Lernen

"Free Ebrei", VII, 1, gennaio 2018

Le parole dello yiddish

di Alessandra Cambatzu

Abstract

Alessandra Cambatzu explains the semantic sphere of "Learn" in yiddish language, starting from the origin and the meaning of the word and, through the memories of Gershom Sholem, confronting two Singer's literary case studies: Zeidlus and Asa Heshel.

2. Lernen 

Se si dovesse pensare a una opposizione simbolica tra giudaismo e cristianità nei termini della concezione ebraica, bisognerebbe dire: libro vs statua e pittura”[1].

È dal Libro della Torah che il mondo prende avvio: “Quando il santo sia Egli benedetto volle creare il mondo, guardò la Torah, parola per parola e in corrispondenza di essa compì l’arte del mondo, giacché tutte le parole e tutte le azioni dei mondi sono nella Torah”[2].

Bastano queste parole per capire l’importanza del Libro che contiene, in nuce, tutto il creato a cui dà vita attraverso il potere fecondante della parola divina[3]. Se è legittima l’identificazione di Dio con il Libro, lo studio di esso attraverso l’interpretazione continua, letterale e simbolica di ogni versetto, parola o lettera sarà il tentativo incessante di collegarsi al divino.

Ecco perché il lernen (il significante è uguale al verbo tedesco) è un concetto difficilmente traducibile: definirlo “studio” sarebbe riduttivo, lo studio è qualcosa che ha un inizio e una fine; il lernen sotto la guida di un maestro o far zikh, da sé, è un lavoro (anche e soprattutto nel senso latino di “fatica”, “impegno”) in fieri che estende la propria importanza al di fuori dell’ambito religioso tanto da diventare un pilastro della cultura ebraica laica[4] ed elemento costitutivo di un altro concetto fondamentale della cultura europea: la Bildung, il dischiudersi della personalità sino alla costruzione dell’uomo quale individuo armonioso e autonomo: “mich selbst, ganz wie ich da bin, auszubilden”[5].

 

 

L’alfabeto e il Libro

 

[…] il nonno prese in mano Erni a meno di quattro anni. Aveva fatto venire dalla Polonia un alfabeto ebraico in rilievo, e iniziò l’angioletto col sistema ancestrale dolce e attraente: la scuola della bocca. Coperti di miele, i caratteri di legno di rosa erano dati addirittura da succhiare al giovane studioso della Legge.

Più tardi, quando Erni fu in grado di leggere pezzi di frase, Mardocheo glieli presentò disegnati nei quali Judith, da parte sua, profondeva, tutta la sua scienza”[6].

 

Abbiamo già accennato nella sezione dedicata alla shul all’importanza dell’alfabeto: le lettere sono simbolo, allegoria, si riferiscono a un oggetto, a una costruzione umana e contemporaneamente al correlativo divino: così la bet è sia la “casa” che il “tempio” e insieme indica l’origine dello spazio e del tempo.

Non può stupire, dunque, che l’alfabeto, primo gradino per la decifrazione del Libro e per estensione di tutti gli altri libri (v. la differenza tra sefer e bukh), debba essere resa il più possibile piacevole e allettante ai bambini che si apprestano ad affrontare le fatiche del lernen, perché è attraverso le lettere che si realizza “l’efficacia creativa della lingua; l’alfabeto nella sua stessa realtà materiale e grafica è considerato lo strumento su cui si fonda la denominazione, ed è la lettera che tutela, garantisce e giustifica il potere della parola”[7].

Tale è la sacralità della lettera che i bambini che leggono la Torah non seguono il testo con un dito, ma utilizzano una yad (lett. “mano”), un indice di legno, perché è proibito toccare il Rotolo a mano nuda[8]. È una costante della cultura ebraica e yiddisch in particolare, questo miscuglio di rispetto e insieme di familiarità con cui ci si accosta a Dio e al Suo “spartito”, la Torah: i bambini, molto realisticamente sono introdotti attraverso le lettere ricoperte di miele alla “dolcezza” della decifrazione e dell’apprendimento, ma contemporaneamente si interpone fra essi la scrittura, la yad, barriera e avvertimento.

La Torah va saputa maneggiare, solo lentamente, con gli anni, si possono penetrare e chiarire progressivamente, anche se non certo una volta per tutte, gli enigmi che essa propone.

Il valore dell’insegnamento è basilare: dal cheder (lett. “stanza”, חדר), primo gradino dell’istruzione, in cui i bambini iniziavano lo studio dell’ebraico sotto il malammed (למד, “insegnare”) alla yeshivah (ישב, “sedersi”), collegi maschili in cui gli studenti trascorrevano l’adolescenza sino ai vent’anni. Qui il lavoro consisteva sia nell’analisi di una parte di un testo talmudico[9], compiuta da due studenti[10], sia in lezioni “frontali” tenute dal capo della yeshivah.

L’apprendimento aveva (ed ha per gli ebrei ortodossi) valore religioso in sé e per sé, era un atto di pietà a cui non corrispondeva alcun attestato o riconoscimento: era quindi un work in progress che neppure la morte poteva interrompere: Dio stesso avrebbe perfezionato e soddisfatto personalmente la sete di conoscenza del lerner[11].

Come giustamente sottolinea Weinreich, la figura dell’eterno studente ritenuta patetica e talvolta ridicola, non è tale nel mondo yiddisch: è un privilegio, una grande fortuna poter continuare a studiare[12]; accadeva spesso che gli yeshivah-bokher proseguissero nell’apprendimento mantenuti dai suoceri o dalle stesse mogli.

 

Essi [gli ebrei] sapevano che il valore della vita non consiste né nell’esercitare, né nel sopportare la potenza […].

Questa comune, segreta coscienza, inoltre, univa gli Ebrei, li fondeva quasi, perché derivava dall’intimo significato del libro. Del Libro, sì del loro Libro. Essi formavano un popolo senza stato che lo tenesse unito, senza paese né terra, né re, né forma di vita comune; eppure più unito di qualsiasi altro popolo.

E quella forza di coesione la dovevano al Libro, al loro Libro […]. Per due millenni avevano saputo conservare il Libro e portarlo nelle loro infinite peregrinazioni. Esso rappresentava il loro popolo, il loro stato, la loro patria, il loro possesso […].

Seicentoquaranteseimilatrecentodiciannove lettere comprendeva quel Libro e quelle lettere erano state pesate, contate, esaminate e riconosciute a una a una. Ogni lettera era stata pagata con la vita; per ognuna di esse migliaia di uomini si erano lasciati martoriare. Il Libro dunque apparteneva esclusivamente a essi e nelle loro sinagoghe, nei giorni delle feste più solenni, tutti, grandi e piccoli, potenti e oppressi riconoscevano ad alta voce: ‘Nulla abbiamo all’infuori del Libro’”[13].

Il sapere è dunque rispetto della lettera, del libro percepiti oggettivamente come compagni e sostegni. Nessun’altra cultura è così fortemente radicata all’importanza del testo scritto in cui le lettere sono qualcosa di vivo, carnale[14]. Le loro combinazioni non sono semplici “segni”, ma infinite possibilità di interpretazione del testo biblico, sono allegorie, “figure” nel senso auerbachiano del termine, del mondo a venire.

Una tale concezione sacrale non poteva non passare anche alla cultura laica in cui permane, fortissimo, questo senso di perfettibilità, di costruzione continua che lega idealmente il qaballista medievale a Benjamin, Scholem, Singer… Questo lernen ascendente comporta un uso costante dello zikkaron, della memoria (זכרון): esisteva infatti una figura, quella del tanna (aramaico, “insegnante”) che era un vero e proprio “ripetitore” che memorizzava la Torah ed era in grado “di fornire dei richiami enciclopedici anche se poteva benissimo non capire il senso di quello che ripeteva”[15].

Lo zikkaron era fondamentale qualora il Libro (o i libri) non ci fosse o fosse andato distrutto[16], avvenimento che nella Diaspora si è verificato infinite volte. È appena il caso di ricordare che molti testi di scrittori “salvati” come Levi si basano sulla memoria, sull’ossessione del ricordo.

Memoria che può anche essere salvifica: l’Ulisse dantesco faticosamente ricostruito da Levi è appassionatamente spiegato a Jean, “Pikolo”, suo compagno di prigionia nel lager: “… Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Jean è intelligente, capirà. Capirà oggi mi sento da tanto… Chi è Dante. Che cosa è la commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione. Beatrice è la Teologia. Jean è attentissimo, e io comincio lento e accurato: ‘Lo maggior corno della fiamma antica / cominciò a crollarsi mormorando, / Pur come quella cui vento a fatica / Indi la cima in qua e là menando / Come fosse la lingua che parlasse / Mise fuori la voce, e disse: quando…’

Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce un termine appropriato per rendere “antica”.

E dopo “quando”? Il nulla. Un buco nella memoria. ‘Prima che sì Enea la nominasse’. Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: ‘La piéta del vecchio padre né ‘l debito amore Che doveva Penelope far lieta’. Sarà poi esatto? ‘… Ma misi me per l’alto mare aperto’.

Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo di distinguere perché “misi me” ma non è “je me mis”, è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriere […]. “Mare aperto, mare aperto”. So che rima con “diserto”: ‘… quella compagnia Picciola, dalla qual non fui diserto’, ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato ceh un verso, ma vale la pena di fermarcisi: ‘… Acciò che l’uom più oltre non si mette’ “si metta”: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima “e misi me” […].

Il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda. Ecco, attento Pikolo, apri gli occhi e la mente, ho bisogno che tu capisca: ‘considerate la vostra semenza: / Fatti non foste a viver come bruti / Ma per seguire virtute e conoscenza’.

Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono”[17].

 

 

“Sapere è soffrire”

 

E applicai la mia mente a conoscere follia e stoltezza; seppi che anche questo è uno sforzo inutile, poiché dove è molta sapienza è molto affanno e colui che accumula senno accumula dolore”[18].

 

Nell’Ecclesiaste l’autore, riconoscendo la superiorità della sapienza sulla stoltezza, ammette che sono vanità tutte le occupazioni umane, le ricchezze, i piaceri, ma è vanità anche la sapienza stessa, perché non può far felice l’uomo: “vidi che la sapienza è superiore alla stoltezza, come la luce è superiore alle tenebre. Il sapiente ha gli occhi nella testa, mentre lo stolto cammina nelle tenebre; seppi però anch’io che una medesima sorte accade a tutti e due. Dissi tra me: la sorte dello stolto toccherà a me, perché dunque ho voluto essere più saggio? E dissi in cuor mio: anche questo è vanità; poiché non rimarrà alcun ricordo né del sapiente né dello stolto, col trascorrere degli anni tutto sarà dimenticato e come muore il sapiente muore lo stolto”[19].

Ma “la massima del predicatore Salomone ‘Se si accresce la conoscenza si accresce la sofferenza’, il Rabbi Kozk usava interpretarla così: ‘L’uomo deve accrescere la sua conoscenza anche se con ciò accresce inevitabilmente la sua sofferenza’”[20].

 

È tra questi due poli che oscilla il lernen nella sua accezione più alta: da una parte il nichilismo dell’Ecclesiaste con la fulminante presa di coscienza che l’affinamento dell’intelletto porta alla consapevolezza della propria inutilità, dall’altra l’attenuazione chassidica, secondo la quale l’uomo deve sottoporsi a questa fatica sia per compiere un personale itinerarium mentis in Deum, sia, più laicamente, per il miglioramento delle proprie condizioni e della convivenza civile.

Ecco perché gli ebrei tedeschi resteranno saldamente legati alla Bildung: cultura uguale civiltà[21].

L’homo hebraicus si muove dunque all’interno dell’antinomia: paralisi della volontà[22] (v. il Jacques Kohn de Un amico di Kafka) perché “tutto è vanità” / cultura come riscatto e partecipazione attiva all’interno della società.

Tra l’inazione e un attivismo talvolta miope, ecco la medietas del dottor Fischelsohn: “Quando alzava gli occhi al cielo […] prendeva coscienza di quell’estensione infinita, era […] una parte del cosmo, frutto della stessa materia, dei corpi celesti; e poiché era parte della Divinità sapeva che non poteva perire del tutto. In momenti come quelli […] provava quell’amor Dei intellectualis che è, secondo il filosofo di Amsterdam, la suprema conquista della mente […]”[23].

 

Nell’impossibilità, per l’uomo, almeno in vita, di rendersi conto del proprio valore e di quello delle azioni compiute, risuonano come monito, non tranquillizzante, le parole di Rabbi Israele: “un tale si lamentò con Rabbi Israele che la sofferenza lo disturbava nello studio e nella preghiera. Il Rabbi gli mise la mano sulla spalla e disse: ‘Come fai a sapere, amico, ciò che è più gradito a Dio, il tuo studio o la tua sofferenza?’”[24]

 

 

Opfregn

Tutto ciò che concerneva la vita pratica, la conoscenza dei meccanismi che regolano il commercio, la capacità di tenere un registro delle entrate e delle uscite per un ebreo appartenente a una comunità, non riguardava lo studio, quelle erano abilità che si conquistavano sul campo. Solo “ciò che riguardava la vita eterna era soggetto di studio”[25]; dall’affermazione: “la Torah è la migliore delle merci” possiamo capire come, soprattutto per gli ebrei dell’Europa orientale, la cultura e i testi sacri fossero una cosa sola.

Testi sacri percepiti come vere e proprie “armi” di cui il pio lerner si serve per migliorare se stesso e compiere quell’avvicinamento al sacro che è il suo fine.

Effetto non trascurabile di questo studio è l’affinamento dell’abilità retorica attraverso un’incredibile capacità di collegamento fra passi e immagini di Torah e Talmud che fornisce un repertorio inesauribile di motivi e spunti che secondo necessità (tenzoni verbali fra yeshivah-bokher o dispute rabbinica) si aggregano e si separano come in un caleidoscopio.

Il lavoro di scavo, di ricerca sui testi è compiuto ricercando i diversi piani di lettura che essi offrono, in una gara di abilità tra lo studioso e la materia, elusiva, che egli ha davanti: è l’opfregn, termine di chiara derivazione germanica. Il corrispondente tedesco abfragen ha, però, il significato di “esaminare, interrogare, qualcuno su qualcosa”, mentre l’opfregn consiste nel porre una domanda e nel dimostrare che questa è retorica, o ingiustificata e può esser posta in altri termini.

 

“Come ti chiami”?

“Moshe”.

“Che cosa studi?”

“Il primo trattato”

“Che capitolo”?

“Shor she-nagà et ha-parà”.

“Come lo traduci?”

“Il toro che incornò la vacca”.

Il Rebbe batté in terra il piede calzato dalla pantofola. “Perché il toro incornò la vacca? Che cosa gli aveva fatto?”

“I tori non ragionano”.

“Ma colui che li ha creati ragiona”.

 

Il ragazzo non seppe rispondere all’obiezione e il Rebbe gli diede un pizzicotto sulla guancia. “Bene, va a studiare”, gli disse, e tornò nella sua stanza […].

Avigdor portò il vino e il Rebbe intonò la preghiera con la melodia dei giorni festivi, si lavò le mani pronunciando la benedizione di rito e poi recitò quella sul pane. Prese un po’ di brodo e si mise a recitare la Torah; cosa che non faceva da anni.

Esordì con voce sommessa ma chiara, domandando perché la notte di Rosh ha-Shanà non splende la luna: la risposta è che in quel giorno si chiede a Dio la vita e la vita significa libero arbitrio, e la libertà è mistero. Se la verità fosse nota a tutti, come potrebbe esservi libertà?

Se l’inferno e il paradiso fossero sulla piazza del mercato, tutti sarebbero santi […]. Ma che cosa accade se, Dio non voglia, si perde la fede? Gli empi vivono di negazioni: le negazioni stesse sono una fede, una fede nel male, da cui si può trarre la forza del corpo. Ma se l’uomo pio perde la fede, gli viene rivelata la verità ed egli viene richiamato”[26].

 

L’opfregn scivola pian piano dall’ambito religioso-scolastico e diventa habitus mentale che sembra caratterizzare in toto l’ebraicità[27], è una ricerca inesausta, un logorante lavorio mentale che, se incanalato “positivamente”, può dare risultati notevoli, ma che nella quotidianità può essere di grande ostacolo (è il caso dei tanti schlemihl della letteratura ebraico-americana da Bellow a Ph. Roth e di quelli che affollano i film di Woody Allen) e diventare fonte di sofferenza per l’incapacità di accettare la vita così com’è. È questo il disgusto che colpisce Yoine Meir, diventato macellatore suo malgrado.

 

In verità per creare il mondo Dio infinito doveva aver ritirato la sua luce; non poteva esserci libero arbitrio senza dolore. Ma dal momento che gli animali non erano stati dotati di libero arbitrio, perché dovevano soffrire? […]

Yoine Meir avrebbe voluto fuggire dal mondo materiale, ma il mondo materiale lo perseguitava. L’odore del mattatoio non abbandonava le sue narici […] sapeva che l’uomo non può invocare la morte, ma nell’intimo cercava la fine. Era insorta in lui una ripugnanza per tutto ciò che aveva attinenza con il corpo […], capiva adesso perché gli antichi saggi avessero paragonato il corpo a una gabbia […] solo adesso comprendeva appieno il significato delle parole del Talmud: “È molto buono: è la morte”[28].

 

Se è vero che “ciò che non si perfeziona, non si possiede”[29]: per l’uomo non ci sono molte vie d’uscita: o la follia o il mettersi sullo stesso piano della natura pacificatrice come quel personaggio che ne Il sistema periodico di P. Levi “quando parlava di mucche, di galline, di pecore e di cani si trasfigurava, ne imitava lo sguardo, le movenze e le voci, diventava allegro e sembrava imbestiarsi come uno stregone”[30].

 

 

Lernen e Bildung

La Bildung e l’illuminismo collaborarono durante il periodo dell’emancipazione ebraica: erano destinati a essere complementari. Inoltre quest’auto-educazione era un processo continuo che non poteva mai avere termine durante la propria vita. Perciò coloro che seguivano questo ideale vedevano se stessi come parte di un processo piuttosto che come prodotti finiti di un’educazione. Era certamente un ideale fatto apposta per l’assimilazione ebraica, perché trascendeva tutte le differenze di nazionalità e religione mediante il dispiegarsi della personalità umana”[31].

L’illuminismo fu fondamentale per il miglioramento delle condizioni degli ebrei in Europa: la Francia fu la prima, nel 1791, a concedere loro la pienezza dei diritti civili; nel 1796 fu la volta dell’Olanda, e nel 1812, della Prussia grazie all’editto di Federico Guglielmo III. Per l’estensione dei diritti a tutta la Germania bisognerà, però, aspettare il 18671 con la realizzazione dell’Impero tedesco. Questa emancipazione fu una vera benedizione per gli ebrei tedeschi che ai primi dell’800 erano perlopiù poveri, e solamente una piccola parte poteva a buon diritto ascriversi alla classe media.

Non fu certo estraneo al collegamento venutosi a creare fra gli ebrei e la Bildung l’apporto alla Aufklärung, l’illuminismo tedesco, di personalità come quelle di Lavater, Dohm e soprattutto Lessing, per un superamento del concetto di una religione rivelata che si impone sulle altre (cristianesimo vs ebraismo e islamismo), superamento che risuona nelle parole del Nathan lessinghiano, il quale, dopo aver narrato al Saladino la parabola dell’anello, all’obiezione di questo: “Le religioni che ti ho nominato / si possono persino distinguere / nelle vesti, nei cibi, nelle bevande!”, risponde: “E tuttavia non nei fondamenti. / Non si fondano tutte sulla storia / scritta e tramandata? E la storia solo per fede e per fedeltà / dev’essere accettata, non è vero? E di quale fede e fedeltà dubiteremo  meno che di ogni altra? Quella dei nostri avi, / sangue del nostro sangue, quelli di coloro che dall’infanzia ci diedero prova / del loro amore e che mai ci ingannarono, / se l’inganno per noi non era salutare? Posso io credere ai miei padri / meno che ai tuoi? O viceversa? Posso forse pretendere che tu / per non contraddire i miei padri, accusi i tuoi di menzogna o viceversa? E la stessa cosa / vale per i cristiani, non è vero?

La stessa tolleranza riecheggia più avanti nelle parole di un frate: “Il cristianesimo si fonda / tutto sull’ebraismo? Spesso mi indignai / e versai molte lacrime, vedendo / come i cristiani possano scordare / che anche nostro Signore era ebreo”[32].

Sulla falsariga di Lessing di cui era amico, si muove Moses Mendelssohn[33] che con amici e discepoli, i maskilim, vedeva nel giudaismo non una religione rivelata ma una legislazione rivelata, priva dei dogmi e dunque perfettamente percepibile dalla ragione.

Mendelssohn “inaugura una riforma del giudaismo attraverso al sua tradizione della Bibbia in tedesco e il suo commentario, il Bi’ur, egli punta dunque a due obiettivi: fornire un’esatta traduzione del testo sacro, insistendo sul carattere estetico e letterario di questo; rendere familiare agli Ebrei la lingua tedesca e schiudere loro in  tal modo, l’accesso alla cultura in generale”[34].

La conseguenza fatale di questa apertura, sulla vita ebraica tradizionale era l’assimilazione: i figli di Mendelssohn e molti suoi discepoli spinsero all’estremo la sua lezione convertendosi o abbandonando l’ebraismo. D. Friedländer, primo ebreo a ottenere una carica pubblica in Prussia, eletto nel 1809 consigliere nell’Assemblea cittadina, era dichiaratamente a favore della totale assimilazione; questa e il passaggio alla religione cristiana apparivano, dunque, per usare le parole di Heine, “il biglietto d’ingresso” per la società e la cultura europee.

Gli ebrei non potevano non abbracciare tramite la Haskalah, la Bildung vista come educazione e formazione del carattere, insomma l’uscita di minorità di kantiana memoria.

La possibilità di scrollarsi di dosso il ghetto, di accedere alle professioni liberali, di partecipare attivamente alla società, attraeva chi veniva, quando andava bene sprezzantemente definitivo Kornjude o Geldjude.

Scrive Mosse: “L’autoformazione nel pensiero di Goethe o W. von Humboldt che cercarono di darne una definizione, era basata su un’incessante ricerca di conoscenza […] non ci doveva essere un prodotto finito”[35].

Ci pare, quindi, che il retaggio filologico-religioso del lernen sia stato basilare per l’adesione ebraica alla Bildung: è l’idea di movimento continuo, incessante che li unisce; il terreno sacrale del lernen è una componente fondamentale della Bildung ebraica alla quale conferisce valore di strumento liberatore e di baluardo contro la barbarie (perlomeno finché l’ascesa al potere di Hitler non dimostrò che il rapporto ebraico-tedesco era a senso unico).

Una figura, quella di Gershom Scholem, rappresenta forse meglio di ogni altra, questo binomio lernen-Bildung.

Personalità complessa e affascinante, grande studioso della Qaballà, Scholem rievoca nella sua biografia Da Berlino a Gerusalemme il proprio percorso da ebreo assimilato e ricercatore infaticabile della tradizione ebraica.

Eravamo una famiglia tipicamente borghese e liberale, in cui – come si diceva allora – l’assimilazione ai tedeschi era molto avanzata. A casa nostra c’erano solo pochi relitti percepibili dell’ebraico, per esempio nell’uso di locuzioni che mio padre evitava e che ci proibiva di impiegare […].

Qui vorrei dire due parole a proposito del fenomeno dell’assimilazione, che nel corso della mia giovinezza ha svolto un ruolo così importante nella vita degli ebrei tedeschi. Intervenivano fattori molto diversi. Se non apparteneva alla minoranza rigorosamente osservante, all’inizio di questo secolo, un giovane ebreo si trovava di fronte a un processo di progressivo sfibramento spirituale dell’ebraismo. C’era qualcosa di atmosferico, che penetrava nell’ambiente; qualcosa di cosciente in cui si intrecciavano dialetticamente il desiderio di rinunciare a se stessi, c’era qualcosa di una rottura cosciente con la tradizione ebraica, di cui erano sparsi in giro, atomizzati, i pezzi più diversi e spesso singolari […]”.

Curiose mescolanze si venivano a creare fra tradizione ebraica e cristiana nello sforzo di essere e sentirsi “tedeschi”.

Si era già arrivati al punto che molti aspetti di quella forma di vita degli ebrei assimilati in ci sono cresciuto erano scombussolati. […] Già da giorni dei miei nonni, in cui iniziò questa confusione nella nostra famiglia era festeggiato il Natale […] e la ‘grande distribuzione di doni’ a domestici, parenti, amici. Si affermava trattarsi di una festa popolare tedesca, che noi celebravamo non come ebrei, ma in quanto tedeschi […].

Da mio zio naturalmente non era festeggiato il Natale ma, in compenso, la festa ebraica “dei lumi”, Hanukkà, da cui la Chiesa ha tratto il suo Natale. La festa che deve la sua origine alla vittoria dei Maccabei contro i tentativi di ellenizzazione da parte del re di Siria (dunque contro l’assimilazione!) e alla purificazione del Tempio di Gerusalemme liberato dalle immagini degli dèi ellenistici, era veramente celebrata con solennità dal Movimento sionistico”.

Eppure la confusione doveva essersi infilata di soppiatto anche tra le mura dello zio osservante se alla domanda di Scholem alle cugine “su chi avesse portato loro tanti regali”, la risposta fu: “Ce li ha portati Babbo (!) Hanukkà”.

Verso i tredici anni nasce l’interesse, inopinatamente visto il retroterra familiare, di Scholem verso l’ebraismo. Il lernen riafferma i suoi diritti e “strappa” il ragazzo all’assimilazione: contro il volere del padre approfondirà lo studio dell’ebraico; emigrato in Palestina nel 1923, nel 1925 diventerà docente di Mistica Ebraica e Qaballà all’Università di Gerusalemme.

Un giorno, nell’estate del 1911 [Moses Baron, allora insegnante di religione di Scholem] ci mostrò i tre grossi tomi dell’edizione popolare della Storia degli ebrei in undici volumi di Heinrich Graetz, incontestabilmente una delle maggiori opere della storiografia ebraica. […] L’impressione profonda e durevole che mi fece l’opera di Graetz suscitò in me il desiderio di imperare l’ebraico.

[…] Dopo alcuni mesi [le] lezioni private del dottor Baron cessarono, e io cercai di continuare a studiare da solo, poiché non sapevo a chi rivolgermi.

Così imparai grammatiche e libri di esercizi di ebraico e studiai da solo per quindici mesi circa.

[…] Quando mi chiedo se ho mai avuto un’esperienza veramente decisiva nei miei rapporti con il mondo ebraico, posso dare una sola risposta. Fu l’emozione provata nella primavera del 1913 […] quando imparai a leggere la prima pagina del Talmud nell’originale e più tardi sentii la prima spiegazione dei primi versetti della Genesi data da Rashi, il più grande di tutti talmudisti ebrei. […]

Allora studiavo ogni domenica, al mattino, cinque o sei ore, ben presto Bleichrode[36] m’invitò a uno shiur (lezione) di due ore che egli organizzava due volte alla settimana di sera a casa sua, per alcuni membri della comunità, e in cui noi imparammo [lernen], come suonava il termine pertinente, un intero trattato del Talmud. Non si studiava il Talmud, lo si ‘imparava’ […].[37]

Non è il caso di dire che non ho mai pagato un soldo, né allora, né in seguito. Nessuno dei miei pii maestri avrebbe accettato qualche compenso per insegnare a un giovane a ‘imparare’”.

Per Scholem la Bildung (o il lernen aggiungiamo noi) è “l’ideale della totalità, l’atteggiamento morale e umanistico […] e l’ultima cosa, ma non meno importante, la vita stessa considerata come un processo, non come un prodotto finito”.

Insomma, “un rinnovamento costante, una perenne giovinezza senza la promessa di un obiettivo finale”[38].

 

 

Il lernen negativo in due personaggi singeriani: Zeidel e Asa Heshel

Zeidel, protagonista del racconto Papa Zeidlus, è figura insieme grandiosa e patetica; grandiosa perché, piccolo Faust ebraico, nel suo furore conoscitivo unito a una smisurata superbia, pensa di arrivare a una vetta da cui, novello Wanderer, poter contemplare con disprezzo quel mare di nebbia indistinta e improduttiva che è l’umanità; patetico perché crede che battezzato e assimilato, i “gentili” si dimenticheranno che lui è un ebreo.

… Zeidel Cohen […] era l’uomo più dotto di tutta la provincia di Lublino. A cinque anni aveva studiato la Ghemarà e i Commenti, a sette sapeva a memoria le leggi sul matrimonio e sul divorzio e a nove aveva tenuto un sermone, citando tanti di quei testi da lasciare stupefatti anche i maestri più venerati. Conosceva la Bibbia a menadito e, per giunta, studiava senza tregua […], non aveva né il desiderio né la pazienza di conversare con gli amici e amava una cosa sola: i libri […].

La sua memoria era così che gli bastava dare un’occhiata a un passo del Talmud o a una nuova interpretazione in uno dei Commenti per non dimenticarli più […]”.

Incurante di ogni umana necessità, Zeidel prosegue imperterrito, finché il Maligno, che si è proposto di farlo precipitare nella Ghehenna, non gli procura un “incontro” fatale.

Un giorno si trovò tra le mani una copia della Vulgata e allora apprese rapidamente il latino e si diede a leggere una quantità di libri proibiti […], in poche parole Zeidel passava la vita ad accumulare il sapere come suo padre l’aveva passata ad accumulare monete d’oro e a trentacinque anni non aveva più un rivale in tutta la Polonia nel campo degli studi”.

Zeidel vuole la gloria, il problema dell’esistenza di Dio sembra sfiorarlo appena e, comunque non la mette in discussione; il lernen, per lui, sono i gradini di quel cursus honorum che lo farà diventare… papa!

Solo tra i goyim[39], infatti, è possibile raggiungere la vera grandezza, soltanto tra loro si è qualcuno (ad Heine sarebbe piaciuta molto questa figura di ebreo sulla via dell’assimilazione).

I cristiani sono l’antitesi degli ebrei. Il loro Dio è un uomo, e quindi un uomo può diventare per loro un Dio. I cristiani ammirano la ricchezza in tutte le sue forme e amano gli uomini che ne sono dotati: uomini di gran cuore o di grande crudeltà […] grandi saggi o grandi imbecilli […] grandi credenti o grandi miscredenti. Non si curano d’altro in un uomo: basta che sia grande e lo idolatrano”.

Visto che i cristiani sono così stupidi e Zeidel così superbo, il Maligno pensa bene di fornirgli “istruzioni” per il loro uso: “Domani va’ dal prete e digli che ti vuoi convertire, poi vendi tutto e cerca di convincere tua moglie a cambiar fede. Se accetta, bene, se no, poco male; i cristiani ti ordineranno prete e i preti non possono avere moglie […]. Se ti fai onore e metterai insieme chiacchiere su Gesù e sulla Madonna ti nomineranno vescovo, poi cardinale… e un giorno se Dio vorrà e tutto andrà liscio, ti faranno papa”.

Naturalmente il nostro eroe si precipita a fare tutti i passi necessari per intraprendere un iter così faticoso, ma tanto promettente: la sua richieste viene, infatti, accolta con entusiasmo: “per un sacerdote cristiano nulla, si sa, è più allettante dell’anima di un ebreo”. E così Zeidel vende i suoi beni, divorzia, viene battezzato e diventa cristiano. Gli viene, poi, in mente di scrivere una Apologia contra Talmudum, impresa mai tentata prima d’allora: “si era improvvisamente reso conto di non aver mai amato il Talmud col suo ebraico inquinato d’aramaico, il suo monotono pilpul, le sue assurde leggende, i suoi commenti biblici stiracchiati e pieni di sofismi”.

Zeidel “studiò, meditò e scrisse”; le cose, però, non sembrano andare nella direzione voluta. La cattedra in seminario, tanto desiderata, non gli viene concessa e, inoltre, si fa sempre più pressante quell’ansia di assoluto che è una delle caratteristiche del lernen: come il dottor Fischelsohn, Zeidel è un perfezionista e non riesce a concludere la propria opera: “scriveva, cancellava, riscriveva e buttava via. Aveva i cassetti zeppi di pagine note e citazioni manoscritte […]”.

La situazione precipita: la miseria e la cecità lo costringono a mendicare. Seduto sugli scalini della cattedrale di Cracovia, muove continuamente le labbra, non sono però preghiere cristiane quelle che mormora, ma la Ghemarà, la Mischnà e i Salmi: “la teologia cristiana l’aveva dimenticata rapidamente come l’aveva appresa e le uniche cose che ricordava erano quelle imparate in gioventù”.

Adesso che si trova così in basso, Zeidel dimentica se stesso e i propri sogni di gloria: “era ossessionato da un’idea fissa: conoscere la verità. Esisteva un creatore o il mondo era fatto soltanto di atomi combinati fra loro?

Ma è troppo tardi: quando il diavolo si presenta per avere ciò che gli spetta, il “loico” Zeidel capisce che: “se esiste l’inferno tutto esiste. Se sei vero tu, è vero anche Lui”. Due diavoletti irridenti, però, già lo aspettano al varco: “Ecco Zeidlus Primo […] lo studente di yeshivà che voleva diventare papa”[40].

Abbiamo voluto dedicare un così ampio spazio alle citazioni per chiarire come, passo dopo passo, si svolga la climax discendente di questo personaggio, basata su un distorto concetto del lernen. “Studia pure – sembra dirgli Singer – assimilati, ma non sarai mai un ‘gentile’!” E, cosa ancora più importante, il lernen, almeno nella prospettiva religiosa, è nulla senza la fede.

In Zeidel c’è, tuttavia, una tensione modernissima: attrazione e ripulsa verso l’elemento in cui si è nati e da cui si sente l’esigenza di allontanarsi (in questo caso l’ebraismo) e l’egoistica ed esclusiva affermazione di sé: non c’è alcuna traccia di simpatia verso i propri simili in Zeidel: gli altri non esistono e non fa fatica a liberarsi di chi gli sta intorno.

Il redde rationem inizia, però, ben prima che il nostro venga precipitato nella Ghehenna. Il suo vero demone, almeno così ci pare, è l’insoddisfazione: Zeidel “muore” quando si accorge che le sue prodigiose conoscenze non lo preservano dal fallimento: la reductio ad unum del materiale raccolto per la sua grande opera, di questo surrogato dell’homunculus faustiano, gli è impossibile. L’imitazione del processo creativo di Dio, così come per Faust, è irraggiungibile.

Un processo di svilimento o diminuzione del lernen lo ritroviamo, sia pure in una forma più coinvolgente perché legata a un periodo storico e a un luogo ben definito, la Polonia tra i primi del ‘900 e il 1939, in Asa Heshel Bannet, uno dei protagonisti del romanzo La famiglia Moskat.

Asa Heshel, sballottato dagli avvenimenti della propria vita e da quelli della grande Storia, la prima guerra mondiale, la rivoluzione d’ottobre e l’avvento del nazismo, non realizza nulla di quanto si era prefisso. Il matrimonio con l’intellettuale Adele prima, e con l’amatissima Hadassah poi, le altre donne, le enormi difficoltà economiche, il suo controverso rapporto con l’ebraismo, lo sviano e quello che avrebbe potuto essere un lerner in equilibrio tra lernen religioso e Bildung laica, si rivela uno schlemihl votato al fallimento, proprio per la sua smania di conoscere[41].

Non è un caso che gli inizi di quella che sembrava una brillante carriera di erudito, somiglino a quelli di Zeidel: “Andava soltanto per mezza giornata. Ben presto si acquistò la reputazione di bambino prodigio. A cinque anni studiava il Talmud, a sei cominciò i Commentari talmudici, a otto il maestro non aveva più nulla da insegnargli. All’età di nove anni pronunciò un discorso nella sinagoga, e a dodici scriveva dotte epistole ai rabbini di altre città. I rabbini gli rispondevano con lunghe lettere, apostrofando “l’Acuto”, “Occhio d’Aquila” […]”.

Il germe schlemihlico dell’inquietudine fa, però, subito breccia in Asa Heshel: “egli intavola interminabili discussioni nella casa di studio e criticava i rabbini. Pregava senza indossare la fascia rituale, scribacchiava sui margini dei libri sacri, e si faceva beffe delle pie persone”.

L’amicizia con il “moderno” orologiaio Jekuthiel incanala il ragazzo verso la letteratura assimilata e “gentile”: “l’orologiaio aveva nella sua biblioteca delle vecchie copie del giornale ebraico moderno ‘Hameasef’ e il Pentateuco nella traduzione tedesca di Mendelssohn, oltre a una quantità di poeti tedeschi, Klopstock, Goethe, Schiller, Heine, come pure alcuni vecchi testi di algebra, di fisica, di geometria e di geografia. Aveva le opere di Spinoza, Leibniz, Kant ed Hegel. Jekuthiel aveva dato ad Asa Heshel la chiave di casa sua, e il giovane passava intere giornate là dentro leggendo e studiando […].

Asa Heshel ingoiava i libri in un solo boccone. Riusciva a farsi strada attraverso il russo e il polacco con l’uso del dizionario […]. Ma gli anni passavano, e ben poco risultava da questi studi indisciplinati. Cominciava dai corsi di studio senza mai completarli. Leggeva senza un sistema, saggiando qua e là. Gli eterni interrogativi non gli davano tregua: c’era un Dio, oppure tutto, il mondo e le sue opere, era meccanico e cieco?

Arrivato a Varsavia nella natia Tereshol Minor, il giovane era casualmente entrato in contatto con la ricca famiglia Moskat. L’amore per una delle nipoti del dispotico Meshulam Moskat, Hadassah, costituirà un primo ostacolo per i suoi studi: i due fuggono nella speranza di poter mettere la famiglia di fronte al fatto compiuto, ma Hadassah verrà riportata a casa, rimanendovi segregata per lungo tempo e Asa Heshel finirà, per inerzia, con lo sposare Adele, la figlia di primo letto della terza moglie di Meshulam. Trasferitisi in Svizzera i due giovani si rendono ben presto conto di non andare d’accordo; ritornano in Polonia e, durante una visita ai propri parenti, Asa ha un colloquio con il nonno, dotto e famoso rabbino: “Il rabbino passò a fargli domande sulla sua vita personale. Che cosa aveva imparato nelle università dei gentili? E almeno, ciò che aveva imparato lo avrebbe messo in condizioni di guadagnarsi da vivere? Che cosa avrebbe fatto se fosse stato chiamato alle armi?... Asa Heshel fu colpito al pensiero che nemmeno a semplici domande come queste egli riusciva a trovare risposte realmente soddisfacenti per il nonno. Non aveva terminato gli studi, disse, né lo studio della filosofia poteva riuscire molto utile per guadagnarsi la vita. Quanto a servire l’esercizio dello zar, non ci teneva affatto, naturalmente… Il vecchio avrebbe voluto dirgli: ‘E allora perché sei tornato in Polonia? Che cosa ti ha portato la tua frenetica brama di beni mondani?’ Ma poi non disse nulla”.

Passa il tempo ed Asa è costretto ad arruolarsi, ma neppure la guerra lo strappa dall’astrazione: “Lui se ne stava lì in camerata, prima del silenzio, e conduceva una disputa con Spinoza. Va bene, ammettiamo pure che tutto ciò che succede è necessario. Che questa guerra altro non sia che un gioco di atteggiamenti nell’infinito oceano della sostanza. Ma per quali ragioni la divina natura esigeva tutto questo?” Separatosi da Adele e ricongiuntosi al primo e forse unico amore, Hadassah, non riesce a nascondere alla prima, donna intelligente e acuta, il proprio fallimento: “i suoi discorsi sembravano ad Adele un guazzabuglio di cose sconnesse: il pogrom di Petliura e l’università popolare nella quale lui aveva insegnato; le bande di Denekin e una biblioteca ebraica al catalogo della quale lui aveva elaborato; la rivoluzione bolscevica e un libro di Hegel che avrebbe dovuto tradurre. Adele lo ascoltava e si mordeva le labbra. Sempre la solita vecchia storia; fame, sudice stanze, sogni oziosi, libri inutili. Eccolo lì senza una professione, senza un’idea, un progetto; senza un vero affetto per nessuno, senza responsabilità”.

Sino alla fine del romanzo Asa non riesce a opporre la minima resistenza agli avvenimenti: si è allontanato da Hadassah che pure ama,  e dalla figlia avuta da lei, legandosi a un’altra donna, Barbara, patetica figura femminile, figlia di un ebreo convertitosi al protestantesimo e divenuto pastore: “la sua situazione a scuola era alquanto migliorata. Era in grado di comprarsi vestiti decenti e qualche libro. È vero, non era diventato professore di filosofia. Non aveva rivalutato i vecchi valori, né creato un nuovo sistema. Ma il bisogno di riflettere sulle questioni eterne non lo aveva abbandonato. Se ne stava alzato fino alle due del mattino a baloccarsi con ogni sorta di speculazioni intellettuali”.

L’ex studente di yeshivà, destinato a diventare un pio chassid, non riuscirà né ad abbandonare il suo retroterra, né ad aderire del tutto alla cultura gentile. L’ideale commistione lernen/Bildung fallisce dunque miseramente: Asa, come Zeidel, non appartiene né completamente agli uomini, né completamente a Dio. La possibilità di uno sviluppo armonico gli è negata. Non è neppure un sionista: l’idea di rifarsi una vita, di riprendere ex novo, di diventare un chalutz, un pioniere, in Palestina e di ritrovare un’identità con il lavoro della terra, di fare qualcosa di utile e tangibile per la comunità gli è totalmente indifferente. Ripiegato su se stesso, viene sfiorato dagli “altri”, senza mai riuscire a entrare veramente in contatto con le persone, anche fisicamente oscilla tra due poli: “a vote sembrava un diciottenne, e un momento dopo aveva l’aspetto di un vecchio ebreo malato”[42].

Asa Heshel, troppo razionale per non porsi domande e troppo poco credente per abbandonarsi ciecamente a Dio, rappresenta non soltanto un ebreo sviato, ma l’uomo tout court per il quale l’intelligenza è insieme maledizione e salvezza, per il quale “sapere è soffrire”.

Note

[1] Weinreich, 1980.

[2] Torah, II 161 a.

[3] Ricordiamo che in ebraico dabar, דבר, significa sia “parola” che “cosa”.

[4] Con la definizione “cultura ebraica laica” intendiamo l’elaborazione concettuale della Haskalah ebraica che nel ‘700 ebbe in Moses Mendelssohn la sua figura fondamentale e che portava fatalmente all’assimilazione e alla perdita conseguente dell’identità religiosa ebraica.

[5] La citazione del W. Meister goethiano è il G. Mosse, Il dialogo ebraico-tedesco, 1988.

[6] A. Schwarz-Bart, 1993.

[7] Busi, Mistica ebraica, 1995.

[8] Non sono solo i bambini a dover usare la yad, ma anche gli adulti durante le letture pubbliche dei Rotoli in sinagoga.

[9] Col Talmud si intende sostanzialmente il commento alla Mischnah, la più antica opera della letteratura rabbinica; questa divenne il soggetto di studio preferito dai laici, mentre il Talmud era prediletto delle yeshivot perché più arduo e complesso.

[10] Singer, Yentl, studente di yeshivà, 1998. “Da quanto era sposato Avigdor aveva sempre più sete di apprendere e si trovava con l’amico due volta al giorno: la mattina studiavano la Ghemarà e i commenti, il pomeriggio i Codici e le relative glosse, con grande soddisfazione di Alter Wishkover e di Faitel il cuoiaio (rispettivi suoceri) che li paragonavano a Davide e Gionata”.

[11] Si diceva infatti, soprattutto per persone morte in giovane età, che Dio stesso si occupasse della loro istruzione.

[12] Ciò non significava che venissero risparmiate battute a questi “fortunati”, accusati spesso di eccessiva astrazione: “Un ebreo, un ‘wohl-lernner’ (lett. Uno che conosce bene il Talmud) ha perduto i suoi occhiali. Si siede e riflette: ‘La domanda è questa: dove sono i miei occhiali? O piuttosto dovrei dire che gli occhiali me li ha portati via uno che non ha bisogno degli occhiali, ma allora cosa se ne fa dei miei? Allora li ha presi veramente uno che ne ha bisogno, e i suoi dove sono? Insomma dove sono i miei occhiali’”. Landmann, 1979.

[13] L. Feuchtwanger, Jud Süss, 1972: “Sie wüssten, Macht üben und Macht erleiden ist nicht das Wirkliche, Wichtige […]. Die heimliche wissen war es, was die Juden einte und ineinanderschmolz, nichts sonst. Denn dies heimliche wissen war der Sinn des Buches. Des Buches, ja ihres Buches. Sie hatten keinen Staat, der sie zusammenhielt, kein Land, keine Erde, keinen König, keine gemeinsame Lebensform. Wenn sie dennoch Eins waren, mehr Eins als alle andere Völker der Welt, so war es das Buch, das sie zusammenschweisste […]. Sie hatten das Buch mit sich geschleppt durch zwei Jahrtausende. Es war ihr Volk, Staat, Heimat, Erbteil und Besitz. Sechsundertsiebenundvierzigttausenddreihundertundneunzehn Buchstaben hatte das Buch jeder Buchstabe war bezahlt mit Leben; Tausende hatten sich marten und töten lassen um jeden Buchstaben, an ihrem höchsten Feiertag, riefen sich, bekannten sie, die stolzen, Herrenschaft Schreitenden. So überzeugt wie die kleinen, Getreten, Geduckten: nichts haben wir, nur das Buch”.

[14] “Il rabbi Ger raccontava: ‘Nella mia infanzia non volevo applicarmi allo studio della grammatica, perché credevo che fosse una scienza come le altre. Ma più tardi mi ci sono dedicato perché ho visto che i segreti di dottrina sono legati ad essa’”. M. Buber, I racconti dei chassidim, 1992.

[15] Unterman, 1991.

[16] In questo senso è molto “ebraico” il bellissimo Fahrenheit 451 di R. Bradbury in cui la spietata caccia al libro (e ai lettori) da parte dei “vigili del fuoco” richiama sinistramente alla memoria il rogo dei “testi non germanici” del 1933 compiuto davanti all’Opera di Berlino alla presenza di Goebbels.

[17] Levi, Se questo è un uomo, 1987.

[18] Eccl. I, 17-18.

[19] Ivi II, 13-16.

[20] Buber, 1992.

[21] Di questo legale ci occuperemo più avanti.

[22] Da una parte c’è un individualismo esasperato, dall’altra la convinzione che l’uomo non può prescindere dal suo gruppo e dunque non si “impara” solo per sé, ma anche per la comunità di cui si fa parte.

[23] Singer, Lo Spinoza di via del Mercato, 1988.

[24] Buber, 1992.

[25] Weinreich, 1980.

[26] Singer, Gioia, 1998.

[27] Con una riduzione semplicistica si ritiene un’abitudine squisitamente ebraica quella di “spaccare il capello in quattro” (e di rispondere a una domanda con un’altra domanda).

[28] Singer, Il macellatore, 1998.

[29] Buber, 1992.

[30] P. Levi, Ferro, 1987.

[31] Per la Bildung, concetto elaborato da W. Von Humboldt e ripreso da Goethe, riportiamo la definizione, breve ed efficace, di Mittner dalla sua Storia della letteratura tedesca, 1871: “[La] Bildung, la convinzione cioè che lo scopo dell’individuo sia quello di sviluppare tutti i germi intellettuali o sentimentali, che dio pose nell’individuo singolo. A tale convinzione era legata un’altra e ciò che era un dovere individuale aiutare anche tutti gli altri uomini a sviluppare liberamente le proprie facoltà spirituali”.

[32] Lessing, Nathan il Saggio, 1992.

[33] Vedi nota 8, capitolo I.

[34] Puech, Storia dell’ebraismo, 1993.

[35] Mosse, Ebrei in Germania fra assimilazione e antisemitismo, 1991.

[36] Il “maestro ideale”, padre di uno dei membri del gruppo Giovane Giuda, di cui Scholem faceva parte, e pronipote di un illustre talmudista.

[37] Scholem, Von Berlin nach Jerusalem, 1977.

[38] Mosse, Ebrei in Germania…, 1991.

[39] Il termine goy, pl. goyim, “gentile”, “non ebreo”, assume nello yiddisch un significato dispregiativo: “sciocco”, “ignorante”.

[40] Singer, Papa Zeidlus, 1998.

[41] Per Asa Heshel non ci sono angeli pacificatori e salvifici per i quali “wer, immer strebend sich bemüht, / den könnnen wir erlösen” (colui che si è dato la pena di cercare, / noi lo potremo salvare). Goethe, Faust, vv. 11935, 11936.

[42] Singer, La famiglia Moskat, 1987.

Casella di testo

Citazione:

Alessandra Cambatzu, Le parole dello yiddish, III: Lernen, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VII, 1, gennaio 2018

url: http://www.freeebrei.com/anno-vii-numero-1-gennaio-giugno-2018/lernen