Weisz Arpad: L'Uomo ai bordi del campo

"Free Ebrei", III, 1, febbraio 2014

W E I S Z A R P A D. L'Uomo ai Bordi del Campo

di Dario Segato Janese

Abstract

Matteo Marani's Biography of Arpad Weisz is an interesting travel in interwar Europe through the prism of a Hungarian-Jewish soccer coach, a real winner during the 1930s but a "looser" in front of the tragic fate of European Jewry.

Questa è la storia di un libro su un uomo, e quindi è la storia di quell'uomo.

Il nome dell'uomo è stato Arpad, ma lui lo scriveva sempre dopo il suo cognome, che era Weisz, e così lo chiameremo noi: Weisz.

Tendo a pensare che chi premette il suo cognome al nome sia persona ordinata e rispettosa delle regole, perché così ci esortavano a fare a scuola fin dai primi giorni delle Elementari. I nomi si ripetono molto più dei cognomi, quindi un cognome identifica subito il suo portatore con rischi minori di omonimia.

Immagino Weisz fare ogni giorno l'appello dei suoi ragazzi per il cognome, negli spogliatoi adiacenti al campo di calcio. Perché questo faceva Weisz per vivere: insegnava a giovani , a volte poco sotto i vent'anni e a volte poco sopra i trenta, a trattare con i piedi quella palla di cuoio allora ruvido che da oltre un secolo fa sognare ed entusiasmare le folle di tutto il mondo, in quello che è il gioco più seguito e amato di questo strano mondo. Era un allenatore di calcio.

Il libro che racconta della sua vita dice poco della sua adolescenza in terra d'Ungheria - cui qui rendo omaggio perché origine della famiglia di mia madre - e che trascorreva nelle squadre di Torekves e Brno, per poi trasferirsi in Italia in forza all'Alessandria e poi all'Inter, dove un infortunio metteva precocemente fine alla sua carriera.

Ma l'amore per il calcio, anzi il Calcio come scriviamo noi moderni, lo fermava a mezza strada per gli spogliatoi: là sul bordo del campo, dove avrebbe passato tutto il resto della sua vita. O tutto il resto meno gli ultimi mesi, quelli della trasferta senza ritorno nel campo più ignobile inaugurato dall'Uomo, il cui nome resta il sinonimo di ciò che succede quanto viene violata ogni regola della morale umana: Auschwitz.

Weisz ha trascorso i suoi giorni come un uomo comune, e di lui la Storia si è quasi dimenticata: noi oggi siamo qui a darle un aiuto, io e l'autore del libro di cui sto parlando, per ricordarle che quest'uomo qualunque ha lasciato qualcosa dietro a sé. Qualcosa di importante: nei gesti, nei fatti, nelle realtà che portano il suo segno.

Weisz ha portato in Italia il calcio moderno: senza inventarlo, ma innovando rispetto alla dottrina del maestro inglese, il grande Chapman, e così facendo ha cambiato le cose per sempre. Ha dato un assetto tattico alla difesa, ha introdotto a centrocampo l'idea di una regia, e ha fondato il ruolo cardinale dell'ala. Il nostro calcio era qualcosa prima e qualcos'altro dopo di lui. E' stato il primo a scendere in campo coi suoi giocatori, un maestro in maglietta e calzoni corti a mostrare con i piedi e con il fiato i suoi schemi sull'erba, mentre i suoi colleghi continuavano a seguire le loro squadre dall'esterno, in giacca e scarpe da città. Ha posto le basi dell'assistenza sanitaria ai giocatori, portando un medico e un massaggiatore di ruolo al loro fianco, richiedendo un'infermeria sociale.

Ha scritto di calcio sul più indipendente di tutti i periodici sportivi italiani quel CALCIO ILLUSTRATO che solo resisterà fino all'ultimo alla retorica fascista e al suo nuovo e importato culto della razza ariana.

Sì, perché Weisz ha esercitato la sua professione e diffuso le sue idee nel pieno del Ventennio, salendo prima agli onori e agli ardori delle cronache dell'epoca, per poi uscirne in fretta dalla porta posteriore, in un giorno grigio di Gennaio, scacciato con tutta la sua famiglia da un editto razziale voluto e firmato da Mussolini in persona.

Weisz Arpad, allenatore tre volte campione d'Italia , con l'Inter prima e due volte con un Bologna da leggenda poi. Campione d'Europa al Torneo dell' Esposizione di Parigi nel 1936. Nessuno aveva portato una squadra italiana al trono continentale prima di lui, soprattutto battendo i maestri e inventori del calcio, quegli Inglesi così superiori da disertare i tornei delle rappresentative nazionali. Bologna-Chelsea, 4-1. Un trionfo per il solo pensatore del football che avesse interrotto gli anni di dominio della Juventus degli Agnelli, per cinque volte consecutive vincitrice del titolo.

Nel 1930, all'apice degli anni di gloria milanese, insieme al di allora direttore sportivo dell'Ambrosiana Inter Aldo Molinari, ha scritto e pubblicato con l'Editore Corticelli il GIUOCO DEL CALCIO, un manuale fondamentale in cui si espongono regole, ruoli, elementi tecnico-tattici graficamente illustrati e vengono introdotte norme e metodi di allenamento delle squadre. Il volume è onorato dalla prefazione di Vittorio Pozzo, l'artefice dei due Mondiali vinti dalla Nazionale nel '34 e nel '38, considerato il nume del calcio italiano di sempre.

Ma non c'è metodo, non c'è disciplina, non c'è merito umano che possa avere la meglio sull'umana stupidità, soprattutto quando si erge a motore dei processi storici. Le leggi razziali del 1938 calano come un'ascia sulla società civile, intese depurare i ranghi professionali e gli uffici pubblici dalla presenza ebraica in ossequio alla politica di pulizia etnica intrapresa dall'alleato tedesco. Il regime fascista ha ormai svoltato in modo irrevocabile verso la direttrice imperialista, e lo sforzo di espansione coloniale necessità dell'appoggio e della sponda di Berlino: il razzismo istituzionale è un corpo estraneo in quella mescolanza etnica e culturale che è il contesto italico, ma la ragione di Stato non conosce altro criterio che se stessa. L'editto del 7 Settembre l'espulsione entro sei mesi per tutti gli ebrei residenti dal 1933 in poi.

I tre titoli conquistati con Inter e Bologna, la vittoria europea e gli onori ricevuti dal Duce in persona, la stima e l'affetto dell'intera capitale emiliana non sono valsi a frapporsi tra la legge-scure del regime e l'uomo solo ai bordi del campo: anzi, proprio i suoi successi generano imbarazzo al principio di riduzione della presenza ebraica nei ruoli di pubblico interesse, mostrando come un umile ebreo ungherese sia riuscito dove nessun collega latino era giunto. Per questo Weisz non fu solo allontanato, ma addirittura rimosso dalle cronache e dalla memoria collettiva – quasi il Mosè dei Dieci Comandamenti, cancellato da ogni documento ufficiale per volere del Faraone - ; e tale rimozione è rimasta nei decenni , discreta e tenace come certi articoli del Codice Rocco. Questo libro, e il presente articolo che ne trae spunto, sono intesi proprio interrompe re il silenzio che perpetua un'ingiustizia.

Weisz Arpad e tutta la sua famiglia in quel silenzio sono scivolati in quel Gennaio 1939, passando per Parigi e diretti verso l'Olanda e l'ignoto oltre di essa. La capitale francese, forse più attenta ai movimenti che preparavano la tempesta che presto l'avrebbe travolta (l'1 Settembre l'esercito nazista avrebbe attraversato il confine della Polonia) che non alle passate glorie dell'uomo che solo due anni prima aveva alzato sui suoi campi il trofeo europeo, a Weisz non doveva offrire alcun lavoro.

Fu la cittadina olandese di Dordrecht, la cui società ristagnava sul fondo classifica di una prima divisione ancora dilettantesca in cui ogni giocatore aveva un secondo lavoro, a proporgli un incarico annuale. Là , lontano dalle cronache, su campi di periferia spesso persino privi di gradinate , l'autore de IL GIOCO DEL CALCIO compì il suo capolavoro oscuro e dimenticato: portare un pugno di volenterosi ragazzi privi di preparazione tattica ed atletica al quinto posto del torneo nazionale, prendendosi l'ardire di giocare da pari con le società professionali e blasonate come il Feyenoord, che riuscì persino a superare 2-1 sul campo.

Nessuno oltre i confini della contea avrebbe celebrato quelle vittorie – in Olanda all'epoca non esisteva neppure un quotidiano sportivo - ma oggi non possiamo che riconoscervi la mano di un grande maestro del calcio.

Purtroppo, nessun arbitro fu lì a fischiare il netto fuorigioco tedesco la notte del 10 Maggio 1940, quando il campo olandese fu invaso e in due soli giorni annesso alla spietata nuova dirigenza formata dagli austriaci Rauter e Seyss-Inquart. L'incarico, semplice e agghiacciante, era di drenare le risorse del Paese al massimo livello possibile per sostenere l'ulteriore sforzo bellico in direzione della Francia e nel farlo di attuare le direttive di pulizia etnica dalle quali Weisz e la sua famiglia avevano creduto di fuggire lasciando l'Italia: ma senza le lentezze e le inefficienze (che spesso mascherarono la svogliatezza e un inizio di dissenso con cui le nostre autorità locali interpretavano le leggi razziali. Repressione ed eliminazione della presenza ebraica in Olanda seguirono una tabella rapida e precisa , che in poco più di un anno e mezzo passò dall'interdizione dai pubblici uffici alla deportazione vera e propria.

Nel primo periodo Weisz, coinvolto dal provvedimento che impediva all'"elemento giudeo" di esercitare un qualsiasi lavoro di pubblico rilievo - ivi compreso il settore sportivo - si adattò a seguire la squadra dalle retrovie, confuso in abiti borghesi tra il pubblico ai bordi del campo, e comunicando le direttive tecniche, schemi e sostituzioni passando di mano dei biglietti destinati al collaboratore che risultava ufficialmente responsabile della squadra. Possiamo solo immaginare l'umiliazione e la frustrazione di chi, come lui, aveva fatto del suo mischiarsi ai giocatori il suo metodo e il suo segno distintivo; ma anche questo sarebbe presto passato in secondo piano, di fronte all'interruzione definitiva della partita.

Già dal Maggio del 1942 gli Ebrei furono obbligati a indossare la famigerata stella gialla di Davide che ne permetteva il riconoscimento a vista: fu loro proibito l'uso dei mezzi pubblici e del telefono, l'accesso a qualsiasi casa non giudea, e dovettero subire un rigido orario di uscita diurna e serale.

Il 22 Giugno la macchina amministrativa nazista si mise in moto secondo un programma che prevedeva la deportazione di 40.000 ebrei nei campi di lavoro tedeschi - così venivano ufficialmente chiamati. I primi 4000 salirono sui treni per la Germania in data 15 Luglio, presentandosi dietro la minaccia delle autorità di fucilare 700 persone di razza ebraica preventivamente rastrellate e tenute in ostaggio nelle carceri.

Alle prime ore del mattino del 2 Agosto 1942 l'intera famiglia Weisz venne arrestata e trasferita al campo di smistamento di Westerbord, e di lì alla destinazione finale: Auschwitz.

Ilona Weisz e i due figli Roberto e Clara, ancora bambini, appena arrivati vennero immediatamente indirizzati agli stabilimenti da cui nessuno mai tornava, e che nascondevano l'ignobile, allucinante realtà delle camere a gas. Arpad non li rivide mai più.

Solo, sostenuto da un fisico atletico e abituato alla fatica, quest'uomo introverso e dignitoso dal carattere paziente ma forte sopravvisse agli stenti , al lavoro e alle percosse in condizioni che non potremmo neanche iniziare a immaginare. Cedette, alla fine, al mattino dell'ultimo giorno di Gennaio del 1944, poco dopo il quinto anniversario di quell'altro mattino in cui con la sua famiglia aveva lasciato Bologna e l'Italia che gli aveva voltato le spalle.

Fu gettato in una fossa comune con le altre vittime della giornata. Weisz Arpad era una di quelle persone che scrivono il loro cognome prima del nome, come un tempo ci veniva insegnato a scuola: la cui tempra è formata al rispetto degli altri e delle regole del vivere civile, che seguono la loro indole e la loro strada con discrezione ma determinati, composti e fiduciosi in una società che a volte li solleva, a volte li abbatte, a volte li priva di tutto - ma non ha mai, ripeto mai, il diritto di dimenticarli.

Questo breve articolo, che si scusa di non essere uno studio critico né una recensione, è un contributo al ripristino della memoria storica – che oggi quanto mai ha bisogno di tutto l'aiuto possibile - e segue un libro bello e appassionato di Matteo Marani dal titolo : "Dallo Scudetto ad Auschwitz". Leggerlo e ricordarselo è un atto di giustizia verso un uomo che ha amato il calcio al punto da rinnovarlo, e l'ha amato al punto di portarlo a noi cambiato in meglio, per non riceverne mai abbastanza in cambio, come capita all'amore mal corrisposto.

Leggerlo e ricordarlo significherà fare in modo che all'appello della Storia torni a rispondere un nome e cognome che non avrebbe mai dovuto essere dimenticato.

Arpad Weisz.

Presente.

Casella di testo

Citazione:

Dario Segato Janese, Weisz Arpad. L'uomo ai bordi del campo, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", III, 1, febbraio 2014

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