Introduzione

"Free Ebrei", VI, 1, gennaio 2017

Le parole dello yiddish

di Alessandra Cambatzu

Abstract

Starting with Kafka's "Speech on yiddish language", Alessandra Cambatzu explains how and why she intends to analyze some semantic spheres of the yiddish and the role played by the religious sphere in the Jewish diasporic culture.

Introduzione

1. Il discorso sulla lingua yiddish di Kafka

 

«Prima della recita dei primi versi dei poeti ebrei orientali, vorrei ancora dirvi, gentili signore e signori, che voi capite molto più di yiddish [lett. Jargon, “gergo”][1] di quel che credete.

Non che io non sia preoccupato dell’effetto che potrebbe esercitare su ciascuno di voi questa serata, ma voglio che, se lo merita, questa si sprigioni immediatamente. Ciò, tuttavia, non potrà accadere fintanto che qualcuno di voi avrà paura, questo quasi glielo leggo in viso, dello yiddish. Di coloro che lo considerano altezzosamente, non parlerò per nulla. Ma la paura, paura mescolata a una certa avversione, è cosa, se vogliamo, perfettamente comprensibile. I nostri rapporti di ebrei occidentali, se li consideriamo con occhio cauto ma superficiale, sono così ben regolati che ogni cosa segue tranquillamente il suo corso. Noi viviamo in gioiosa concordia, ci capiamo l’un con l’altro, se è necessario, riusciamo a vivere l’uno senza l’altro, se così ci piace, e ci capiamo ugualmente: chi potrebbe, dall’alto di un tale ordine di cose, capire l’intrico dello yiddish o aver voglia di farlo? Lo yiddish è una lingua europea giovanissima, ha soltanto quattrocento anni, ma in realtà è ancora più giovane. Esso non ha ancora raggiunto una forma linguistica di una certa importanza, cosa della quale noi abbiamo bisogno. La sua espressione è breve e veloce.

Esso non ha grammatica. Dei cultori tentano di scrivere delle grammatiche, ma lo yiddish è una lingua costantemente parlata: non ha requie. Il popolo non la lascia in mano ai grammatici.

Esso è composto solo da parole straniere. Ma esse non riposano in lui, ma ne mantengono viva la velocità e la vivacità con le quali sono state accolte. Migrazioni di popoli percorrono lo yiddish da un capo all’altro. Tutto questo tedesco, ebraico, francese, inglese, slavo, olandese, rumeno e perfino latino è colto all’interno di questo ‘gergo’ come da un senso di curiosità e leggerezza, tanto che ci vuole una certa forza per tenere insieme tutte queste lingue. Perciò nessuna persona sensata penserebbe di fare dello yiddish una lingua internazionale, per quanto la cosa possa sembrare plausibile. Soltanto la lingua della malavita vi attinge volentieri, perché essa non ha bisogno tanto di nessi linguistici quanto di singole parole. Inoltre lo yiddish è da tempo una lingua disprezzata.

In questo incessante andirivieni sono riconoscibili frammenti di note leggi linguistiche. Lo yiddish ha le sue origini nel periodo in cui il medio alto medioevo tedesco [atmed.] trapassò nell’alto tedesco moderno [atmod.]. C’era, allora, una libertà di scelte nelle forme linguistiche: il medio alto tedesco ne prese alcune, lo yiddish ne prese altre. Talvolta questo sviluppò forme dell’atmed. in maniera più conseguente dello stesso atmod.: così, ad esempio, mir seien (“noi siamo”, corrispondente all’atmod. wir sind) deriva più naturalmente dall’atmed. dell’atmod. wir sind.

In altri caso ancora, lo yiddish ha mantenuto intatta la forma dell’atmed. a dispetto di quella dell’atmod. Ciò che entrava una volta nel ghetto, non ne usciva tanto presto. È così che si sono conservate forme come Kerzlach, Blümlach, Liedlach[2].

E ora, all’interno di questo prodotto linguistico costituito da legge e arbitrio, si riversano ancora i dialetti. Sì, lo yiddish è un composto dialettale, lo è persino la lingua scritta, benché ci si sia accordati sulla grafia.

Con tutto ciò, egregi signore e signori, credo di avere, almeno temporaneamente, convinto la maggior parte di voi che non capirete neppure una parola di yiddish.

Non aspettative alcun aiuto dalla spiegazione delle poesie. Se non siete neppure in grado di capire lo yiddish, nessuna momentanea illuminazione vi potrà essere d’aiuto. Nel migliore dei casi voi potrete capire la spiegazione e intuire che seguirà qualcosa di difficile. Questo sarà tutto. Vi potrei dire, ad esempio: il signor Löwy vi leggere ora (cosa che effettivamente farà) tre poesie. La prima è Die Grine di Rosenfeld. Grine significa i “verdi”, i “novellini”, coloro che sono appena sbarcati in America. In questa poesia, tali emigranti ebrei, percorrono a piccoli gruppi con i loro bagagli sporchi, una strada newyorkese. La folla, naturalmente, si ammassa, li osserva, li segue e ride. Il poeta esaltato oltre ogni dire da questa vista, parla, trascendendo questa scena di strada, agli ebrei e all’umanità. Si ha l’impressione che quel gruppo di emigranti si fermi, mentre il poeta parla, benché essi siano lontani e non possano sentirlo.

La seconda poesia è di Frug e si intitola Sabbia e stelle. È un’interpretazione amara di una promessa biblica e cioè che noi saremo come la sabbia del mare e come le stelle del cielo. Ora, calpestati come la sabbia lo siamo già, quando si avvererà quella parte della promessa che riguarda le stelle?

La terza lirica è di Frischmann e si intitola La notte è silenziosa.

Una coppia di innamorati incontra un pio erudito che si reca nella casa di studio. La coppia si spaventa, teme d’essere scoperta; più tardi i due innamorati si rassicurano a vicenda.

Come vedete, chiarimenti come questi non servono a nulla.

Intrappolati in queste spiegazioni, cercherete durante la recita ciò che già sapete, e non noterete quello che ci sarà veramente. Fortunatamente, però, chiunque conosca il tedesco è il grado di capire lo yiddish, perché visto da una certa distanza, sia pure notevole, la comprensibilità esteriore dello yiddish è costituita dal tedesco; questo è un vantaggio rispetto a tutte le altre lingue del mondo. La qual cosa comporta, in un certo senso anche giustamente, uno svantaggio. Non si può, infatti, tradurre lo yiddish in tedesco. I rapporti tra le due lingue sono così delicati e significativi che potrebbero spezzarsi se lo yiddish venisse reso in tedesco: ciò che verrebbe tradotto non sarebbe yiddish, ma qualcosa di inanimato. Attraverso una traduzione in francese, ad esempio, lo yiddish potrebbe essere reso, ma verrebbe annientato in una traduzione tedesca. Toit, ad esempio, non corrisponde a tot e Blüt non è Blut.

Ma neppure dalla distanza della lingua tedesca, signore e signori, voi potrete capire lo yiddish: dovrete fare un passo in più. Ancora non molto tempo fa, la lingua parlata degli ebrei, utilizzata quotidianamente, secondo che vivessero in città o in campagna, più ad est o più ad ovest, appariva come una premessa, di volta in volta più vicina o più lontana, dello yiddish e degli echi di questo sono tuttora presenti. Lo sviluppo storico di questa lingua si potrebbe seguire altrettanto bene sul piano del presente che nelle profondità della storia.

Vi avvicinerete moltissimo allo yiddish, se considererete che in voi, oltre alle energie ci sono delle forze e dei collegamenti tra forze che vi rendono capaci di capire intuitivamente lo yiddish.

Soltanto qui l’illustratore può esservi utile, tranquillizzandovi in modo che non vi sentiate esclusi e che riconosciate che non vi dovete più lamentare del fatto che non capite lo yiddish. Questo è l’importante, perché ad ogni lamento la comprensione sbiadisce. Se ve ne state tranquilli, allora sarete improvvisamente nel cuore dello yiddish. Una volta che esso vi ha afferrato – e lo yiddish è tutto, parola, melodia chassidica, l’essenza stessa di questo attore ebreo-orientale – allora non riconoscerete più la vostra pace di un tempo. Allora potrete concepire la vera unità dello yiddish, così forte che voi avrete paura, non più di lui, però, bensì di voi stessi. Non sareste in grado di sopportare da soli questa paura, se proprio dallo yiddish non vi venisse una tale fiducia in voi stessi che resiste a tale paura e che è più forte di essa. Godetene più che potete! Ma se poi la perderete, domani o dopo – del resto come potrebbe mantenersi nel ricordo dopo una sola serata! – allora io via auguro di aver perso, intanto anche la paura. Perché noi non vogliamo punirvi»[3].

 

 

2. Annotazioni dai Diari riguardanti il Discorso sulla lingua yiddish

 

13 febbraio 2012

 

Ho cominciato a scrivere i discorsi per la conferenza di Löwy[4]. Avrà luogo già domenica, il 18. Non avrò molto tempo per prepararmi e tuttavia intono un recitativo come all’opera. Solo per questo, perché da un paio di giorni sono incalzato da un’agitazione ininterrotta e non essendomi allontanato più tanto dal vero e proprio inizio, voglio, pero, buttar giù per iscritto qualche parola per me, e solo allora, avendo già avviato il lavoro, presentarmi al pubblico.

Caldo e freddo si alternano in me col variare delle parole all’interno della frase, sogno uno slancio melodico e una caduta, leggo frasi di Goethe come se ne scorressi gli accenti con tutto il corpo[5].

 

25 febbraio 1912

 

È da lungo tempo che non scrivo nulla, perché ho organizzato per il 18 un recital di Löwy nel salone delle feste del municipio ebraico, per il quale ho fatto una breve introduzione sullo yiddish. Sono stato in pena per due settimane, perché non riuscivo a realizzare il discorso. Ci sono riuscito improvvisamente solo la sera precedente l’esposizione[6].

 

Da una lettera scritta a Felice Bauer il 6 novembre 1912

[…] Sicuramente del teatro yiddish non ho mai parlato ironicamente, forse ne ho riso, ma questo è un atto d’amore. Ho persino tenuto una piccola introduzione di fronte, perlomeno così mi pare adesso, a un’infinità di persone, e Löwy poi ha suonato, cantato e recitato[7].

 

 

3. Yiddish o Jargon?

“Per piacere non chiamare, di grazia, Jargon, la lingua yiddish; non senti tu stesso che Jargon è vergognoso? Io odio la parola Jargon!”

In queste parole di M.M.Sfurim c’è tutta l’irritazione di chi di lingua si serve quotidianamente e artisticamente e non tollera che essa venga definita semplicemente un “gergo”.

Nell’utilizzo, e nella fortuna, che il termine Jargon ebbe, entrano in gioco due componenti: una, la più determinante, specificamente ebraica, l’altra, cristiana, “gentile”.

Verso la fine del XVIII secolo, i maskilim[8] introdussero in Germania il termine francese Jargon per designare lo yiddish, termine il cui significato era altamente negativo e che Mendelssohn[9], l’esponente più importante dell’illuminismo ebraico, la Haskalah (lett. “luce”) usò proprio per screditare lo yiddish: «Questo Jargon – scrisse – ha contribuito non poco all’immoralità dell’ebreo comune». Espressioni come queste, che ci paiono ingiuste ed eccessive, devono essere, tuttavia, collocate nel contesto storico e culturale che le ha prodotte.

Lo sforzo di Mendelssohn e dei maskilim era rivolto all’affrancamento dell’ebreo da uno status di secolare sottomissione e ignoranza: uno dei loro principali “nemici” non poteva che essere lo yiddish, idioma simbolico del degrado e della miseria delle masse ebraiche orientali.

Una lingua che non era né puro tedesco né puro ebraico, né polacco né russo. Come poteva una tale mescolanza di elementi assurgere al rango di lingua degli ebrei “liberati” dalle pastoie dell’oscurantismo feudale, contribuire a farli allontanare per sempre dal ghetto?

Non poteva, semplicemente. Era necessario, quindi, fare una scelta: «Puro tedesco o puro ebraico, ma niente miscugli!», ribadiva Mendelssohn, ponendo così le basi per un distacco definitivo e doloroso tra i Westjuden, progressivamente tedeschizzati e occidentalizzati, e gli Ostjuden, la cui lingua comune restava pur sempre il detestato Jargon e, nei confronti dei quali, i primi nutrivano una pietà venata di disprezzo.

Ma gli attacchi non venivano soltanto dall’interno. Presso i non ebrei di lingua tedesca, lo yiddish era associato alla Gaunersprache, la lingua, o meglio il gergo, della malavita. Qualche esempio: il ba’ti, la “casa” (בית), diventa il Beiz, Beisel, la “bettola”; l’espressione kapores gehen da kaparah, kiper  (כפור,כפר) “sacrificio di espiazione”, “espiare”, diventa “andare in malora, fallire, crepare”. Un ebreo che parla tedesco, mauschelt, lo blatera, lo storpia, lo “guidaizza”.

Sottoposto a tale fuoco incrociato, lo yiddish tuttavia non decade. Disprezzato e misconosciuto, si prende una bella rivincita proprio sui suoi più feroci detrattori, i maskilim.

Il loro bersaglio privilegiato era la vita miserabile nelle shtelach, le cittadine e i villaggi dell’Europa orientale, e il chassidismo che poneva «l’ebreo comune, fino ad allora relegato ai margini del sapere e dello studio, nel cuore della fede e assegna[va] alla lingua popolare una funzione fondamentale»[10].

Come raggiungere e civilizzare le masse poverissime e sottomesse degli ebrei orientali? Non restava altra strada, per farsi capire, se non l’utilizzo dello yiddish che cacciato dalla porta, rientrava così, trionfalmente, dalla finestra.

Era impossibile, e ingenuo, pretendere che una lingua franca di così largo uso, veicolo indispensabile per transazioni commerciali o per semplici comunicazioni, in un’area che andava dalla Germania alla Polonia, dall’Austria-Ungheria alla Lituania, potesse essere sostituita dalle lingue nazionali o dall’ebraico.

Un riconoscimento e una definitiva riabilitazione arrivarono tra la metà e la fine dell’Ottocento dai padri della letteratura yiddish moderna: Sfurim, Alechem e Perez. Indicando lucidamente i limiti e i pericoli della Haskalah[11], assimilazione e conseguente perdita dell’identità ebraica, restituirono allo yiddish il rango di lingua, tanto più ricca perché mobile e non cristallizzata.

È proprio Sfurim, che, come abbiamo già in precedenza ricordato, viene unanimemente definito “il nonno”, der Seide (< pol. dziad, “nonno”) della letteratura yiddish, sente la forte esigenza di restituire una dignità alla “figlia rifiutata”.

«Osservando la lingua dei miei fratelli, fui preso dal desiderio di raccontare le loro storie prese dalla vita degli ebrei nella lingua sacra. La maggior parte di essi, tuttavia, non capiva quella lingua, perché parlava yiddish […]. La domanda – per chi mi affatico, allora? – non mi dava riposo, lasciandomi assai confuso. I nostri scrittori, che conoscono diverse lingue, ma che si occupano solo dell’ebraico, senza interessarsi del popolo, avevano sempre guardato allo yiddish con disdegno e dispregio. […] Grande fu la mia esitazione quando realizzai che se io avessi fatto uso di questa lingua esecranda, sarei stato ricoperto di vergogna […]. Ma il mio amore per ciò che è utile trionfò sulla mia vuota vanità e decisi: a qualsiasi costo, io voglio avere pietà della lingua yiddish, la figlia rifiutata, e fare qualcosa per il mio popolo».

Scrive, a proposito dell’eterna dicotomia assimilazione/conservazione:

«La vita degli ebrei dalla shtetl può sembrare, esternamente, misera e oscura, ma essa è, nei suoi recessi più nascosti, splendida. Un forte vento li possiede, uno spirito celeste che soffia come il vento che solleva le onde, per spazzare via sporcizia e sudiciume. […] Israele è il Diogene delle nazioni; le menti degli uomini della shtetl salgono fino al cielo, consci della grandezza di Dio e questi uomini vivono fra le nazioni del mondo chiusi in una botte, stretti nelle anguste shtetlach».

In Kafka troviamo una simile entusiastica dichiarazione d’amore per lo yiddish. Più circospetto, lo scrittore praghese non può, però, non riconoscere il fascino che da esso emana: simbolo di comunità psicologicamente forti, almeno così gli apparivano, esso è un formidabile elemento di aggregazione. Come ebreo praghese di lingua tedesca, Kafka si trova in una posizione particolare:

«Una grande antica comunità ebraica che da lungo tempo si disperde e si dissolve nella cultura tedesca e che pretende di essere tedesca. Nel frattempo però tutti i tedeschi ariani stanno soccombendo alla cechizzazione che incomincia a prendere anche molti ebrei. Solo gli ebrei credono ancora di difendere la lingua e la cultura tedesca. Ma poiché vivono senza alcun contatto con il popolo tedesco, il loro carattere è naturalmente in gran parte ebraico. Solo che nessun praghese se ne accorge e quasi tutti rifiutano la consapevolezza del loro ebraismo»[12].

Ebraismo e germanesimo erano così fusi e intrecciati che gli ebrei praghesi ritenevano il loro ghetto un avamposto e un baluardo della lingua e della letteratura tedesca in un territorio ostile. Quasi totalmente ignari dell’antisemitismo presente in altre parti dell’Impero austriaco, particolarmente forte nella stessa Vienna, la comunità ebraica costituiva l’esempio più evidente della possibilità di una felice coabitazione tra ebrei e “gentili”.

Il sionismo di Buber ebbe un effetto dirompente tra la borghesia praghese che costituiva un gruppo omogeneo: l’ebreo, che la diaspora aveva obbligato a seguire le culture più diverse e ad assimilarsi a esse, doveva ritrovare la “comunità di sangue”, ossia il filo rosso che, attraverso i secoli, le generazioni e le sofferenze subite, lo avrebbe riportato alla sostanza dell’ebraismo. Lacerato dalla diaspora, egli poteva ritrovare l’unità perduta.

«”L’aspirazione all’unità – concludeva Buber – è ciò che ha reso l’ebreo creatore”. La vera emancipazione dell’ebreo dalla cultura sterile e intellettualistica del galút [“esilio”, in ebraico] era quindi il ritorno alla creatività della sintesi, che Buber intendeva come sintesi di tutte le sintesi ovvero come la finale ricomposizione di tutte le fratture che dilaniavano l’uomo moderno»[13].

Con la riproposizione della tradizione chassidica[14] dell’Europa orientale, schiettamente popolare, era inevitabile che ritornasse sulla scena il “gergo”. Lo yiddish appare ora sotto una luce totalmente diversa; non è l’ennesima imitazione della cultura dei goym [gentili, cioè non ebrei], ma qualcosa di veramente “ebraico”, puro e istintivo.

«[...] Nel vituperato gergo yiddish si esprimeva tutta la gioia di vivere dell’anima popolare ebraica. “Solo nel segno di questo disprezzato dialetto del galút – concludeva Birnbaum [scrittore, ebraista e appassionato cultore dello yiddish] – il popolo ebraico può maturare la sua piena autonomia e conquistarsi quella seconda, più alta emancipazione che è l’emancipazione nazionale”»[15].

L’unità nazionale era tale in funzione dell’unità linguistica rappresentata, appunto, dallo yiddish, lingua non ebraica ma parlata esclusivamente da ebrei. Quest’unità non poteva non interessare Kafka, affascinato e respinto da quel senso di appartenenza a una grande famiglia, soffocante e insieme calda e accogliente, che ne emanava. Un segno di questo suo sentimento ambivalente lo si riscontra nelle annotazioni diaristiche e nella lettera che abbiamo riportato: ha «riso» dello yiddish, pur considerando quest’atto un’espressione d’amore, e tuttavia «resta in pena» a lungo, prima di riuscire a buttar giù il discorso che dovrà tenere in sinagoga. «Freddo e caldo» si alternano in lui, proprio ciò che accade, quando si ha paura di non poter mantenere la massima obiettività di fronte a un argomento o una situazione che ci sta particolarmente a cuore e che pure vorremmo affrontare con distacco e imparzialità.

Con apparente levità e con una certa aria di scherno educato, si rivolge al pubblico di neofiti presente in sala: raccomanda loro di non aver «paura», di lasciarsi andare alla forza anarchica dello yiddish, idioma giovane e senza grammatica, alla cui formazione si può dire non ci sia stata lingua che non abbia concorso.

Come parlanti tedesco – dichiara Kafka – non dovrebbe esser loro difficile capire il senso di ciò che di lì a poco sarebbe stato letto. Eppure proprio nella stretta intimità che collega lo yiddish al tedesco, si cela l’insidia maggiore: la parentela che li lega, sarebbe letale per il primo.

Forse, neanche tanto nascostamente, Kafka suggerisce che per essere dei veri ebrei, e quel che più conta, ebrei felici, bisogna dimenticare la cultura tedesca simbolo dell’occidente e di una modernità il cui scetticismo e razionalismo sono portatori di inquietudine e instabilità.

Al di là di tutto, tuttavia delle illazioni che l’ambiguità della Rede spinge a fare, ci sono alcuni elementi che possono interessare lo studioso di germanistica e che personalmente ci hanno spinto a fare la nostra piccola ricognizione. Il primo è il riferimento sinistro al pericolo di una traduzione dello yiddish in tedesco: quest’ultimo annullerebbe il primo e, a posteriori, questo Vernichten ha il sapore di una premonizione[16]. Il secondo è, in un certo qual modo, la spiegazione di questa impossibile conciliazione tra le due lingue: il Bloit e il Toit yiddish non corrispondono al Blut e tot tedeschi. Il significante è quasi simile, ma i significati non sono totalmente sovrapponibili. Se per quanto riguarda l’impossibilità di una traduzione c’è una certa esagerazione, l’osservazione di una non totale corrispondenza e quindi di una notevole difficoltà, più che impossibilità, di una traduzione, risponde a verità. Parole che in tedesco hanno un significato, diventano nello yiddish polisemiche e si prestano a letture “equivoche” in senso positivo: è il caso di shul, o del verbo lernen; tradurli rispettivamente con “scuola” e “imparare” sarebbe riduttivo e banalizzante. Tutto un mondo, solo in parte coincidente con la germanicità, si muove dietro questi e altri termini: la religione e le leggi che essa detta in fatto di morale pubblica e privata, l’ebraico, la “lingua santa”, entrano, e sono fondamentali, nella costituzione del colorato e sanguigno yiddish. Per affrontarlo non basta un solo punto di vista; in esso c’è molto, moltissimo tedesco, ma anche l’ebraico.

Contemporaneamente «legge e arbitrio», lo yiddish divora e assimila allegramente quanto riesce a sottrarre alle altre lingue: esso possiede, per usare le parole di Kafka, «una forza a noi sconosciuta». 

Le sfere semantiche da noi analizzate sono state scelte in base al loro riferimento alla tradizione religiosa ebraica. In altre parole, abbiamo privilegiato quelle voci in cui ci sembrava che il riferimento alle Scritture e, insieme, quello alla letteratura e alla lingua tedesca fosse più evidente e ricco di significati.

Siamo consci naturalmente di non aver esaurito tutte le implicazioni sottese a termini così ricchi di sfumature come lernen o schlemihl, ma a nostra, parziale, scusante va detto che il campo della semantica yiddish è un terreno ancora vergine e tutto da esplorare.

Note

[1] Sullo yiddish, sulla sua storia e la sua struttura, ben poco è disponibile in italiano: S. Zucker, Yiddish. Lingua, letteratura e cultura. Corso per principianti, a cura di M.I. Romano, prefazione di M. Ovadia, Firenze, Giuntina, 2007. Ricordiamo: P. Althaus, Yiddish, in “Current trends in linguistics”, a cura di T.A. Seboek, 9, The Hague 1972; S.A. Birnbaum, Yiddish. A survey and a grammar, Toronto, University of Toronto Press, 1979; B. Harshav, The meaning of yiddish, Berkeley, University of California Press, 1990; N.G. Jacobs, Yiddish. A linguistic introduction, Cambridge, Cambridge University Press, 2005.

[2] “Candelina”, “fiorellino”, “canzoncina”. –lach è probabilmente una fusione tra il suffisso diminutivo bavarese –l e il francone –chen.

[3] Franz Kafka, Rede über die jiddische Sprache (Februar 2012): «Vor den ersten Versen der ostjüdischen Dichter möchte ich Ihnen, sehr geehrte Damen und Herren, noch sagen, wie viel mehr Jargon Sie verstehen als Sie glauben.

Ich habe nicht eigentlich Sorge um die Wirkung, die für jeden von Ihnen in dem heutigen Abend vorbereitet ist, aber ich will, daß sie gleich frei werde, wenn sie es verdient. Dies kann aber nicht geschehen, solange manche unter Ihnen eine solche Angst vor dem Jargon haben, daß man es fast auf ihren Gesichtern sieht. Von denen, welche gegen den Jargon hochmütig sind, rede ich gar nicht. Aber Angst vor dem Jargon, Angst mit einem gewissen Widerwillen auf dem Grunde ist schließlich verständlich wenn man will.

Unsere westeuropäischen Verhältnisse sind, wenn wir sie mit vorsichtig flüchtigem Blick ansehn, so geordnet; alles nimmt seinen ruhigen Lauf. Wir leben in einer geradezu fröhlichen Eintracht, verstehen einander, wenn es notwendig ist, kommen ohne einander aus, wenn es uns paßt, und verstehen einander selbst dann; wer könnte aus einer solchen Ordnung der Dinge heraus den verwirrten Jargon verstehen oder wer hätte auch nur die Lust dazu?

Der Jargon ist die jüngste europäische Sprache, erst vierhundert Jahre alt und eigentlich noch viel jünger. Er hat noch keine Sprachformen von solcher Deutlichkeit ausgebildet, wie wir sie brauchen. Sein Ausdruck ist kurz und rasch.

Er hat keine Grammatiken. Liebhaber versuchen Grammatiken zu schreiben, aber der Jargon wird immerfort gesprochen; er kommt nicht zur Ruhe. Das Volk läßt ihn den Grammatikern nicht.

Er besteht nur aus Fremdwörtern. Diese ruhen aber nicht in ihm, sondern behalten die Eile und Lebhaftigkeit, mit der sie genommen wurden. Völkerwanderungen durchlaufen den Jargon von einem Ende bis zum anderen. Alles dieses Deutsche, Hebräische, Französische, Englische, Slawische, Holländische, Rumänische und selbst Lateinische ist innerhalb des Jargon von Neugier und Leichtsinn erfaßt, es gehört schon Kraft dazu, die Sprachen in diesem Zustande zusammenzuhalten. Deshalb denkt auch kein vernünftiger Mensch daran, aus dem Jargon eine Weltsprache zu machen, so nahe dies eigentlich läge. Nur die Gaunersprache entnimmt ihm gern, weil sie weniger sprachliche Zusammenhänge braucht als einzelne Worte. Dann, weil der Jargon doch lange eine mißachtete Sprache war.

In diesem Treiben der Sprache herrschen aber wieder Bruchstücke bekannter Sprachgesetze. Der Jargon stammt zum Beispiel in seinen Anfängen aus der Zeit, als das Mittelhochdeutsche ins Neuhochdeutsche überging. Da gab es Wahlformen, das Mittelhochdeutsche nahm die eine, der Jargon die andere. Oder der Jargon entwickelte mittelhochdeutsche Formen folgerichtiger als selbst das Neuhochdeutsche; so zum Beispiel ist das Jargon'sche ›mir seien‹ (neuhochdeutsch ›wir sind‹) aus dem Mittelhochdeutschen ›sîn‹ natürlicher entwickelt, als das neuhochdeutsche ›wir sind‹. Oder der Jargon blieb bei mittelhochdeutschen Formen trotz des Neuhochdeutschen. Was einmal ins Ghetto kam, rührte sich nicht so bald weg. So bleiben Formen wie ›Kerzlach‹, ›Blümlach‹, ›Liedlach‹.

Und nun strömen in diese Sprachgebilde von Willkür und Gesetz die Dialekte des Jargon noch ein. Ja der ganze Jargon besteht nur aus Dialekt, selbst die Schriftsprache, wenn man sich auch über die Schreibweise zum größten Teil geeinigt hat. Mit all dem denke ich die meisten von Ihnen, sehr geehrte Damen und Herren, vorläufig überzeugt zu haben, daß Sie kein Wort des Jargon verstehen werden.

Erwarten Sie von der Erklärung der Dichtungen keine Hilfe. Wenn Sie nun nicht einmal imstande sind, Jargon zu verstehen, kann Ihnen keine Augenblickserklärung helfen. Sie werden im besten Fall die Erklärung verstehen und merken, daß etwas Schwieriges kommen wird. Das wird alles sein. Ich kann Ihnen zum Beispiel sagen:

Herr Löwy wird jetzt, wie es auch tatsächlich sein wird, drei Gedichte vortragen. Zuerst ›Die Grine‹ von Rosenfeld. Grine das sind die Grünen, die Grünhörner, die neuen Ankömmlinge in Amerika. Solche jüdische Auswanderer gehen in diesem Gedichte in einer kleinen Gruppe mit ihrem schmutzigen Reisegepäck durch eine New Yorker Straße. Das Publikum sammelt sich natürlich an, bestaunt sie, folgt ihnen und lacht. Der von diesem Anblick über sich hinaus erregte Dichter spricht über diese Straßenszenen hinweg zum Judentum und zur Menschheit. Man hat den Eindruck, daß die Auswanderergruppe stockt, während der Dichter spricht, trotzdem sie fern ist und ihn nicht hören kann. Das zweite Gedicht ist von Frug und heißt ›Sand und Sterne‹.

Es ist eine bittere Auslegung einer biblischen Verheißung. Es heißt, wir werden sein wie der Sand am Meer und die Sterne am Himmel. Nun, getreten wie der Sand sind wir schon, wann wird das mit den Sternen wahr werden?

Das dritte Gedicht ist von Frischmann und heißt ›Die Nacht ist still‹.

Ein Liebespaar begegnet in der Nacht einem frommen Gelehrten, der ins Bethaus geht. Sie erschrecken, fürchten verraten zu sein, später beruhigen sie einander.

Nun ist, wie Sie sehen, mit solchen Erklärungen nichts getan.

Eingenäht in diese Erklärungen werden Sie dann bei dem Vortrage das suchen, was Sie schon wissen, und das, was wirklich da sein wird, werden Sie nicht sehen. Glücklicherweise ist aber jeder der deutschen Sprache Kundige auch fähig, Jargon zu verstehen. Denn von einer allerdings großen Ferne aus gesehn, wird die äußere Verständlichkeit des Jargon von der deutschen Sprache gebildet; das ist ein Vorzug vor allen Sprachen der Erde. Sie hat dafür auch gerechterweise einen Nachteil vor allen. Man kann nämlich Jargon nicht in die deutsche Sprache übersetzen. Die Verbindungen zwischen Jargon und Deutsch sind zu zart und bedeutend, als daß sie nicht sofort zerreißen müßten, wenn Jargon ins Deutsche zurückgeführt wird, das heißt es wird kein Jargon mehr zurückgeführt, sondern etwas Wesenloses. Durch Übersetzung ins Französische zum Beispiel kann Jargon den Franzosen vermittelt werden, durch Übersetzung ins Deutsche wird er vernichtet. ›Toit‹ zum Beispiel ist eben nicht ›tot‹ und ›Blüt‹ ist keinesfalls ›Blut‹.

Aber nicht nur aus dieser Ferne der deutschen Sprache können Sie, verehrte Damen und Herren, Jargon verstehen; Sie dürfen einen Schritt näher. Noch zumindest vor nicht langer Zeit erschien die vertrauliche Verkehrssprache der deutschen Juden, je nachdem ob sie in der Stadt oder auf dem Lande lebten, mehr im Osten oder im Westen, wie eine fernere oder nähere Vorstufe des Jargon, und Abtönungen sind noch viele geblieben. Die historische Entwicklung des Jargon hätte deshalb fast ebenso gut wie in der Tiefe der Geschichte, in der Fläche der Gegenwart verfolgt werden können.

Ganz nahe kommen Sie schon an den Jargon, wenn Sie bedenken, daß in Ihnen außer Kenntnissen auch noch Kräfte tätig sind und Anknüpfungen von Kräften, welche Sie befähigen, Jargon fühlend zu verstehen. Erst hier kann der Erklärer helfen, der Sie beruhigt, so daß Sie sich nicht mehr ausgeschlossen fühlen und auch einsehen, daß Sie nicht mehr darüber klagen dürfen, daß Sie Jargon nicht verstehen. Das ist das Wichtigste, denn mit jeder Klage entweicht das Verständnis. Bleiben Sie aber still, dann sind Sie plötzlich mitten im Jargon. Wenn Sie aber einmal Jargon ergriffen hat – und Jargon ist alles, Wort, chassidische Melodie und das Wesen dieses ostjüdischen Schauspielers selbst –, dann werden Sie Ihre frühere Ruhe nicht mehr wiedererkennen. Dann werden Sie die wahre Einheit des Jargon zu spüren bekommen, so stark, daß Sie sich fürchten werden, aber nicht mehr vor dem Jargon, sondern vor sich. Sie würden nicht imstande sein, diese Furcht allein zu ertragen, wenn nicht gleich auch aus dem Jargon das Selbstvertrauen über Sie käme, das dieser Furcht standhält und noch stärker ist. Genießen Sie es, so gut Sie können! Wenn es sich dann verliert, morgen und später – wie könnte es sich auch an der Erinnerung an einen einzigen Vortragsabend halten! –, dann wünsche ich Ihnen aber, daß Sie auch die Furcht vergessen haben möchten. Denn strafen wollten wir Sie nicht».

[4] Attore di lingua yiddish, originario della Russia e amico di Kafka. Cfr. G. Massino, Fuoco inestinguibile. Franz Kafka, Jizchak Löwy e il teatro yiddish polacco, Roma, Bulzoni, 2002.

[5] «Ich beginne für die Conférence zu Löwys Vorträgen zu schreiben. Sie ist schon Sonntag, den achtzehnten. Ich werde mich mehr viel Zeit haben, mich vorzubereiten und stimme doch ein Rezitativ an wie in der Oper. Nur deshalb, weil schon seit Tagen eine ununterbrochene Aufregung mich bedrängt und ich vor dem eigentlichen Beginn halbwegs zurückgezogen ein paar Worte nur für mich hinschreiben will, um dann erst, ein wenig in Gang gebracht, vor die Öffentlichkeit mich hinzustellen. Kälte und Hitze wechselt in mir mit dem wechselnden Wort innerhalb des Satzes, ich träume melodischen Aufschwung und Fall, ich lese Sätze Goethes, als liefe ich mit ganzen Körper die Betonungen ab» [T. 249].

[6] «Ich habe so lange nichts geschrieben, weil ich einen Vortragsabend Löwys im Festsaal des jüdischen Rathauses am 18.2.1912 veranstaltet habe, bei dem ich einen kleinen Einleitungsvortrag über Jargon hielt. Zwei Wochen lebte ich in Sorgen, weil ich den Vortrag nicht zustandebringen konnte. Am Abend vor dem Vortrag gelang es mir plötzlich» [T. 250].

[7] Kafka an Felice Bauer (Prag, 6. November 2012): «Überdas Jargontheater habe ich gewiss nicht ironisch gesprochen, vielleicht gelacht, avber das gehört zu Liebe. Ich habe sogar vor einer Unzahl von Menschen, wie mir jetzt vorkommen, einen kleinen Einleitungsvortrag gehalten und der Löwy hat dann gespielt, gesungen und rezitiert» [F. 77].

[8] Lett. gli “illuminati”, gli illuministi ebrei seguaci di Mendelssohn.

[9] Moses Meldessohn (1729-86), filosofo ed erudito tedesco, nacque a Dessau e si trasferì poi a Berlino, dove studiò filosofia, matematica, latino, francese, inglese ed entrò in contatto con la cultura illuminista europea. Divenne amico di Gotthold Ephraim Lessing che lo incoraggiò a scrivere opere letterarie in tedesco che pubblicò di lui, anonimi, alcuni scritti filosofici.

Nel 1769 partecipò a una disputa sull’ebraismo in seguito alla quale si dedicò a temi riguardanti espressamente la fede ebraica. Nel 1783 pubblicò una traduzione in tedesco, ma in caratteri ebraici, del Pentateuco, con commento in ebraico, il Bi’ur. Questa traduzione gli procurò non pochi problemi con le autorità rabbiniche, perché considerata capace di allontanare i giovani dallo studio della tradizione religiosa ebraica.

Nella sua opera principale, Jerusalem (1783), Mendelssohn auspicò la separazione tra Chiesa e Stato, affermando che il controllo sociale poteva essere effettuato sulle azioni e non sulle credenze religiose: è un dei concetti che ritroviamo in Nathan il Saggio di Lessing, di cui Mendelssohn fu il modello.

[10] J. Baumgarten, Lo yiddish, Firenze, Giuntina, 1992.

[11] Il movimento illuminista (deriva infatti dall’ebraico sekhel, “intelletto, “ragione”) si sviluppò alla fine del XVIII secolo. Nato in Germania si estese in Austria, Polonia e Russia. I suoi seguaci, i maskilim, erano favorevoli a una riforma dell’istruzione e della liturgia, oltre alla integrazione degli ebrei nel territorio, attraverso la conoscenza del paese in cui vivevano, un adattamento alla cultura profana e allo stile di vita del mondo circostante.

[12] Queste parole di Leo Hermann, presidente dell’associazione sionista praghese Bar Kochbà, sono riportate in G. Baioni, Kafka. Letteratura ed ebraismo, Torino, Einaudi 1984.

[13] Ibidem.

[14] Il chassidismo fu un movimento religioso e sociale fondato dal Baal Shem Tov (lett. “Signore del Sacro nome”) nel XVII secolo e diffuso in Volinia e Podolia. Il Baal predicava l’uguaglianza di fronte a Dio, la purezza di cuore, l’integrità di spirito come valori superiori all’erudizione e una entusiastica e gioiosa devozione al Signore.

Il movimento si diffuse in tutta l’Europa orientale e fu duramente osteggiato dai talmudisti (chiamati mitnagghedim, “oppositori”) che vedevano nell’innovazione dei chassidim (i cambiamenti nella liturgia, l’elasticità negli orari delle preghiere, la negligenza nello studio della Torah e l’adulazione verso la figura del capo chassidico) un pericoloso attentato all’ortodossia. Cfr. V. Pinto, L'ebreo nuovo nazionalista nell'opera di Nathan Birnbaum, "Studi Storici", 41, 3, 1999, pp. 714-742; M. Buber, Il messaggio del chassidismo, Firenze, Giuntina, 2012.

[15] Baioni, op. cit.

[16] I Vernichtungslager (campi di sterminio) nazisti hanno inghiottito tutta la yiddishkeit (mondo ebraico di lingua yiddish) di Moravia, Romania, Ungheria, Slovacchia, Polonia, Ucraina, Bielorussia, Lituania, Estonia, Lettonia. Cfr. P. Kriwaczek, Yiddish. Ascesa e caduta di una nazione, Torino, Lindau, 2010.

Casella di testo

Citazione:

Alessandra Cambatzu, Le parole dello yiddish, I: Introduzione, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VI, 1, gennaio 2017

url: http://www.freeebrei.com/anno-vi-numero-1-gennaio-giugno-2017/introduzione