"Free Ebrei", V, 1,
marzo 2017
Dov Waxman, Trouble in the tribe. The American-Jewish Conflictover Israel, Princeton (New Jersey), Princeton University Press, 2016
di Fulvio Miceli
Abstract
Fulvio Miceli reviews Waxman's essay on the relationship between Israeli State and American Jewish community in the last fifty years.
L’emergere, in seno alla comunità ebraica
americana, di un conflitto politico, talora dai toni fortemente polemici e
virulenti, circa lo Stato di Israele è il tema di questo saggio di Dov Waxman,
professore di Scienze Politiche, Affari Internazionali e “Israel Studies” alla
Northeastern University. L’autore dichiara nell’introduzione del volume di
voler fornire un’analisi il più possibile oggettiva del fenomeno, anche se lui
stesso prevede che la sua posizione personale circa la questione, o per meglio
dire il complesso di questioni, al centro del dibattito non potrà non emergere,
almeno in parte, nel corso della trattazione. L’impressione di fondo è
sicuramente che Waxman sia riuscito nel suo intento, offrendo a chiunque sia
interessato al futuro di Israele e, in particolare, al cruciale rapporto tra di
esso e la comunità ebraica statunitense, un utile strumento di conoscenza.
L’orientamento politico dell’autore, che sembra propendere verso posizioni di
critica da sinistra a Israele, non inficia quasi mai l’attendibilità e il
rigore dell’analisi.
Waxman parte da una mappatura delle “forze”
psicologiche e sociali alla base del sostegno della comunità ebraica americana
a Israele e ne traccia una breve storia dal 1948 ad oggi. Ne consegue una
certamente meritoria demistificazione della rappresentazione stereotipata della
comunità ebraica americana come compattamente e stabilmente impegnata nel
sostegno ideologico al progetto sionista prima e allo Stato di Israele poi.
Waxman ricorda come fino alla seconda guerra mondiale le principali
organizzazioni ortodosse e riformate statunitensi fossero ufficialmente
antisioniste e come, anche dopo la nascita di Israele, fino al 1967
l’atteggiamento fondamentale della comunità americana sia stato sì di appoggio
all’indipendenza dello Stato ebraico, ma nel quadro di un sostanziale
disinteresse verso di esso. Soltanto la guerra dei sei giorni, con l’angoscia
per la possibilità di un “nuovo Olocausto” seguita dal sollievo per lo scampato
pericolo e dall’orgoglio per la vittoria militare sugli eserciti arabi avrebbe
aperto per gli ebrei americani una stagione di appassionata identificazione con
Israele e di sostegno tendenzialmente acritico ed automatico. Stagione dell’
“israelolatria”, secondo la definizione di Waxman, che avrebbe per altro ben
presto lasciato il posto a un maggiore pluralismo, con la “disillusione” di
molti e l’emergere di voci critiche a partire dalla vittoria delle destre
israeliane nel 1977 e in seguito con le lacerazioni prodotte dalla guerra del
Libano nel 1982, dalla “prima Intifada” nel 1988, dagli accordi di Oslo e dal
loro successivo fallimento a cavallo tra gli anni Novanta e il 2000. Disillusione
non significa tuttavia fine e nemmeno diminuzione dell’attaccamento a Israele
da parte degli ebrei americani, anche perché, argomenta Waxman, tale
attaccamento non è mai stato precipuamente ideologico, essendo piuttosto
radicato in quelle che potrebbero essere chiamate le “cinque F”: familism,
fear, functionality, faith, fantasy. A dare vita e a rafforzare l’attaccamento
degli ebrei americani verso Israele sarebbero cioè i legami familiari e i
vincoli di solidarietà nei confronti degli altri ebrei, la paura generata dalle
minacce esterne, la ricerca di un sostituto secolarizzato dell’identità
religiosa ebraica ma anche, quando questa è presente, i sentimenti verso la
patria ebraica connessi alla fede religiosa e, infine, il ruolo di Israele come
luogo dell’immaginario, oggetto di fantasie più che di conoscenza. L’affermarsi
di voci critiche nei confronti di Israele è di fatto coincisa cronologicamente,
nota Waxman, con un aumento della conoscenza anche diretta del paese
all’interno della comunità ebraica americana e dunque, presumibilmente, anche
con un aumento dell’interesse verso Israele come luogo reale piuttosto che come
proiezione dell’immaginario. Lo stesso collegamento tra sostegno automatico e
ignoranza da un lato e tra critiche e conoscenza dall’altro sembra avvalorato
dall’affermazione che la vittoria israeliana nella guerra dei sei giorni
avrebbe determinato un’ondata di solidarietà verso Israele motivata da timori
per la sua sopravvivenza che quella stessa vittoria avrebbe dimostrato essere
sostanzialmente infondati. Nessuna delle due circostanze sembra però decisiva
per avvalorare l’interpretazione di Waxman. Di fatto, come lui stesso ricorda,
la conoscenza diretta di Israele e l’importanza attribuita al legame con esso
sono superiori in quei settori della comunità ebraica americana, come gli ebrei
ortodossi, presso i quali anche il sostegno politico allo Stato ebraico è più
forte e tendenzialmente più incondizionato. La vicende militari del '67, d’altro
canto, possono essere viste almeno altrettanto legittimamente come una conferma
della necessità e dell’utilità per Israele di essere pronto all’uso della forza
che come una dimostrazione della sua presunta incontrastata superiorità
militare. In generale, poi, appare assente dall’analisi di Waxman la
considerazione del ruolo che nell’evoluzione dell’attitudine ebraica verso
Israele possono aver giocato l’opinione pubblica americana e internazionale.
L’ipotesi che, almeno in parte, un analogo fenomeno verificatosi in quel più
ampio contesto abbia influenzato e favorito l’emergere e il rafforzarsi
all’interno dell’ebraismo americano delle nuove voci critiche verso Israele non
è presentata da Waxman nemmeno per essere respinta, il che non può che apparire
come un limite del suo lavoro.
L’emergere all’interno dell’ebraismo americano di voci pubblicamente critiche
verso Israele, di contro a una tradizione che non escludeva il dissenso, ma lo
confinava all’interno delle comunità e delle famiglie è invece ricondotto da
Waxman anche un nuovo senso di sicurezza e di orgoglio e al conseguente rifiuto
di mantenere una posizione subordinata rispetto ai governi israeliani. Se negli
anni Sessanta e Settanta un tacito consenso assegnava alla democrazia israeliana il diritto
di decidere delle proprie politiche e del proprio futuro e alla Diaspora il
compito di sostenere queste scelte, sia politicamente che finanziariamente,
oggi gli ebrei americani rivendicano il diritto e il dovere di contestare le
politiche israeliane da loro non condivise. A loro volta - in particolare le
critiche a Israele rivolte da una prospettiva pacifista e di sinistra -hanno
provocato reazioni di virulente critiche –tipicamente, l’ accusa di essere
“self-hating jews”- da parte dei settori della comunità ebraica americana più
allineati con le posizioni dei governi israeliani. Descrivendo un clima di
intolleranza interna alla comunità ebraica americana, tentativi di emarginazione
dei gruppi di sinistra e pacifisti, Waxman sembra ancora trascurare di prendere
in considerazione il rapporto tra le dinamiche interne alla comunità ebraica e
le pressioni esterne, per esempio dei gruppi a favore del BDS (boicottaggio,
disinvestimento, sanzioni) nei college americani. I gruppi (e i singoli ebrei)
più critici verso Israele, sebbene minoritari rispetto alle posizioni
prevalenti nella comunità ebraica, possono tuttavia essere percepiti al suo
interno come allineati a una crescente corrente di critica a Israele nel più
vasto contesto della società americana e dell’opinione pubblica internazionale,
e ciò può forse contribuire all’insofferenza nei loro confronti da parte di chi
a questa corrente si oppone da una posizione a sua volta di minoranza o,
comunque, sempre più controversa e soggetta a critiche. La sfida posta alla
comunità ebraica americana dal dissenso interno su Israele è comunque descritta
in modo sostanzialmente equilibrato da Waxman, che riconosce come, accanto
all’esigenza di garantire un dibattito pluralistico e la più ampia
rappresentatività possibile delle organizzazioni comunitarie, sia
inevitabilmente presente anche quella di stabilire “linee rosse” tra le
posizioni su Israele accettabili e quelle inaccettabili all’interno
dell’ebraismo americano e come tale esigenza sia connessa alla stessa necessità
di definizione identitaria di una comunità caratterizzata dalla diminuzione e
dalla diversificazione dell’osservanza religiosa, e nella quale il sostegno a
Israele aveva teso a diventare nel tempo una sorta di sostitutiva ortodossia
secolare. Per quanto la “tenda” dell’ebraismo americano possa essere allargata
per contenere posizioni “eterodosse” su Israele, dunque, un’apertura
indiscriminata sarebbe impossibile, in quanto comprometterebbe l’unità e la
stessa auto identificazione della “tribù” raccolta al suo interno.
Passando a una descrizione analitica della discussione ebraico-americana su
Israele, Waxman propone una ripartizione dello spettro politico della comunità
in quattro campi: il centro destra, la destra, il centro-sinistra e la
sinistra. Le linee di frattura tra di essi sono individuate nei orientamenti
relativi a cinque tematiche:l’attitudine verso il sionismo, l’attribuzione
della responsabilità per il conflitto israelo-palestinese, il giudizio
sull’ipotesi della soluzione a due stati di tale conflitto, la liceità della
critica pubblica e Israele da parte ebraica e l’opportunità di pressioni
esterne per orientare le scelte politiche di Israele. La posizione definita di
centro-destra é rappresentata, per esempio, dall’AIPAC (American Israel Public
Affairs Committee, ad oggi la più influente organizzazione di lobbyng
pro-Israele a Washington, e quella con il maggior numero di aderenti) o da un
popolare saggista come Alan Dershowitz, è caratterizzata da un giudizio
positivo circa il sionismo, dalla convinzione che la colpa del conflitto tra
israeliani e palestinesi ricada esclusivamente su questi ultimi, dall’appoggio
teorico alla soluzione a due stati, ritenuta però al momento di fatto
impraticabile per la fondamentale indisponibilità dei palestinesi, e dal
rifiuto delle critiche da parte ebraica e in generale di ogni pressione esterna
verso Israele. Tendenzialmente inoltre, coloro che possono essere collocati
nell’ambito del “centro-destra” ebraico, pur non appoggiando l’espansione degli
insediamenti, non li considerano nemmeno un ostacolo alla pace o una questione
decisiva. L’accordo dell’amministrazione Obama con l’Iran è invece considerato
con grande preoccupazione, come un rafforzamento del regime degli ayatollah e
una minaccia alla sicurezza di Israele. La posizione della destra si
differenzia da quella del centro-destra per un giudizio accentuatamente
negativo circa la soluzione a due stati, ritenuta in sé stessa sbagliata e/o
pericolosa, e non solamente impraticabile, e per l’accettazione delle critiche
pubbliche a Israele da parte ebraica, soltanto però se mosse dal punto di vista
dei “falchi” sulle questioni di sicurezza, come nel caso dell’opposizione della
galassia neo-conservatrice e di un gruppo come la ZOA (Zionist Organization of
America) agli accordi di Oslo. Contraria a concessioni territoriali e alla
sospensione dell’espansione degli insediamenti, la destra ebraica americana si
differenzia però da quella israeliana per l’assenza di una consistente
componente nazional-religiosa, che fornisca a tali posizioni una
giustificazione ulteriore rispetto alla preoccupazione secolare e laica per la
posizione strategica di Israele. Il giudizio positivo sul sionismo è invece
l’unico punto di contatto tra la posizione di centro-sinistra, rappresentata da
organizzazioni recentemente affermatisi alla ribalta della vita politica
ebraico-americana come J Street e da commentatori come Peter Beinart, e quelle
del centro destra e della destra. Di contro a queste ultime, la posizione di
centro-sinistra è caratterizzata dall’idea che la colpa del conflitto
israelo-palestinese sia condivisa dalle due parti, dal considerare urgente e
necessaria la soluzione a due stati e legittime le critiche da parte ebraica a
Israele e dall’appoggio alle pressioni diplomatiche a Israele. Gli insediamenti
sono considerati un ostacolo alla pace e una minaccia per il futuro di Israele,
mentre l’accordo tra l’amministrazione Obama e l’Iran è stato appoggiato, per
esempio, da J Street. La preoccupazione politica centrale di questo gruppo è
indicata da Waxman negli sviluppi demografici che, si teme, renderanno nel
tempo impossibile a Israele restare uno Stato ebraico e al contempo democratico
mantenendo il controllo dei territori contesi con i palestinesi. La posizione
di sinistra, infine, rappresentata da gruppi come Jewish Voice for Peace e da
singoli intellettuali come Judith Butler, è caratterizzata dal giudizio
negativo sul sionismo, dall’attribuzione della colpa per il conflitto con i
palestinesi al solo Israele (o comunque principalmente ad esso), da un giudizio
più accentuatamente negativo sulla soluzione a due stati, ritenuta
irrealistica, o superata, o comunque meno desiderabile di alternative quali lo
stato unico o binazionale, e infine dal sostegno non solo a pressioni
diplomatiche su Israele, ma anche al BDS.
L’opinione prevalente tra gli ebrei americani, così com’è registrata da
indagini statistiche come quella del Pew Reserarch Center del 2013, incrocia
elementi del complesso ideologico di “centro-destra” e di quello di
“centro-sinistra”. In particolare, mentre la maggior parte degli ebrei
americani favorisce una soluzione a due stati del conflitto israelo-palestinese
e la reputa tuttora possibile (61%), una maggioranza anche più consistente (i
tre quarti del campione) ritiene sostanzialmente inaffidabili come partner di
pace i palestinesi e individua nella distruzione di Israele anziché nella
costruzione di uno stato indipendente il vero obbiettivo del loro movimento
nazionale. Analoga ambivalenza può essere riscontrata nei giudizi circa le
risposte militari israeliane al terrorismo palestinese, ritenute giustificate
dalla maggioranza degli ebrei americani (69%), sebbene una maggioranza non molo
inferiore (59%) dubiti della loro efficacia.
A fronte di dati generali che restituiscono l’immagine di una comunità composta
per lo più da “centristi ambivalenti”, l’analisi della distribuzione delle
opinioni mostra diverse linee di frattura tra sottogruppi, alcuni dei quali
statisticamente più propensi a un sostegno incondizionato a Israele e altri
statisticamente più disponibili a formulare critiche e riserve. In particolare,
rientrano nella nella prima categoria gli ortodossi, compresi gli haredi,
i conservatori (in senso politico) e i più anziani, nella seconda non ortodossi
(conservatori, riformati, ricostruzionisti ed ebrei secolari), liberal e
giovani.
La divisione circa Israele si è espressa in conflitti politici aperti negli
organismi rappresentativi dell’ebraismo americano, nella contestazione e nella
parziale marginalizzazione del suo establishment, in un clima di crescente
animosità e intolleranza reciproca. In molte comunità locali Israele, un tempo
la religione civile degli ebrei americani, è divenuto un argomento così
divisivo da essere considerato quasi un tabù, qualcosa di cui non parlare per
evitare insanabili fratture, o di cui parlare solo con l’aiuto di consulenti
professionali specializzati nel favorire discussioni civili. Un altro importante
sviluppo, potenzialmente portatore di importanti conseguenze politiche, si è
avuto con la divisione della lobby pro-Israele a Washington, che ormai non
parla ai centri di potere della politica statunitense con una voce unitaria, ma
con voci differenti e conflittuali, che tuttavia rivendicano tutte il proprio
essere pro-Israele e anzi, sostengono in genere di essere le sole a promuovere
gli autentici interessi dello Stato ebraico. Tale processo di frammentazione,
fatto risalire da Waxman all’appoggio della piccola organizzazione Americans
for Peace Now alla sospensione delle garanzie di presitito a Israele
dall’amministrazione Bush senior, e accresciutosi con l’opposizione di
organizzazioni come la Zionist Organization of America agli accordi di Oslo, è
divenuto un fenomeno molto più rilevante con l’emergere nel 2007 di
un’organizzazione come J Street, collocabile nel campo del “centro-sinsitra”.
La rapida crescita dell’organizzazione in termini di aderenti, di visibilità e
di finanziamenti e il suo appoggio alla politica mediorientale
dell’amministrazione Obama, osteggiata dal governo Netanyahu e dalle
organizzazioni pro- Israele centriste e di destra, l’hanno resa in breve tempo
una realtà in ascesa della politica americana, mentre nella comunità ebraica si
sono presto manifestati i suoi appassionati sostenitori e i suoi altrettanto
appassionati detrattori. L’ effetto probabile di questa frammentazione sarà la
perdita di influenza della lobby pro-Israele; uno sviluppo reso possibile dalla
stessa moltiplicazione delle voci che, in teoria, dovrebbero difendere una
stessa causa. Quali di queste voci dovrebbe essere riconosciuta come
l’autentica espressione del punto di vista della comunità ebraica americana e
degli interessi di Israele e quale, di conseguenza, dovrebbe essere ascoltata
dal Congresso e dal Presidente degli Stati Uniti ?
La decisiva importanza di questa domanda si è riflessa in un ulteriore
dibattito che ha scosso la comunità ebraica americana: quello sulla
rappresentatività del suo establishment, aperto da un articolo del saggista
liberal Peter Beinart, pubblicato nel maggio del 2010 dall New York
Review of Books. L’accusa ai dirigenti delle comunità e delle associazioni
ebraiche e pro-israeliane di essere non rappresentativi è in realtà secondo
Waxman quanto meno imprecisa. L’establishment è infatti realmente
rappresentativo di quella parte della popolazione ebraico-americana più
attivamente impegnata nella vita comunitaria e religiosa e ne veicola
abbastanza fedelmente le idee – incluse quelle su Israele - nell’arena
pubblica. Ciò non toglie che molti ebrei americani, soprattutto tra i più
giovani, si sentano lontani sia dall’establishment sia dalla vita comunitaria e
cerchino delle alternative. Un fenomeno rilevante è in questo senso l’emergere
di una galassia di associazioni ebraiche indipendenti, come per esempio
American Jewish World Service, focalizzate su temi come la giustizia sociale,
l’eguaglianza di genere e l’ambientalismo e poco, o per niente, sull’impegno a
favore di Israele
A fronte della tendenza attuale alla crescita di posizioni di critica a Israele
da sinistra, se non alla perdita della centralità del rapporto con Israele, vi
è tuttavia un dato, più significativo sul medio e lungo periodo, che potrebbe
infine far pendere la bilancia dell’orientamento politico della comunità
ebraica americana nella direzione opposta. Si tratta del trend demografico di
crescita della componente ortodossa della comunità ebraica e di diminuzione
della componente non ortodossa, espresso chiaramente dai tassi di natalità di
4,1 per gli ortodossi e di 1,7 per i non ortodossi (nettamente al di sotto del
“livello di sostituzione” di 2,1). Poiché il gruppo ortodosso è in generale più
legato a Israele, più attestato su posizioni che nello schema di Waxman rientrano
nella definizione di “destra” e “centro-destra”pro-israeliani, e più
conservatore su altri temi della vita politica americana (fattore a sua volta
statisticamente associato a un sostegno più incondizionato a Israele) sembra
plausibile che nel medio lungo periodo da un lato si produca una
semplificazione del dibattito politico interno all’ebraismo americano, con una
polarizzazione tra ortodossi, più incondizionatamente pro-Israele, e non
ortodossi, più disposti alla critica pubblica, dall’altro si consolidi una
netta maggioranza di “falchi” ortodossi, a discapito delle “colombe” non
ortodosse. A sua volta, quest’ultimo sviluppo potrebbe dar luogo a uno scenario
inedito nella vita politica americana, con lo spostamento del voto ebraico,
finora andato ai democratici in modo largamente maggioritario, verso il Partito
Repubblicano. Uno cambiamento storico che, unito alla disaffezione
dell’elettorato liberal a Israele, potrebbe spingere i
democratici su posizioni sempre più critiche se non ostili a Israele, ponendo
fine all’epoca del sostegno bipartisan allo Stato ebraico.
In conclusione, dall’analisi di Waxman si
possono, credo, trarre utili indicazioni applicabili alle dinamiche politiche
del campo pro-israeliano, plausibilmente non solo americano.
Il processo di differenziazione politica interna alla comunità ebraica
americana e della stessa lobby pro-Israele manifesta come, posto che sia mai
stato appropriato, sia ormai fuorviante definire il sostegno a Israele in
termini di approvazione acritica delle decisioni dei suoi diversi governi
eletti. Tra l’altro, si potrebbe osservare che poiché questi governi cambiano e
adottano politiche differenti, se non contraddittorie, una stesso gruppo o
individuo si troverebbe, secondo questo criterio ad essere o a non essere
classificato come pro-Israele a seconda dei diversi responsi delle urne (e dei
diversi esiti dei tentativi di formare coalizioni alla Knesset). Così, ammesso
che a J Street debba essere rifiutato lo status morale di organizazione
pro-Israele mentre è in carica il governo Netanyahu, verso il quale è
fortemente critica, essa diverrebbe pro-Israele non appena entrasse in carica un
governo israeliano le cui politiche incontrassero la sua piena approvazione.
Allo stesso modo, mentre un gruppo come la Zionist Organization of America
sarebbe certamente pro-Israele con Netanyahu al governo, non lo sarebbe stato
quando al governo era Rabin, le cui politiche aveva apertamente disapprovato.
Nondimeno, altrettanto manifesta è la necessità di fornire una qualche
definizione di che cosa sia una posizione politica pro-Israele e di stabilire
delle “linee rosse”. Sarebbe in effetti singolare che organizzazioni e individui
che promuovono programmi politici molto simili a quelli di dichiarati nemici di
Israele, come la fine del carattere ebraico dello Stato o la campagna di
boicottaggio, fossero classificati come pro-Israele. Per il campo dei
sostenitori di Israele, non solo americano, queste due contrastanti esigenze,
quella del pluralismo e quella dell’autodefinizione, appaiono come ineludibili
necessità politiche, per evitare gli opposti rischi della frammentazione
settaria e dell’indifferenziazione, che per diverse vie lo condannerebbero a
uno stesso destino di irrilevanza. La possibilità della loro composizione,
d’altro canto, sembra dipendere da una preliminare distinzione concettuale che,
in quanto tale, può essere un’esigenza anche dell’osservatore neutrale. Sebbene
le linee di confine possano talora confondersi e sovrapporsi, e sebbene in
passato si sia spesso evitato di tracciarle, vi è una differenza di fondo tra
il sostegno a una particolare visione politica del futuro e delle necessità di
Israele il sostegno allo Stato di Israele. Sostenere lo Stato
di Israele può significare, per esempio, impegnarsi a spiegare all’opinione
pubblica del proprio paese scelte politiche che non si condividono, ma che sono
sostenute dalla maggioranza degli israeliani per circostanze e ragioni che non
dovrebbero essere ignorate da chi voglia giudicarle con imparzialità, o può
voler dire opporsi a pressioni volte a promuovere cambiamenti che si
giudicherebbero positivi, perché si ritiene che tali pressioni recherebbero
tuttavia a Israele un danno pericoloso e inaccettabile. Invece, sostenere lo Stato di
Israele, non può voler dire essere tenuti ad approvare ogni scelta politica
compiuta dai suoi governi, perché porre una tale condizione sarebbe, prima
ancora che controproducente e irrealistico, del tutto illogico.
Casella di testo
Citazione:
Dov Waxman, Trouble in the tribe (recensione di Fulvio Miceli), "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VI, 1, marzo 2017
url: http://www.freeebrei.com/anno-vi-numero-1-gennaio-giugno-2017/dov-waxman-trouble-in-the-tribe
Steegle.com - Google Sites Like Button
Steegle.com - Google Sites Tweet Button