sono definiti animatori dell’antifascismo e alleati del bolscevismo.

[31] M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, cit., pp. 6-7. Galli della Loggia aveva decretato il decesso della patria con l’armistizio dell’8 settembre. E. Galli della Loggia, La morte della patria, Roma-Bari, Laterza, 1996.

[32] E. Collotti, La politica razzista del regime fascista, cit., p. 2.

[33] M. Sarfatti, La Shoah in Italia, cit., p. 83.

[34] M. Sarfatti, La Shoah in Italia. cit., p. 81. Se non fa differenza quanto si può essere turbati, forse può essere di qualche interesse sapere quanti oggi sono turbati.

[35] Ivi.

[36] M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, cit., p. 23.

[37] I campi del Duce, a lungo rimasti nell’ombra dei ben più tristemente noti campi di Hitler, furono riportati alla luce e riesumati dall’oblio dagli studi di S. Capogreco, I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Torino, Einaudi, 2004.

[38] De Felice esclude comunque un intervento diretto della Germania nazista. Come è stato notato, l’ideologia della nuova civiltà e dell’uomo nuovo fascista, ossia il mito della razza mussoliniano, sono elementi che influenzano la svolta senza determinarla. Su di essi lo storico nel ’61 scrive: «Gli scopi e i limiti del “razzismo” mussoliniano non andarono mai, sino alla conquista dell’Etiopia, oltre la realizzazione di una politica sanitaria, demografica ed eugenetica e, più latamente, oltre l’aspirazione di sostituire negli italiani alla coscienza borghese dell’“Italietta” una coscienza “imperiale” di Roma, non oltre – insomma – la vitalizzazionee il potenziamento fisico e morale degli italiani. Nulla nelle affermazioni e nelle realizzazioni “razzistiche” mussoliniane susseguitesi sino alla fine del 1937 (comprese le decisioni del Gran Consiglio del fascismo del 3 marzo 1937) può far pensare neppur lontanamente a un vero razzismo di stampo biologico e ad una politica sul tipo di quella nazista». R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1961, pp. 278-279.

[39] M. Sarfatti, La Shoah in Italia, cit., p. 36.

[40] E. Collotti, La politica razzista del regime fascista, cit., p. 3.

[41] M. Sarfatti, La Shoah in Italia, cit., p. 37.

[42] Ivi.

[43] E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 235-264.

[44] M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, cit., pp. 13-14.

[45] M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, cit., p. 14.

[46] M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, cit., pp. 25-26.

[47] La soluzione adottata dal fascismo, escludendo programmaticamente il ghetto – inteso come una specie di purgatorio o di stazione di passaggio, in cui si entra ma da cui si può anche uscire per la porta della conversione –,  rivela la radice e la portata biologica di tutto il problema. L’allontanamento progressivo degli ebrei dalla vita lavorativa, educativa e sociale perseguiva l'obbiettivo, rendendo loro la vita impossibile, di spingerli ad emigrare fuori dal territorio nazionale.

[48] E. Collotti, La politica razzista del regime fascista, cit., p. 3.

[49] Nell’imperialismo di nuovo conio, totalmente impregnato di razzismo biologico, il riferimento alla missione civilizzatrice dei popoli europei non ha più fondamento e ragion d'essere.

[50] Il documento è riprodotto in M. Sarfatti, La Shoah in Italia, cit., p. 134.

[51] G. Israel-P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Bologna, il Mulino, 1998.

[52] E. Collotti, La politica razzista del regime fascista, cit., p. 2.

[53]Ivi.

[54] B. Gravagnuolo, I volenterosi carnefici del Duce, l’Unità, 21 novembre 2003, p. 25.

[55] E. Collotti, La politica razzista del regime fascista, p. 3.

[56] Ivi.

[57] E. Collotti, La politica razzista del regime fascista, cit., pp. 3-4.

[58]E. Collotti, L'Europa nazista. Il progetto di un nuovo ordine europeo (1939-1945), Firenze, Giunti, 2002.

[59] T. Dell’Era, Razzismo e antisemitismo nella costruzione della nazione: analisi concettuale delle quattro principali interpretazioni storiografiche sul caso italiani, in Capire gli stermini. Per una didattica della Shoah, Firenze, Dispense Regione Toscana, 2011, p. 7.

[60] R. De Felice rilasciò l’assolutoria intervista sul ruolo recitato dall’Italia nella Shoah a G. Ferrara per il Corriere della Sera del 27 dicembre 1987. Lo storico si espresse nel modo seguente: “So che il fascismo italiano è al riparo dall’accusa di genocidio, è fuori dal cono d’ombra dell’Olocausto”. Il testo integrale dell’intervista è in J. Jacobelli (a cura di), Il fascismo e gli storici d’oggi, Laterza, Roma Bari, 1988, pp. 3-6.

Casella di testo

Citazione:

Pierpaolo Lauria, Lucia Pietrafesa, La Shoah in Italia e le interpretazioni di Sarfatti e di Collotti, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VII, 2, luglio 2018

url: http://www.freeebrei.com/anno-vii-numero-2-luglio-dicembre-2018/lauria-pietrafesa-la-shoah-in-italia-e-le-interpretazioni-di-sarfatti-e-di-collotti