Giuseppe Veltri, L'ebraismo e la "Legge"

"Free Ebrei", IV, 2, novembre 2015

L'ebraismo e la "Legge". Hans-Joachim Scheops interprete della figura di Franz Kafka

di Giuseppe Veltri

Abstract

Giuseppe Veltri's note contextualizes Hans-Joachim Schoeps' theological considerations on Kafka's works after the Second World War and according to the theological problem of the Holocaust.

La mia conoscenza dell’opera e della biografia politica e culturale di Hans‒Joachim Schoeps è sporadica e legata alla mie letture trasversali sull’ebraismo tedesco fino al 1945.

Ho incontrato Hans‒Joachim Schoeps nell’epistolario di Gerhard Gershom Scholem oltre che come autore di saggi sulla visione di teologia ebraica pubblicati prima della perfida azione dei nazisti. Recentemente me ne sono occupato per la sua polemica nei confronti di Isaac Baer e del suo libro sulla Galut (la dispersione di Israele). E, infatti, nel settimo fascicolo dell’anno 1936, cioè all’acme delle persecuzioni antisemite messe in atto dalla ferocia nazista, la rivista “Der Morgen” divulgava una recensione di questo storico delle religioni - ebreo ma politicamente vicino all’ideologia nazista - che definiva sprezzantemente il saggio di Baer un «libretto»[1].  La critica di Schoeps è rivolta contro la palese presa di partito di Baer in favore della soluzione politica della dispersione di Israele (Aufhebbarkeit der Galut durch politische Maßnahmen und Aktionen) cioè contro il suo sionismo chiaro e limpido. Il nucleo dell’ebraismo consiste invece, secondo Schoeps, nel fatto che il popolo ebraico è un popolo eletto, una natura che si esplica nella storia anche se con dolore e sofferenza. Per Baer la Galut non è unicamente un concetto di spazio (ḥuṣ la‒areṣ) mentre per il teologo tedesco la diaspora è un concetto di tempo: un tempo che terminerà con i giorni del Messia. Lo spazio non avrebbe importanza, come non avrebbe importanza il ritorno nella Terra di Israele. Sarebbe interessante, seppure estremamente arbitrario, collegare la dottrina apocalittica di Schoeps con la sua tenacia nel vedere nel nazismo la salvezza della Germania. Egli si identificava con il Deutschtum e rifiutava ogni patria in Germania a coloro che, in quanto ebrei, non si ritenevano tedeschi, come sosteneva nel suo periodico “Der Vortrupp” organo della società Der deutsche Vortrupp. Gefolgschaft deutscher Juden da lui stesso fondata[2]. Un’illusione, come la storia dimostrerà.

Leggendo la bella traduzione di Vincenzo Pinto mi son arricchito di un elemento che non mi era del tutto presente, vale a dire la sua reazione alla Shoah per come la riflette proprio nel suo peregrinare nelle pagine di Kafka. Il  suo saggio del 1951 sui “Motivi teologici nell’opera di Franz Kafka” è esemplare di una parte di coloro che, soprattutto non ebrei, direttamente o indirettamente davano e danno la colpa (o l’attribuzione di colpa) della grande tragedia perpetrata dai nazisti agli ebrei stessi. 

In questa mia piccola nota non mi soffermerò di certo sul problema “se e come” Kafka sia da chiamarsi teologo, bensì sulle note schoepsiane che commentano l’opera di Kafka. Si noti la prima affermazione: “Solo la teologia ebraica conosce il fenomeno autentico della storia della dannazione: le circostanze storiche della salvezza si trasformano nel loro esatto contrario, il principio strutturale della rivelazione (la legge) regna ancora nella forma dell’assenza ed esercita un dominio inconfondibile” (109).  Schoeps proietta in Kafka quello che egli pensa sia il centro di quello che io chiamerei autismo letterario kafkiano: quel girar e rigirar sull’individualità come oppressione, soppressione di un mondo che si costituisce come il male assoluto e forse necessario. Per Schoeps (ma anche per Scholem), la Legge non è altro che quello che ebraicamente viene definito Torah, intendendo non solo quella scritta ma anche quella orale sanzionata nel corso dei secoli. Certamente uno Scholem non l’avrebbe designata “storia della dannazione”, essendo essa piuttosto nata nella concezione e riflessione di Schopes che rispecchia evidentemente gli anni tremendi. Schoeps rincara la dose quando ripercorre le tappe di questa negazione perenne, attribuendo a Kafka l’aver tracciato il percorso come storia di rinnegamento, con le sue parole: “Il rinnegamento della legge rivelata trasforma la storia nella storia della dannazione umana, che si ripercuote sul crescente distacco del mondo dalla sua norma rivelata nell’esito finale delle distruzioni, che, partendo dall’accecamento umano (storia come dannazione!), rappresenta un’evoluzione incessante e un progresso costruttivo” (112).

Il teologo Schoeps sviluppa, seguendo la sua interpretazione di Kafka, una teologia al negativo, una teologia che fa della distruzione una necessità dell’esser ebreo. Egli attribuisce, proprio seguendo Paolo – che ben conosceva, come sottolinea Pinto – (e non la discussione talmudica o posteriore ad essa), una storia negativa che parte dalla costatazione secondo la quale la legge abbia perduto il mondo: “L’aspetto importante è che la situazione storica della dannazione è sorta perché, a seguito della frattura storica del tempo, la legge ha perduto il mondo e, successivamente, il mondo bisognoso di legge gira a vuoto. Restano angosce, presentimenti incerti – e una speranza fantastica che in un futuro lontano venga abrogata la geserah e si verifichi il miracolo della storia della salvezza. Ma come tutto questo possa accadere lo descrive il racconto Lo stemma cittadino che narra della torre babilonese mai terminata, il cui unico risultato visibile fu l’eterna discordia” (113).  Tuttavia, mentre per Kafka - ma soprattutto per l’ebraismo - la discordia è negativa perché non ammette comunicazione, e positiva perché nessun può arrogarsi il diritto di parlare per tutti, per Schoeps è un mito che segue la salvezza che forse verrà.    

È difficile dare un’interpretazione personale, anche troppo intima e autobiografica, della figura di Kafka, anche se (rappresenta) un angolo nella storia dell’ermeneutica letteraria, come ben afferma Pinto nella postfazione. Bisogna separare Schoeps da Kafka e interpretarlo come un momento della storia tragica dell’ebraismo tedesco, ancor più tragica per coloro che cercavano proprio nell’ideologia del male un raggio di bene. In questa breve presentazione non mi sono soffermato sui saggi di Schoeps prima del 1945, ben commentati dalla postfazione di Pinto, piuttosto, volutamente ho deciso di soffermarmi sull’ultimo saggio per il suo voluto accento “teologico” dopo la catastrofe, dopo la Shoah. Hans-Joachim Schoepes resta un momento decisamente trasversale dell’ebraismo tedesco,  che deve essere letto anche come reazione alla damnatio memoriae cui era investito e circondato da molte parti, specialmente da coloro che non lo hanno mai preso sul serio né dal punto di vista scientifico né dal punto di vista di un intellettuale che inseguiva la sua parte in un teatro che non cercava comparse o spettatori, ma attori. Come rileva Pinto non si tratta di una storia e una percezione del normale a cui si potrebbe rispondere ionescamente con l’assurdo, bensì di una storia in cui vigeva l’assurdo; si viveva una morale in una situazione di confine (Grenzsituation) dove la morale affermativa e performativa propriamente non ha posto. Si può, e su questo si è veramente Kafkiani, aspettare e sperare che l’assurdo diventi salvezza.

Note

[1] H. J. Schoeps, Galut, «Der Morgen», xii/7 (1936), pp. 321‒324.

[2] C.J. Rheins, Der Vortrupp, Gefolschaft deutscher Juden 1933‒1935, in «Leo Baeck Institute Yearbook», xxvi (1981), pp. 207‒229, disponibile online:

http://leobaeck.oxfordjournals.org/content/26/1/207.extract (ultimo accesso agosto 2011).

Casella di testo

Citazione:

Giuseppe Veltri, L'ebraismo e la "Legge", "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", IV, 2, novembre 2015

url: http://www.freeebrei.com/anno-iv-numero-2-luglio-dicembre-2015/giuseppe-veltri-lebraismo-e-la-legge