Schlemihl

"Free Ebrei", VII, 2, luglio 2018

Le parole dello yiddish

di Alessandra Cambatzu

Abstract

Alessandra Cambatzu explains the semantic sphere of "Schlemihl" in yiddish language, starting from the origin and the meaning of the word and, through the use of Chamisso and Heine, tries to demonstrate the role played by the "fool" in modern literature.

3. Schlemihl (שׁלמל)

  

Quel che vuol dire la voce ‘schlemihl’ lo sanno tutti; / da lungo tempo Chamisso gli ha dato diritto di cittadinanza in Germania”[1].

È così che Heine dice la sua su un termine che ha avuto una gran fortuna: da espressione gergale dispregiativa a rappresentante di una categoria umana e letteraria.

Lo schlemihl è l’uomo inadatto alla prassi che il comune sentire avvilisce, ma spinge contemporaneamente verso l’Anderssein. Categoria universale, dunque, questa dello schlemihl il cui etimo non è ricostruibile con assoluta sicurezza, ma che appunto per questo spinge a scoprire collegamenti e riferimenti semantici affascinanti.

Lo schlemihl è secondo il Deutsches Wörterbuch di Grimm un “unbeholfene Träumer”[2], un Pechvogel ricollegabile semanticamente a Schlamm, ‘fango’. Kluge lo collega invece all’ebraico salomoil, ‘der nichts taugt’[3].

Lo schlemihl è spesso affiancato allo schlimazel (ted. Schlimm, ‘brutto, cattivo’ ed ebraico mazza מזה, ‘fortuna’ quindi ‘sfortunato’), ma non sono semanticamente esattamente sovrapponibili: il primo è l’inetto, colui che non giunge a nulla (v. il verbo ebraico salem, e l’aggettivo omofono salem rispettivamente ‘essere compiuto’ e ‘intero, integro’), il secondo è quello cui realmente appartiene la categoria del Pechvogel, dello sfortunato. Per chiarire meglio il concetto si dice che quando uno schlemihl che ha un piatto di minestra in mano inciampa, versa il liquido bollente giù per il collo di uno schlimazel. Lo schlemihl è dunque “un attivo seminatore di malasorte”[4] e lo schlimazel la sua vittima, in tutti i sensi, anche linguisticamente, visto che ha ceduto al primo i suoi tratti semantici facendo, quindi, tutt’uno con esso.

La disgrazia dello schlemihl-schlimazel è la sua natura stessa, invincibile; egli è l’uomo sbagliato al momento sbagliato, inadatto alla vita nella sua “seducente banalità”.

Data la reductio ad unum di schlemihl e schlimazl per che cosa optare, per una derivazione ebraica o germanica? Non possiamo dare un parere definitivo, ma l’incertezza dell’attribuzione ci permette di giocare e scoprire, non certo una volta per tutte cosa c’è dietro le parole.

Chiariamo subito che lo yiddish ha un numero notevole di termini per definire l’inetto, lo sfortunato. Ne citiamo solo alcuni: c’è il puro e semplice nar (ted. Narr, ‘folle’), colui che ha perso tutto al gioco, il farshpiler (ted. verspielen, ‘perdere al gioco’) e il nebich (di incerta derivazione, potrebbe essere collegato al polacco nieboze, ‘Dio salvi!’, e all’ebraico nawuch, ‘oppresso, abbattuto’ o al tedesco nie bei Euch) che potremmo tradurre con ‘poveretto’. Incerto, comunque, appare il confine tra follia e sfortuna: “il matto era sfortunato e l’inetto finiva facilmente per essere considerato matto”[5].

Follia o incredibile stupidaggine? Ma, soprattutto, qual è il punto di vista ‘giusto’ da cui guardare allo schlemihl? Quello dei ‘normali’ che giudicano l’outsider con compassione venata di disprezzo o se, piuttosto, non sia necessario considerarlo come il miglior rappresentante di comunità, quali quelle degli shtetlach in bilico tra un’esistenza miserabile e i pogrom sempre in agguato, un Lügner per necessità le cui bugie o finzioni apparentemente folli, risultano verità amare e incontrovertibili come quelle dei fool shakespeariani.

 

 

Heine e lo schlemihl

 

Heine nelle sue Hebräische Melodien ricostruisce a modo suo la storia, anzi l’origine, del nostro schlemihl. Suo interlocutore, tramite fra lui e Chamisso, è il Kriminalrat Hitzig, criminalista e scrittore in proprio nonché grande amico di Chamisso che ne sposerà la figlia adottiva.

Il breve excursus sullo Schlemihltum è, naturalmente, maneggiato da Heine con la consueta ironia:

 

                Che vuol dire la voce Schlemihl

                   lo sanno tutti; da lungo tempo Chamisso

                   gli ha dato diritto di cittadinanza

                   in Germania.

 

                   Ma le origini sono rimaste

                   ignorate, come quelle

                   del divino Nilo; ed io

                   mi ci sono lambiccato[6]

                   tante notti. Ora sono molti anni

                   che mi recai, perciò a Berlino

                   da Chamisso ad erudirmi

                   sul decano degli Schlemihl.

 

                   Ma non mi poté appagare,

                   e mi indirizzò da Hitzig

                   che molto tempo fa il cognome

                   del suo Peter gli aveva confidato.

 

Heine approfitta dell’occasione per sbeffeggiare il povero Hitzig ( o meglio Itzig, ‘Isacco’, cui, malignamente il poeta rinfaccia di aver preposto una ‘h’ per arianizzare il suo ebraicissimo nome) e per costringerlo a chiarirgli l’origine di questo sospirato Schlemihl:

 

                   Santo Hitzig – io gli dissi,

                   giunto in Suo cospetto – Lei

                   deve della voce Schlemihl

                   dirmi l’etimologia.

 

Quando gli ebrei erano nel deserto cedettero alle lusinghe delle donne cananee: Pinchas, longa manus della vendetta divina, trafisse un ebreo fornicatore e la sua donna.

Fin qui il testo biblico, Numeri 25,6. Ma una leggenda dice che, in realtà, la spada di Pinchas ha colpito un innocente, tale Schlemihl (!) ben Zurishaddai, trapassato per errore al posto del peccatore Zimri:

 

                   Ma oralmente s’è nel volgo

                   tramandata la leggenda

                   che non fu Zimri, che questo

                   Pinchas colpì di spada.

 

                   Questi è dunque Schlemihl Primo

                   l’antenato della stirpe

                   dei Von Schlemihl: l’avo nostro

                   Schlemihl ben Zuri Shaddai[7].

 

E dal momento che la fortuna è cieca ma la sfortuna ci vede benissimo, la morte tragicomica del povero Schlemihl, capitato lì per caso, ha dato la stura, ironizza Heine, a tutta una serie di sventure e ashveriche migrazioni, simboleggiate dalla spada di Pinchas:

 

                   Certo non d’eroiche gesta

                   su di lui si fa menzione:

                   solo il nome ne sappiamo

                   e che un Schlemihl fu. Ma un albero

                  

                   genealogico è pregiato

                   non per la sua bontà dei frutti

                   ma bensì per la vecchiaia

                   ed il nostro ha tre millenni!

 

                   Gli anni vengono e poi vanno           

                   tre millenni sono passati

                   da che è morto il nostro avo

                   Schlemihl ben Zurì Shaddai.

 

                   Pinchas da tempo è morto

                   ma la spada ancor ne resta

                   e imperterrita vibrare

                   ce l’udiamo sulla testa[8].

 

 

Lo Schlemihl di Chamisso

 

Se Heine è un beffardo ricostruttore dell’Ur-Schlemihl, è però Chamisso a fornirgli una vita letteraria tutta sua.

Non è certo questa la sede per una disamina dell’opera chamissiana, ricorderemo soltanto che il protagonista della Storia meravigliosa di Peter Schlemihl, “ein[en] langbeinigen Bursch, den man ungeschickt glaubte” è così ingenuo e sciocco (nomen omen) da accettare di vendere la propria ombra a un misterioso uomo in grigio, nientemeno che il diavolo, in cambio della inesauribile borsa di Fortunatus, ma siccome solo i demoni non gettano ombra, Peter si rende ben presto conto che la gente non si fida di un uomo senz’ombra, per quanto ricco sia. Dopo aver dovuto rinunciare anche al matrimonio con l’amata Mina, chiede indietro la propria ombra, ma naturalmente, l’uomo in grigio vuole in cambio la sua anima. Peter rifiuta e si autocondanna a un vagabondaggio da Ebreo Errante, aiutato dagli stivali delle sette leghe.

Dopo lunghe peregrinazioni il nostro, tramortito per una brutta caduta, si risveglia in una stanza sconosciuta: si trova nello Schlemihltum, un ricovero fondato con il resto del suo denaro dal fedele ex servitore Bendel e da Mina; lì il paziente contrassegnato dal numero dodici, ritenuto per la lunga barba un ebreo (!)[9], si rimette in forze e decide di ritornare a casa propria in compagnia del fedele cane Figaro.

Infinite sono state le ricognizioni compiute nel campo dello schlemihl, tra le altre quella che lo vede come una Widerspiegelung dello stesso Chamisso che ne condivise l’ansia migratoria, la passione per la botanica e la ricerca di un ubi consistam accettabile[10].

Ciò che però ci interessa in questa sede è questa miscela esplosiva, segnalata fin dal nome, di dabbenaggine, sfortuna e ingenuità di Schlemihl che porta questo antieroe alla vendita di un bene apparentemente senza importanza, come l’ombra.

Tutto sarebbe andato liscio se chi incontra Peter, non avesse notato quella che sembra una mostruosa mancanza. Un uomo senz’ombra non può appartenere al consorzio umano; l’ombra diviene conditio sine qua non, senza la quale si è degli esclusi; sono gli ‘altri’, la società a stabilire lo Schlemihltum e da qui allo Judensein il passo è breve: Peter ha la barba e quindi è ebreo[11].

 

 “Giovanotto! Ehi giovanotto! Ascolti!

Mi voltai, era una vecchietta, che mi avvertiva:

 “Si guardi un po’ ai piedi signore… ha perduto la sua ombra!”

 “Grazie nonnina”.

Le gettai una moneta, per il benevolo avvertimento, e mi inoltrai sotto gli alberi di un viale.

Alla porta ecco che mi sentii ripetere dalla sentinella:

 “Dove ha lasciato la sua ombra, signore”?

E subito dopo, due donne:

 “Gesù Maria! Quel poveretto non ha ombra!”

La cosa cominciava a darmi noia e presi a evitare con cura il camminare al sole […].

Un maledetto monello con la gobba […] s’accorse che non avevo l’ombra. Mi smascherò subito […] “Le persone per bene hanno l’abitudine di portare con sé la propria ombra, quando camminano al sole!”[12].

 

Peter, Aussenseiter suo malgrado, ha “paura di esporsi alla luce, le sue fughe frequenti e i tentativi di cambiare identità, sono tutti semplici ma precisi corrispondenti della condizione psichica dell’uomo marginale”, Chamisso allarga “il significato della parola ‘schlemihl’ fino a comprendere l’outsider comicamente e goffamente alienato dal conformismo borghese”[13].

È fondamentale infatti la dimensione umoristica, tragicomica dell’inetto che si dibatte tra rifiuto e rassegnazione verso una condizione imposta dall’esterno:

 

 “Sono Gimpel l’idiota, secondo me non son affatto un idiota, ma è così che mi chiamano. Questo soprannome me l’hanno dato quando         andavo ancora a scuola. Di nomignoli allora ne avevo addirittura   sette: imbecille, somaro, zuccone, cretino, gnocco, babbeo e idiota. L’ultimo è quello che mi è rimasto. Ma perché ero un idiota. Perché mi lasciavo imbrogliare come niente. Una volta mi dissero: “Lo sai, Gimpel, che la moglie del rabbino ha avuto un bimbo?”, e allora io non andai a scuola. Poi venne fuori che era una frottola, ma come    facevo a saperlo? È vero che lei non aveva il pancione, ma io non le guardavo mai la pancia. Era poi tanto stupido?

 […] Non che fossi una pappamolla; se mollavo uno schiaffo a  qualcuno, lo facevo volare fino a Cracovia. Ma di natura non sono manesco e mi dico sempre: ‘Lascia perdere’. Così’ tutti si approfittano di me”[14].

 

Così accade anche a Senderl, ebraico Sancho Panza che accompagna l’amico Beniamino ne I viaggio di Beniamino Terzo di M.M. Sfurim:

 

 “Viveva a Tunjeadovka un uomo il cui nome era Senderl. Costui era un uomo semplice, cioè un individuo comune, senza particolare saggezza […]. Egli ascoltava, per lo più in silenzio, i discorsi fatti nella bet ha-midrash o in altri luoghi, come un personaggio di secondo piano. Se poi, talvolta, diceva qualcosa, ciò provocava una gran risata: no, semplicemente perché ogni sua parola faceva ridere […] quando la gente rideva egli spalancava gli occhi e si guardava intorno sbalordito. […] Senderl però non si offendeva mai […]: “Se uno ride”, pensava, “bene! Che importa, lascialo ridere! Probabilmente questo gli dà gioia!”[15]

 

Naturalmente lo Schlemihltum non alligna solo tra i cosiddetti sempliciotti, anche se è in loro che raggiunge la forma più pura, commovente e divertente insieme[16]. Particolarmente doloroso è lo Schlemihltum cosciente, quello cioè dell’intellettuale, del Vernunftmensch al quale l’acutezza non permette tuttavia di scavalcare una condizione quasi fisiologica di stagnazione e inanità:

 

 “Avevo già sentito parlare di Jacques Kohn, ex attore del teatro yiddish. Dico ex perché quando lo conobbi non calcava più le scene. Erano i primi anni trenta e il teatro yiddish di Varsavia aveva già cominciato a perdere il suo pubblico. Jacques Kohn era ormai un uomo finito e malato.

 […] Ci incontrammo sempre di sera al Circolo. La porta si apriva lentamente e Jacques Kohn entrava con l’aria di una celebrità europea che si degna di visitare il ghetto.

Si guardava intorno e storceva la bocca […] scuoteva la testa come per dire: “Cosa ci si può aspettare da poveri imbecilli come questi?” Appena lo vedevo entrare, mi mettevo la mano in tasca e tenevo pronto lo zloty che mi avrebbe inevitabilmente chiesto in prestito. Sorrise, mettendo in mostra la dentiera di porcellana che gli andava un po’ larga e si muoveva leggermente quando parlava […]”. Si [diceva] è solo una grande partita a scacchi e nient’altro. Ho sempre avuto paura della morte, ma adesso che ho un piede nella fossa la paura mi è passata. È chiaro che il mio avversario ama il gioco lento. […] Prima mi ha tolto il mio prestigio di         attore e mi ha trasformato in un sedicente scrittore, poi mi ha fatto venire il crampo dello scrittore”[17].

 

Lo spettro del fallimento aleggia intorno a un altro emblematico schlemihl singeriano:

 

 “Sul tavolo era aperto un libro in latino, con gli ampi margini pieni di note e commenti aggiunti dal dottor Fischelsohn in uno stampatello minuto: era l’Etica di Spinoza che egli studiava da trent’anni. Sapeva a memoria ogni proposizione, ogni dimostrazione, ogni corollario e ogni scolio.

 […] Continuava a studiar[la] ogni giorno, per ore e ore, con una lente d’ingrandimento nella mano ossuta […]. Più studiava più scopriva punti di difficile interpretazione, passi oscuri e osservazioni enigmatiche. [Il dottor Fischelsohn stava scrivendo un commento all’Etica]: aveva i cassetti pieni          di appunti e abbozzi, ma gli sembrava che non sarebbe mai riuscito a ultimare la sua opera.

 […] Quando era tornato a Varsavia da Zurigo, dove aveva studiato filosofia, il dottor Fischelsohn si era sentito predire un luminoso futuro. I suoi amici sapevano che stava scrivendo un importante libro su Spinoza, una rivista ebraica polacca aveva chiesto la sua collaborazione, era stato spesso ospite di famiglie facoltose e aveva ottenuto il posto di bibliotecario capo della comunità di Varsavia […].

In seguito, però, le sue idee eretiche lo avevano messo in contrasto col rabbino e costretto a lasciare l’impiego di bibliotecario. Per anni si era guadagnato da vivere dando lezioni private di latino e tedesco; poi quando si era ammalato, la comunità di Berlino gli aveva assegnato un sussidio di cinquecento marchi l’anno. […] Per tirare avanti con quella modesta pensione il dottor Fischelsohn era andato a stare in una soffitta e si era messo a cucinare da sé su un fornelletto a petrolio”[18].

 

Un’altra verità emerge dai due esempi: se è certo che sono gli ‘altri’ a determinare oggettivamente la condizione dello schlemihl, è però con Dio che, come spesso accade nella letteratura yiddish, si gioca in definitiva la partita.

 

 

L’omino gobbo di Benjamin: Ungeschick e ungeschickt

 

C’è un riferimento nell’Infanzia berlinese di Benjamin che non può non colpire l’appassionato dello Schlemihltum: un modo di dire che la madre gli ripeteva ogniqualvolta si verificava un piccolo guaio (una ferita, una piccola sbucciatura). Ungeschick lässt grüssen, “Malestro ti saluta’ o ‘Con tanti saluti dal signor Malestro!’

Ungeschick è traducibile con ‘inettitudine, incapacità’; l’aggettivo corrispondente ungeschickt ha due significati che appartengono a sfere semantiche diverse: l’uno è l’essere, appunto ‘maldestro’ (e ricordiamo che Peter Schlemihl è definito da Chamisso: “ein langbeiniger Bursch, den man ungeschickt glaubte”), l’altro è l’essere ‘sfortunato’. Semanticamente proprio il corrispondente dello schlemihl.

Lo si voglia chiamare Dio, società, puro caso, la vita di uno schlemihl sembra dominato dall’omino gobbo benjaminiano. Ma chi è quest’omino gobbo? È das blucklige Männlein del Des Knabens Wunderhorn di Arnim e Brentano, che impedisce malignamente alla bambina della filastrocca ogni azione:

 

                [..] Quando vado là in cucina

                   Per bollir la minestrina

                   Vedo il solito gobbino

                   Che mi ha rotto la terrina.

 

                   Quando vado nel tinello

                   A mangiar la mia pappa

                   Il gobbino, ceco, è già là

                   Ne ha rubato la metà[19].

 

E guarda caso, è proprio ein verdammter buckeliger Schlingel, un maledetto monello gobbo ad aizzare la ragazzaglia e a insolentire il povero Peter chamissiano. Che anche il povero gobbino abbia bisogno di pietà (“Liebes Kindlein, ach ich bitt / Bett für’s bucklicht Männlein mit”)[20], questo non migliora certo la sorte di chi è esposto alla sua malefica influenza[21].

 

 

Lo schlemihl e il Wandern

 

Un altro elemento che sembra consustanziale allo schlemihl è il Wandern. Lo Schlemihltum implica, quasi sempre, il vagabondaggio, non sempre lieto come quello del Taugenichts eichendorffiano ma piuttosto somigliante a quello tragico di Ahasvero.

Lo schlemihl possiede una irresistibile propensione all’erranza e va da sé che questa comporta una serie di esperienze più o meno positive.

Nel mare magnum della letteratura yiddish o ad essa in vario modo collegata, ci vogliamo riferire a un caso in particolare, che è quello de I viaggi di Beniamino Terzo[22] di Mendele Moicher Sfurim (o Sforim), pubblicato nel 1878. Tralasciando il retroterra che ha prodotto molte delle opere di M.M. Sfurim, e cioè la polemica tra maskilim favorevoli all’emancipazione delle masse ebraiche che vivevano tra Polonia e Russia, sotto il regime zarista in condizioni di miseria terrificante[23] e gli ebrei ortodossi che ritenevano la modernizzazione degli shtetlach (le comunità di villaggio) un primo pericoloso passo verso la perdita dell’identità religiosa, il Beniamino Terzo è da vedere anche come ironico rispecchiamento del Don Chisciotte. Benianimo però non è un hidalgo, sia pure decaduto, ma un povero yid che vive in un miserabile e fangoso shtetl, che insieem al suo Senderl-Sancho Panza vuol partire per l’Oriente e raggiungere la Palestina, Erets Isroel, la Terra Promessa. Mai usciti prima d’allora dalla comunità, totalmente ignari di cosa possa essere il mondo esterno e dopo essersi allontanati, in realtà ben poco dalla natia Tunejadovka, finiscono nelle mani di alcuni khapper, sequestratori di professione che vendono le loro vittime all’esercito zarista.

Vediamo come in Beniamino e in Senderl si coniughino ingenuità, inettitudine, ma anche una straordinaria, anche se decisamente poco pragmatica, ansia di vedere e conoscere:

 

 “Tutti i miei giorni li ho trascorsi a Tunejadovka tutta la mia vita, cioè fino          al mio grande viaggio, io sono vissuto là: là io sono nato, là sono cresciuto e là – momento fortunato! – mi sono sposato con mia moglie!”

 […] In breve la vita nella sua Shtetl sembrava a Beniamino molto bella, addirittura perfetta. Certamente egli viveva in ristrettezze, lui con la moglie e i figli andavano sempre vestiti con stracci e cenci.

 […] Le meravigliose storie degli Ebrei Rossi e delle Dieci Tribù[24] erano però perfettamente penetrate nel suo cuore e da quel momento la Shtetl     gli sembrò quasi troppo angusta. Tutto lo attirava là fuori verso paesi lontani. […]

 […] Il viaggio divenne per Beniamino la sua seconda natura: come un ebreo deve pregare tre volte al giorno, così egli doveva ogni istante         pensare al viaggio […].

 

In realtà, come abbiamo già detto, Beniamino e Senderl si allontaneranno poco da Tunejadovka e i due shtetlach visitati, Teterivke e Glupsk, non sono altro che una versione lievemente ingrandita, ma altrettanto sonnacchiosa e maleolente di Tunejadovka.

Caduti in mano ai banditi e consegnati all’esercito zarista, i due rivelano, ancora una volta, la loro diversità:

 

Il nostro Senderl si abituò progressivamente alla sua condizione: prese a osservare durante gli esercizi gli altri soldati e provò a sua volta a imitare tutti i loro movimenti, a modo suo […].

Il contrario avvenne per Beniamino: per nessuna ragione egli poteva  abituarsi a queste cose. Egli era, per natura, uno di quei tipi di uccelli, chiamati “uccelli migratori”, la cui natura è di volare via ogni anno. […] La natura che li costringe a migrare è talmente forte in loro, che, se li si tiene prigionieri in una gabbia, non trovano più desiderabile la vita, non mangiano, non bevono […][25].

 

Beniamino e Senderl, quest’ultimo per la verità senza grande convinzione, tentano la fuga dal campo, ma vengono ben presto riacciuffati. Preso dalla disperazione, Beniamino pronuncia, di fronte agli ufficiali, un discorso appassionato e pieno di dignità, ma talmente lontano dalla logica militaristica da esser ritenuto il discorso di un folle: “Il dottor mise il dito sulla fronte e scosse il capo come se volesse dire: ‘Manca una rotella in testa a tutti e due!” Il dottore e con lui il generale e il colonnello, in definitiva, non fanno però altro che ricalcare il giudizio, sia pure benevolo, dei concittadini di Tunejadovka: “Mah!... Sì certo! Beniamino è un po’ matto, davvero un po’ pazzerello”.

 

Lo schlemihl obbedisce a una logica tutta sua che non corrisponde a quella del “branco” che stigmatizza, con affettuosa ironia o profondo disprezzo, la sua alterità che trova uno sfogo, più o meno cosciente, nella cupiditas peregrinandi: “Vagabondai così per tutto il globo, ora misurandone le altitudini, ora la temperatura delle sue sorgenti e dell’aria, ora osservando gli animali, ora studiando le piante. Correvo dall’Equatore al Polo, da un mondo all’altro […]”[26].

 

 

Schlamm, lutum…

 

Abbiamo, già in precedenza, ricordato che, per Grimm, schlemihl è ricollegabile a Schlamm (gr. λάμπη, λέμφς, lat. lutum).

È interessante notare come λάμπη abbia il doppio significato di ‘luce’ (v. λέμφς) e ‘schiuma’, ‘muffa’; ma anche il latino lutum ha sia un significato dispregiativo perché può essere riferibile a una persona, sia quello, positivo, di ‘creta’, ‘argilla’, materiali che permettono di creare.

Ci viene in mente proprio un romanzo di Singer, intitolato Schiuma, in cui, oltre al protagonista Max Barabander, si ammassa e traffica in una Varsavia convulsa tutta una folla ambigua di protettori, prostitute, ladruncoli e truffatori o anche di persone che hanno perduto ogni cosa, patrimonio, lavori e affetti, dei Luftmenschen che si aggirano nel quartiere ebraico senza meta e senza prospettive.

Umanità dolente che ha economicamente e socialmente lo stesso valore dello Schlamm che insozza le strade varsaviane o di qualunque altra grande città russo-polacca.

Il destino fallimentare e connaturato allo schlemihl non si smentisce nella sorte del lamed-vovnik[27] Erni Levy che, dopo essersi arruolato nell’esercito francese, cade nelle mani dei nazisti e viene internato ad Auschwitz; morirà assieme alla donna amata e al gruppo di orfanelli cui aveva tentato fino all’ultimo di nascondere la verità.

 

L’edificio sembrava un vasto stabilimento di bagni pubblici. […] Dentro, attaccapanni numerati guarnivano i muri d’una specie di vestibolo gigantesco, e lì la mandria si spogliò […] nella luce azzurra delle piccole lampade accese dentro nicchie appositamente scavate nel cemento, si pigiavano uomini e donne ebrei, bambini e vecchi; a occhi chiusi [Erni] subì la spinta delle ultime infornate di carne che le SS sospingevano ora coi calci dei fucili nella camera a gas e da occhi chiusi sentì spegnersi la luce sui vivi […].

E, mentre i primi effluvi del gas ‘Ciclone B’ s’infiltravano tra i grandi corpi sudati, per deporsi al piano inferiore sull’agitato tappeto di teste infantili,        Erni […] si chinò nel buio verso i piccoli che gli si rannicchiavano fin tra le gambe e urlò con tutta la bontà e la forza dell’anima sua: “Respirate profondamente agnellini miei, respirate in fretta!”

Sorte uguale toccò ai sei milioni che passarono dallo stato di Luftmensch a quello di Luft”[28].

 

 

Note

[1] Heine, Hebräische Melodien, 1972: “Was das Wort Schlemihl bedeutet, wissen wir. / Hat doch Chamisso ihm das Bürgerrecht in Deutschland längst verschafft, dem Worte nämlich”.

[2] Propendiamo per l’etimologia proposta da Grimm, perché ci sembra si adatti meglio al sentirsi inutile e superfluo, sensazione che sempre accompagna lo schlemihl.

[3] Ovvio il riferimento al Taugenichts di Eichendorff, il cui protagonista, amabile fannullone, soggiace alla spinta di un instancabile Wandern.

[4] R. Wisse, 1972.

[5] R. Wisse, 1972.

[6] Hebräische Melodien, Jehudà ben Halevy: “[…] Aber unbekannt geblieben, / wie des heilgen Niles Quellen / ist sein Ursprung: / hab drüber nach gegrübelt manche Nacht. / Zu Berlin vor vielen Jahren / Wandt ich mich deshalb / an unsern Freund Chamisso, / suchte Auskunft / Beim Dekane der Schlemihle. / Doch er konnt mich nicht befriedigen / und verwies mich drob an Hitzig, / der ihm dem Familiennamen / seines Schattenloses Peters [eins verraten]. / […] Heilger Hitzig / Sprach ich also / als ich zu ihm kam, Sie Sollen / mit der Etymologie / von dem Wort Schlemihl erklären”.

[7] “Aber mündlich überlifert / hat im Volke sich die Sage / dass es nicht der Simri war / den des Pinchas Speer getroffen / Sondern dass der Blinderzürnte, / statt des Sünders, unverschens einen ganz Unschuldgen traf / den Schlemihl ben Zuri Shaddai”. In Num. 7,6 si parla effettivamente di un schlemihl figlio (ben) di Zurì Shaddai che offre al Signore diversi e preziosi doni. Chamisso in una sua lettera al fratello ipotizza che “Schlemihl, o meglio Schlemiel, è un nome ebraico che significa, Gottlieb, Teofilo, ‘amato da Dio’”. Sulle implicazioni che, estendendo lo Schlemihltum agli ebrei tutti, questa predilezione divina ha avuto sul popolo eletto non è certo necessario diffondersi. Recita un detto yiddish: “Tu hai eletto noi tra le nazioni: perché dovevi prendertela proprio con gli ebrei?”. È da notare, inoltre, che Heine non inventa di sana pianta la leggenda di Schlemihl ma la trae da una raccolta, di leggende appunto, il Midrash Tanchumà.

[8] “Freilich keine Heldentaten / meldt man von ihm, wir kannen / nur den Namen und wir wissen / dass er ein Schlemihl gewesen. / Doch geschätzet wird ein Stammbaum / nicht ob seinen guten Früchten, / sonder nur ob seinem Atter / drei Jahrtansend zählt der unsre! / Jahre kommen und vergehen / Drei Jahrtausende verflossen, / seit gestorben unser Ahnherr, / herr Schlemihl ben Zurì Shaddai. / Längst ist auch der Pinchas tot / doch sein Speer hat sich erthalten, / und wir hören ihn beständig / über unsre Häupter schwirren”.

[9] “Ich hiess Numero zwölf, und Numero zwölf galt seines langen Bartes wegen für einen Juden, darum er aber nicht minder sorgfältig gepflegt wurde”.

[10]  In una lettera di Madame de Staël Chamisso scrive: “In nessun luogo mi sento a posto. Sono francese in Germania e tedesco in Francia. Cattolico fra protestanti, protestante tra i cattolici, giacobino fra gli aristocratici, aristocratico tra i democratici”.

[11]  Così accadde all’Ebreo di Andorra di Frisch, che paga il suo apparente Anderssein con la morte.

[12] A. von Chamisso, Storia meravigliosa di Peter Schlemihl, 1984: “Junger Herr! He! Junger Herr! Hören sie doch” Ich sah mich um, ein altes Weib rief mir nach: “sehe sich der Herr doch vor, Sie haben Ihren Schatten verloren”. “Danke, Mütterchen!” Ich warf ihr ein Goldstück für den wohlgemeinten Rat und trat unter die Bäume. / Am Tore musst ich gleich wieder von der Schild wacht hören: “Wo hat der Herr seinen Schatten gelassen? Ung leich wieder darauf von ein paar Frauen: “Jesus Maria! Der arme Mensch hat keinen Schattes!” Das fang an, mich zu verdriessen, und ich vermied sehr sorgfältig, in die Sonne tu treten. […] Ein verdammter buckeliger Schlingel, hatte es gleich weg, dass mir ein Schatten fehle. Er verriet mich [sofort] […]: “Ordentliche Leute pflegten ihren Schatten mit sich zu nehmen, wenn sie in die Sonne gingen”.

[13] Wisse, 1972.

[14] I.B. Singer, Gimpel l’idiota, 1998.

[15] M.M. Sfurim, I viaggi di Beniamino Terzo, 1983.

[16]  “Moshe, perché dormi con gli occhiali?” “Perché io, Dio te ne liberi, sono così miope che non riconosco neppure le persone che vedo in sogno”.

[17] Singer, Un amico di Kafka, 1998.

[18] Singer, Lo Spinoza di via del Mercato, 1998.

[19] Arnim/Brentano, Il corno magico del fanciullo, 1999: “Will ich mein Küchen gehn / Will mein Süpplein kochen; / Steht ein bucklicht Männlein da / Hat mein Töpflein brochen. / Will ich mein Stüblein gehn / Will mein Müsslein essen / Steht ein bucklicht Männlein da / Hats schon halber gegessen”.

[20] “Ah, se vuoi cara bambina / prega un po’ per il gobbino”.

[21] Ne I Buddenbrook Ida Jungmann parlando con Tony del piccolo Hanno (Schlemihl in sedicesimo) dice: “La sai quella poesia? Fa venire la pelle d’oca. Quell’omino gobbo è dappertutto, rompe le pentole, mangia la pappa, ruba la legna… e alla fine vuole anche che si preghi per lui! Sai che cosa mi ha detto [Hanno]: ‘Vero, Ida, che non lo fa per cattiveria?’ No, non per cattiveria! Lo fa perché è triste, e dopo diventa più triste ancora… Se si prega per lui, forse riuscirà a non farlo più!” La pietà di Hanno per il gobbino, non gli impedirà, com’è noto, di sottrarsi alla sua sorte di ungeschickt.

[22] “Terzo” perché prima di lui ci furono Beniamino di Tudela, il grande viaggiatore del dodicesimo secolo, e Beniamino II che, a cavallo tra la prima e la seconda metà dell’800, viaggiò in Asia, Africa e America.

[23] Facevano eccezione gli ebrei cittadini di Varsavia, Cracovia, Lublino, ecc. che arrivano, spesso grazie al commercio, a costruire notevoli fortune:  è il caso della grande famiglia varsaviana dei Moskat dell’omonimo romanzo singeriano. Cfr. sull’argomento il saggio di Pollack, Il destino doppiamente infelice di essere polacco ed ebreo, in Stella errante, a cura di G. Massoni e G. Schiavoni, Bologna, 2000.

[24] Le dieci tribù che costituivano il regno di Israele caduto nel 722 a.C. per mano degli Assiri. Gli ebrei dovettero andare in esilio e di loro non si ebbe più notizia. Secondo una leggenda sarebbero, invece, sopravvissuti e i loro discendenti sarebbero proprio gli Ebrei Rossi.

[25] M.M. Sfurim, 1983.

[26] Chamisso, 1984.

[27] Nel folklore ebraico c’è una leggenda, secondo la quale in ogni generazione ci sono trentasei uomini giusti sui meriti dei quali si fonda il mondo. Uno di questi “lamed-vovnik” (lett. trentasei), è destinato a diventare il Messia, se la sua generazione lo merita.

[28] A. Schwarz-Bart, L’ultimo dei giusti, 1993.

Casella di testo

Citazione:

Alessandra Cambatzu, Le parole dello yiddish, IV: Schlemihl, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VII, 2, luglio 2018

url: http://www.freeebrei.com/anno-vii-numero-2-luglio-dicembre-2018/schlemihl