Martin Buber, Israele e i popoli, a cura di Gabriele Guerra

"Free Ebrei", VI, 1, febbraio 2017

Martin Buber, Israele e i popoli. Per una teologia politica ebraica, a cura di Stefano Franchini, Brescia, Morcelliana, 2015, 288 pagine, € 23 

 

di Gabriele Guerra

Abstract

Gabriele Guerra discusses the problems faced and raised by Martin Buber's writing edited by Stefano Franchini. He mostly focuses on Francesco Ferrari's interpretation of Buber's thinking.

Benché su questo sito sia già apparsa una recensione, interessante e condivisibile, a firma di Francesco Ferrari, del presente volume buberiano curato da Stefano Franchini (cfr. http://www.freeebrei.com/anno-iv-numero-2-luglio-dicembre-2015/martin-buber-israele-e-i-popoli-a-cura-di-franchini), si ritiene utile intervenire con alcune precisazioni e approfondimenti in direzioni che la recensione di Ferrari non contempla.

Se si volesse, con qualche forzatura, ridurre il senso di questo libro, che recupera materiali e atmosfere della Germania ebraica e non tra anni Venti e Trenta, a una singola frase, essa potrebbe essere la feroce, in parte anche ingiusta affermazione di Walter Benjamin – contenuta in una lettera all'amico Scholem del 1936 – secondo la quale Buber «ha potuto introdurre la terminologia del nazionalsocialismo, tale e quale, nella discussione di problemi ebraici». Non si tratta certo, né per Franchini né per me (e tantomeno per Ferrari) di assumere in tutta la sua portata questa sanzione benjaminiana verso il filosofo del pensiero dialogico, rimproverandolo di occulte simpatie naziste; occorre però – e a mio parere questo libro offre allo scopo materiali assai preziosi – prendere un po' sul serio il verdetto, anche per provare a uscire dalle secche in cui la recezione internazionale del pensiero ebraico-tedesco (specie di matrice americana)  talvolta sembra cadere; secche che finiscono per produrre un'immagine idilliaca e armonica di quella stagione per molti versi irripetibile, che poi il nazismo ha malvagiamente e pervicacemente distrutto. In verità non pochi pensatori ed intellettuali ebraico-tedeschi guardarono, diciamo non con orrore, all'ascesa al potere di Adolf Hitler. Non è il caso di Buber, ovviamente; e tuttavia occorre ricordare come da un lato le matrici culturali, dall'altro l'atteggiamento del Buber “tedesco” (ovvero prima che le svolte storiche e le decisioni esistenziali imponessero l'esilio in Palestina) si articolano intorno a una serie di issues storico-spirituali tipicamente tedesche, la cui genealogia è da rintracciare in Nietzsche e in una certa attitudine teoretica (non dirò filosofia) irrazionalistica e vitalistica, accanto alle quali, anzi perfino in virtù delle quali Buber sviluppa la sua personale riscoperta del chassidismo e della mistica ebraico-orientali. Ora, la domanda che deve muovere il lettore avvertito degli scritti di Buber – quello cioè che non intende accettare supinamente l'etichetta che al filosofo ebreo-tedesco viene appiccicata dai manuali di storia della filosofia, di pensatore ebraico del dialogo ecumenico – consiste semplicemente in questo interrogativo: sussiste o meno una continuità – di pensiero e di atteggiamento esistenziale – tra il Buber tedesco e quello palestinese? La domanda può parere allo specialista destituita di ogni fondamento, perfino inutile, in fondo, come tutte le domande che postulino una qualche Kehre in un pensatore; e tuttavia essa pare invece utile, quando si tratta di ripercorrere criticamente le stazioni della sua formazione intellettuale, anche per provare a sottrarre Buber a quell'immagine irenica ed ecumenica che troppo spesso finisce per trasformarlo in un santino interculturale.

Giustamente lo stesso Ferrari sottolinea ad esempio, in chiusura della sua recensione, come il pensiero dialogico buberiano non sia impostato a semplice e «buonista compiarcersi reciproco», quanto piuttosto al confronto che diventa, «se è il caso, polemos, quando non Streit». È proprio a partire da queste premesse che Buber si impone il confronto con pensatori, accademici e ricercatori tedeschi molto lontani da lui, anche quando si tratta di scendere in arene politicamente sospette. Il merito di questo libro curato da Franchini è appunto quello di aver restituito, in maniera vivida e vivace, ancorché filologicamente e teoreticamente inappuntabile, un paio di questi “confronti”, dai quali emerge chiaramente da un lato proprio questa intenzione buberiana genuinamente “polemica”, che trova cioè nell'Auseinandersetzung con posizioni politicamente divaricate rispetto alla sua il suo momento più intenso, se non addirittura eccitante (nel sentirsi cioè in partibus infidelium); e dall'altro il fatto, ancor più interessante, che tale intenzione buberiana venga spesso, dalla sua controparte nazionalista e/o völkisch (ché di questo infine si tratta, nella maggior parte dei casi dei suoi interlocutori di epoca weimariana) osservata con grande interesse – se non addirittura ammirazione dettata dalla sensazione dell'aver ritrovato, in quell'ebreo dalla lunga barba e studioso della religione ebraica, un interlocutore all'altezza di quel germanesimo più o meno culturale di cui essi si sentono indefettibili portatori.

L'atteggiamento di Buber, come anche dei suoi antagonisti völkisch, trova più in generale la sua radice nella percezione dell'ebreo dominante nella società guglielmina tedesca tra fine Ottocento e presa del potere da parte dei nazisti: una percezione scandita dialetticamente dai due poli di attrazione e repulsione, di riscoperta dell'ʻesoticoʼ e di rifiuto dell'elemento estraneo e minaccioso che l'ebreo sembra incarnare. Anche il nascente sionismo sembra in gran parte prediligere una simile dialettica, rifiutando sdegnosamente il “Talmudjude” chino su libri polverosi, e auspicando lo sviluppo di un “Muskeljudentum” (stante la convincente definizione di Max Nordau) cui non è estranea una certa atmosfera nietzschiana di riscoperta dell'”uomo nuovo”; un uomo nuovo che ha bisogno, per essere tale, di una comunità altrettanto nuova, una comunità di popolo: questo in estrema sintesi è quello che caratterizza ciò che il curatore chiama l'«ambiente neonazionalista sionista» cui, in parte, appartiene anche Buber. Il «mito elementare […] implicito nel Volk» di cui parla Mosse nel suo fondamentale studio su Le origini culturali del Terzo Reich (il Saggiatore, Milano 1968), anche a proposito del giovane Buber, si alimenta proprio di queste proiezioni superomistiche dell'Ebreo Nuovo, che assume una propria, radicale e orgogliosa identità a partire dal suo autoriconoscimento all'interno di un ben determinato complesso comunitario, strutturato intorno alle figure concettuali del sangue, dello spirito, del luogo riconoscibile in cui tale Volk è destinato a inverarsi; come si vede, sono – mutatis mutandiis – le stesse coordinate del pensiero völkisch. Perfino il retroterra religioso dentro il quale si muove questo pensiero legato al mito del Volk, si mostra simile – tanto che non riesce difficile immaginare come certi passaggi della conferenza di Buber tenuta appunto al convegno di Kassel dei primi del gennaio 1933, che dà il titolo alla silloge in traduzione italiana, possano avere incontrato approvazione più o meno entusiastica dagli altri partecipanti (i quali, come ricorda il curatore, annoveravano due filosofi esplicitamente nazionalsocialisti e diversi esponenti della galassia rivoluzionario-conservatrice), come ad esempio questo, circa l'esposizione che Buber fa della relazione che intercorre tra Legge e costituzione sociale di tipo agrario nell'Israele biblico: «Comunità popolare significa che tra un individuo e l'altro all'interno del popolo, e quando essi si incontrano per la prima volta, deve essere possibile immediatezza, che le differenze non possono mai essere incrementate a tal punto da minare questo legame, questa capacità di immediatezza all'interno del popolo» (p. 79). Certamente, a garante della sua argomentazione di tipo circolare (la comunità di Israele è santa perché è immediatamente data tra i suoi membri; ed è immediata perché è la comunità di Israele), Buber non pone un principio razziale (biologico o spirituale che sia), ma uno squisitamente metafisico-teologico, ovvero il Dio di Israele – nondimeno, appare lecito supporre che un tale lessico abbia quantomeno suscitato tra i suoi ascoltatori una serie di collegamenti immediati con l'attualità (che è quella, giova ricordarlo, immediatamente antecedente alla nomina di Hitler a cancelliere). 

In fondo, il grande problema di questo Buber che discute con tutti, è assai semplice da riassumere: e già lo fece un suo dottorando, Nahum Glatzer (futuro rabbino poi emigrato in America) in una lettera del 27 aprile 1933 al suo maestro, quando scrive, a proposito dei primi provvedimenti antiebraici presi dal neo-cancelliere Hitler: «Ci espellono da loro stessi, ma noi non possiamo espellerli da dentro di noi: sarà sopportabile questo dissidio? Possiamo vivere circondati da così tanta ostilità? Non deve forse andarsene chiunque possa in qualche modo farlo?» (una lettera citata dal curatore Franchini nella sua assai esaustiva e stimolante introduzione Imbarazzi teologico-politici alle soglie della dittatura, Nt. 18, p. 21). Proprio a partire da questo “dissidio insopportabile” tra “loro” e “noi” – e tuttavia da questo legame, altrettanto insopportabile, con il “loro” dentro di noi, che diviene possibile forse cominciare a capire cosa fu l'ebraismo tedesco.

Casella di testo

Citazione:

Martin Buber, Israele e i popoli, a cura di Gabriele Guerra, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VI, 1, febbraio 2017

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