Daniel De Lucia, Il pensiero mobile

"Free Ebrei", VI, 2, dicembre 2017

Il pensiero mobile: il metodo da Spinoza e Rosenzweig nell’opera di Giuliano

 

di Daniel de lucia

Abstract

Starting from the dissertation of Fabio Giuliano, Daniel de lucia explores the problem of a "new thinking" (and an alternative method) in two valuable Jewish philosophers: Baruch de Spinoza and Franz Rosenzweig. 

Un giorno, ricordo, ricordo come se fosse qualcosa accaduto pochi minuti fa, un mio collega e mio coetaneo, dottore di ricerca proveniente da studi di giurisprudenza, mi osservò, che anche gli ebrei ne hanno combinato delle loro, ne hanno combinato, (è inutile che te ne vanti tanto di essere ebreo, sottintendeva), vogliamo parlare infatti di come abbiano emarginato Spinoza dalla comunità?

Fu così che per la prima volta io non seppi cosa rispondere.

O meglio, un’idea in mente l’avevo, ma lì a breve raggio, io non seppi dare una risposta efficace, chiara, e in fondo, neanche ora, io so dare una risposta.

Esemplare.

È rimasta ieri come oggi una mera idea, ripeto.

Un’idea che identica alla sua, anch’io avrei formulato da israelita, ma non riuscivo a valutarla prossima a me nella misura in cui a formularmela allora, era un mio collega, mio coetaneo, che, seppur molto velatamente, non aveva e non ha marcate simpatie ebraiche.

Era lo stesso che infatti mi osservò in un’altra occasione, eh che poi questi ebrei a fare una Croce Rossa tutta a sé in Israele (si riferiva al Magen David) evidenziano un’ignoranza, la Croce della CR, non è una croce latina, di culto cristiano, è la croce della bandiera svizzera.

Lo stesso, cioè, che marcava nella differenza di un marchio per il pronto soccorso, un mero simbolo, nella bellezza insomma di una differenza, un difetto…

Come coniugare dunque la potenza di una frase quale “gli ebrei furono crudeli con un loro correligionario come Spinoza”, una frase che riflette un dato di fatto, storico quanto indiscutibile, con la pragmatica dell’autore che in un dato momento pronuncia una simile frase, favorendo così un taglio che della stessa frase ha poi poco-niente di storico e indiscutibile?

Ha tutto un sapore…antisemita…?

Tenterò di dare una risposta, quella che famosa è ancora in itinere, attraverso lo studio di un neolaureato in filosofia dell’ateneo dannunziano di Chieti, il Dott. Fabio Giuliano.

Autore di un testo che confronta Spinoza con Rosenzweig proprio nella metodica di un dato agire, peculiarmente nel loro ambito, religioso.

Due ebrei, allora, due epoche diverse per due paesi diversi.

Giuliano parte allora in tal senso, da ciò che potremmo modulare come la classica diatriba tra credenti e laici, esperienza in particolare, avvenuta all’Università di Padova nel 2013 ("Presenza e assenza di Dio nel mondo contemporaneo", l'11 giugno 2013).

Diatriba, parola che va usata senza alcun modulatore ammortizzante della sua forza, pulsante a dir poco, anche tra ebrei, dentro e fuori Israele.

È poi così distante il modus operandi della tesi rispetto alla sua antitesi e dell’antitesi rispetto alla sua tesi?, ci chiediamo.

Non è l’antitesi a sua volta una tesi che stimola nuovamente una nuova antitesi?, continuiamo a chiederci.

E se la risposta è affermativa per entrambe le domande, come qui vogliamo sottintendere, non è quello della dialettica, un discorso filosofico inutile nella misura in cui è sempre una dimensione conservatrice dello status quo la vincitrice finale?

Dicasi, parliamo e parliamo, ma sempre al punto di partenza restiamo?

Nello specifico della diatriba dogma e antidogma, quella evidenziata da Giuliano, una diatriba oggi poi, nei fatti, a favore di un incremento laico tra la popolazione, iniziamo col rilevare la mancanza di elementi culturalmente elaborati dagli interessati nella loro maggioranza.

Elementi che comportino una riflessione valida sui ritmi che una tesi e la sua antitesi possono prendere in un ristretto lasso di tempo storico:

1)   Le nuove generazioni ignorano l’esperienza storica dell’ateismo di stato per i paesi del Patto di Varsavia, nella quale fu proprio l’idolatria dell’ateismo medesimo, una nuova forma neoreligiosa, il segreto più intimo del crollo dell’ateismo medesimo nel blocco dell’Est, il segreto che svuotava di significato filosofico l’ateismo medesimo e

2)   La dichiarazione odierna e frequente di ateismo rivela tratti freudiani di rimozione della propria esperienza religiosa nell’infanzia, al punto che si è destinati a riscrivere percorsi dogmatici di impostazione teologica nell’ateismo del presente, invalidanti dell’ateismo medesimo.

Giuliano evidenzia così, in primis, la compresenza di un proprio “sistema di credenze”, per ogni, diremmo noi in linguistica, parlante.

Laico o credente.

La presenza di un sistema che appare dogmatico non in itinere ma a priori, sia in partenza che in arrivo di un dato confronto dialettico.

Un sistema che favorirebbe la singolarità del singolo piuttosto che la dialettica della dualità.

Un sistema di credenze che sottintenderebbe a una più attenta analisi, un sistema di passioni, di sentimenti, di emozioni, tali da trasformare una constatazione in un’osservazione, tali da trasformare la ragione in sentimento e nella discorsività, nella discorsività tra almeno due interlocutori, il sentimento in evocatore a sua volta di un altro sentimento, la perdita ormai totale della ragione.

Ecco perché io non riuscirei più a sintonizzarmi con il dato di fatto formulato dal mio collega, “Spinoza fu emarginato brutalmente dai suoi correligionari ebrei”.

Mia madre, un’ebrea israeliana, credeva molto nell’istruzione e di riflesso in me, suo figlio, istruito.

Mi comprava allora molto materiale da cartoleria per questo motivo e una volta in Israele, mi comprò una gomma per cancellare nella quale vi era raffigurata la Knesset sullo sfondo e in primo piano due ebrei di profilo che discutevano.

Uno era un rabbino e l’altro un ebreo laico, secolarizzato, a dire che queste erano e sono entrambe anime di Israele, del popolo ebraico.

Un po’ come quando in Israele si evidenzia la differenza tra Tel Aviv e Gerusalemme, la prima una città laica e la seconda una città confessionale.

Un po’ come quando, anche, l’ironia ebraica racconta del rabbino che all’ebreo che insisteva sull’inesistenza di Dio, perché la Shoah era lì a dimostrarne la Sua inettitudine, la Sua assenza, il rabbino risponde che Dio invece esiste e prova ne sarebbe la loro stessa capacità di stare ancora lì, vivi, a parlarne.

Una contrapposizione solo apparente, nelle parole di Giuliano, che rifletterebbe una compresenza delle entrambi matrici in ciascun individuo quando si alternano sia la pulsione della razionalità che quella del sentimento.

Un rabbino potrebbe essere così razionale nel suo essere credente, e la precedente battuta crea sorriso proprio perché è rigorosamente e paradossalmente razionale, e un laico potrebbe essere irrazionale nel suo essere un non credente.

Irrazionale qui, da non confondere però, con fanatico.

La fede, il dogma, ne deriverebbe in altre parole, potrebbe essere letta così, non solo come fede per un’entità invisibile, un’entità metafisica, ma anche in fede per un’entità quale la ragione che è a sua volta certo un’entità invisibile.

Basti ricordare, basti citare, la Montalcini, un’altra ebrea, che rivelava quanto ancora misteriosa restasse la mente umana, il cervello nella fattispecie anatomica, alla scienza, proprio perché l’organo produttore di razionalità per definizione, sfuggiva a canoni razionali formulati da altri cervelli.

In questa impostazione duale dell’animo umano, Spinoza pur dando prevalenza alla razionalità, conclude che, certo, le emozioni hanno la loro rilevanza.

E Rosenzweig al contrario, pur dando prevalenza alle emozioni, determina la rilevanza della razionalità per una completezza delle emozioni.

Non si potrebbe vivere dunque senza emozioni, la razionalità renderebbe asettica l’esistenza, ma non si può vivere senza razionalità, perché le mere emozioni renderebbero l’esistenza breve.

Che non sia, a questo punto mi chiedo in relazione alla mia esperienza, l’emozione che rende distanti me e il mio collega a partire da una frase quale “Spinoza fu emarginato brutalmente dai suoi correligionari ebrei”, ma la ragione che per esistere, per intellettualizzare il nostro rapporto attraverso una frase come quella summenzionata, intellettualizzare persino il nostro rapporto d’amicizia, ci ha impedito di dirci semplicemente, meramente, banalmente, ehi, ti va un caffè? 

 

Dei filosofi ci giunge sempre un pensiero fatto, preconfezionato, come molti dei prodotti alimentari odierni da supermercato.

Ne ignoriamo costantemente la dialettica che il filosofo medesimo ha avuto nella sua quotidianità, magari con i suoi studenti, nelle sue lezioni accademiche, al punto da far avanzare un modello piuttosto che un altro nel proprio intelletto.

Io vorrei invece enfatizzare ciò che sussiste nel backstage di un pensiero filosofico e che sebbene i filosofi possono in toto ignorare per il proprio risultato finale, risultano essenziali per raffinarne l’impostazione teorica e in extremis anche applicativa, almeno nella sua fruizione.

In tal senso, nell’affrontare questi due filosofi israeliti, Giuliano inizia così la sua tesi analizzando la loro matrice biografica.

Indaga la loro biografia, che è risulta essere l’avvicinarsi proprio a questa dimensione che io enfatizzo.

Quanto un’esistenza, ci chiediamo ora, influenza un percorso intellettuale?

Può un’esistenza essere considerata come qualcosa a se stante rispetto a un pensiero o è una biografia intrinsecamente interconnessa con il pensiero medesimo dell’autore?

Se infatti Spinoza compie un percorso di distanza dall’ebraismo, ricorda Giuliano, Rosenzweig appare invece compiere un percorso inverso di riavvicinamento all’ebraismo, inteso come culto religioso, nonostante i due provengano entrambi comunque da ambienti ebraici.

Stessi ambienti dogmatici, intellettuali, realizzazioni filosofiche, teologiche, distanti.

Probabilmente non è la biografia in toto, pensavo io leggendo Giuliano, la causa rilevante quanto piuttosto singoli eventi sì biografici.

Eventi che possono essere più di uno ma sempre di entità numerica poco rilevante.

Tali singoli eventi biografici però, non avranno mai rilevanza come la contestualità, il pragmatismo del momento, qualcosa di più profondo, da vivere in prima persona, che, nel mio caso summenzionato, risulta essere l’interlocutore determinato, il mio collega coetaneo di giurisprudenza, davanti al mio orgoglio per la mia identità ebraica.

Tutto avviene nella frivolezza del quotidiano, ecco.

La rilevanza della contestualità passerebbe dal determinare sì un pensiero reattivo alla sua frase su Spinoza ma magari non un pensiero sistemico, potenzialmente ostile.

Insomma resterebbe una mera esperienza negativa provvisoria, proprio perché l’esperienza può essere individuale, quindi circoscritta a me e poi a me con lui.

Punto.

Potrei incitare milioni di persone a seguire il mio idealismo antitetico o semplicemente, come dicono oggi?...sbattermene?

In altre parole, potrebbe non essere sufficiente per me attivare un’aliyah risolutiva di un ambiente antisemita e se non avessi incontrato il mio collega, quel giorno, in quel momento, in quel luogo, non mi sarei mai posto neanche il problema, magari per superficialità.

Per leggerezza, verso un problema interpretativo.

Una terza via alla dualità tesi-antitesi, è già stata data, ma non valorizzata.

È dunque a mio avviso la discorsività regnante il modulatore principale tanto di una tesi quanto di un’antitesi sistemici.

Ciò che potenzialmente può portare ad arringare la folla in un senso o in un altro.

A entrare nella storia, uscendo dalla mediocrità.

Spinoza d’altronde, non vive nell’Europa postilluminista di Rosenzweig.

La logica del ghetto, regnante allora in Europa, del “quartiere ebraico” diremmo oggi, è già una garanzia identitaria, comunitaria.

Non si formulano gli stessi bisogni, le stesse urgenze.

Fuggire dal quotidiano, nello specifico, per Spinoza o fondare una Lehrhaus per Rosenzweig, dare una cornica al diluirsi culturale dell’identità ebraica.

La discorsività regnante che determina ripetitività problematica di una tesi ostile e di conseguenza, la necessità intellettuale di un’antitesi a livello sociale, partendo sempre ora sì dal singolo.

Se fossi vissuto in Israele, un paese a maggioranza ebraica, non avrei mai incontrato magari un interlocutore che appariva ai miei occhi così netto stilisticamente a proporre un argomento così importante.

Ne avrei così sentito parlare alla tv stando in Israele, ne avrei conosciuto qualcuno alla tv o come turista.

Ne avrei conosciuto qualcuno viaggiando, ne avrei sentito qualche racconto da qualche Olim peggio ancora, se io fossi stato Sabra, ma non lo avrei considerato come turbante della mia esperienza esistenziale.

Un mondo globalizzato e cosmopolita evidenzia questo meccanismo, la discorsività regnante di un dato luogo in un dato tempo, no.

Da linguista dunque, non posso che guardare, ripeto, più che alla biografia, che appare alle mie orecchie qualcosa di fin troppo vago, ampio, alla contingenza di un momento o di più momenti che sarebbero importanti ma che allo stesso tempo, non sarebbero determinanti.

A essere determinante è un clima discorsivo regnante omologante che poi, certo, può passare anche da singoli casi, singole esperienze ai suoi esordi.

Un’aliyah, allora dicevo, risolverebbe però tutto oggi, se la discorsività regnante diventasse ostile sistematicamente, ieri no, ed ecco che siamo nuovamente al punto di partenza.

L’impossibilità di dare una risposta alla rilevanza o meno della biografia nella sua generalità, insieme di molteplici episodi, per un pensiero intellettuale.

È vero, lui, il mio collega, potrebbe essere cresciuto in un ambiente, ed è cresciuto in un ambiente, potenzialmente ostile agli ebrei, dove come la metti la metti, un ebreo esprime sempre e solo negatività, ma a quel punto, io, potrei essere antitetico a lui in quel momento, in quel luogo e antitetico allo stesso tempo, anche con mia zia in Israele e il suo sionismo, per mero principio di ribellione a un pensiero che io e solo io trovo comunque restrittivo, limitante.

Esistono i telefoni, esiste Skype.

Il pregio di un mondo globalizzato e cosmopolita.

La libertà di pensiero che potrebbe apparire, indifferenza di pensiero.

La dialettica (singolo episodio biografico) dunque del momento, come antitetica di una discorsività regnante.

Unico cardine costante e contrario alla generalità e all’appiattimento di una biografia.

Rivoluzione autentica in un marasma di tutto e il contrario di tutto.

Pensieri diversi di contesti diversi non implicano così, l’assenza di un terzo pensiero mobile per il singolo.

Così andrebbe chiamato, ecco.

E lo chiamo: il pensiero mobile.

Intenso, reale e per definizione, divino.

Sublime.

Solo apparentemente, indifferente, grigio, nullo.

La domanda a questo punto, per il caso da me rilevato a mo’ di esempio pragmatico, sarebbe, l’identità ebraica, l’esperienza ebraica, poliedrica, non è già la soluzione in quanto non solo effettiva ma anche potenzialmente filosofica?

La dote che permette singoli angoli di felicità autentica e libertà in un ambiente essenzialmente ostile?

In più ambienti ostili?

E ancora, non è l’identità ebraica stessa poliedrica in quanto proprio contestuale, costituita da una stratificazione costante di contesti, non solo identità di una teorica emarginazione, come io cerco di rilevare quale matrice dominante?

Lungi da me certo, un, e ora…tutti a convertirsi all’ebraismo!

Parlo di pragmatismo del momento come reattività all’ostilità, che è in primis nella discorsività, quella regnante.

La differenza antropologica come una possibile dote.

L’emarginazione nonostante tutto, quella subita, e direi ancora subita da molti israeliti, determinerebbe lo stimolo di un’ampia gamma avanguardistica di antitesi in uscita:

1)   Quel “Spinoza fu emarginato brutalmente dai suoi correligionari ebrei” è una totalità totalizzante, perché accusi me vivo di qualcosa avvenuto mediante dei defunti?, difendersi per contrapposizione.

2)   Effettivamente…è così…hai ragione…, assecondare per omologazione.

3)   È una cosa tipicamente ebraica? E Galileo Galilei allora? Dove lo metti?, difendersi per relativizzazione.

4)   Se dovesse accadere ora, io non taccio, distanziarsi comparando, inducendo l’indifferenza.

Se dunque sì, di ebraico bisogna ricordare, come opera il Giuliano, Rosenzweig vive agli esordi del sionismo, Spinoza no.

E l’Europa dei ghetti di Spinoza non è l’Europa dell’integrazione borghese napoleonica fuori dai ghetti di Rosenzweig, la dimensione dell’individualità, una dimensione pragmatica, che si aggancia nella contingenza del contestuale, resta la dimensione per eccellenza più prossima alla libertà.

Tipo, la pagina Facebook, Mentana blasta la ggiente!

La contingenza del momento storico-biografico, si direbbe, E la peculiarità del singolo.

L’ipertrofizzazione dell’indole del singolo come modulatore di animi antitetici.

Io, potevo insomma essermi perso e distratto nella bellezza degli occhi del mio collega, subdolamente antisemita per evidente impulso emotivo nel formulare la sua frase su Spinoza, facendo così decadere il turbamento intellettuale medesimo, la rivoluzione intellettuale necessaria come antitetica.

Emotivamente in primis ma poi razionalmente intrapresa.

Nessun antisemitismo ma neanche alcun sionismo.

E chi lo dice che sono stati proprio i suoi occhi a distrarmi?

 

Giuliano a questo punto prosegue analizzando la contrapposizione tra mente e corpo in Spinoza da un lato e mente e corpo in Rosenzweig dall’altro.

Una contrapposizione che in Spinoza non si risolve, le due entità restano distanti e mai intersecabili, mentre in Rosenzweig (anima la definisce e non mente come Spinoza), le due entità dialogano tra di loro.

Una contrapposizione che poi, spinge Spinoza verso una forza centrifuga volta all’interno, mentre allo stesso tempo, spinge Rosenzweig in una forza centripeta volta all’esterno.

La posizione da me assunta nell’episodio da me riportato, riconduce, invece, a una posizione più prossima a Spinoza che a Rosenzweig nei termini finali, le soluzioni vanno trovate nel peculiare del singolo individuo, dicevo a esempio in un’identità come quella ebraica per il mio caso, ma più prossima a Rosenzweig che a Spinoza nei presupposti iniziali, io alterno razionalità ed emotività per non cadere nell’ideologia.

Restare nell’idealismo.

Ragione e sentimento si alternano insomma, e si intersecano tra di loro.

Il pensiero mobile come l’ho definito in relazione a un’antitesi che si contrapponga alla discorsività regnante in una data epoca e in una data società, con alternative diverse per un’altra società non necessariamente distante nel tempo, è un pensiero mobile anche nella misura in cui attinge ora alla razionalità, ora all’emotività.

Ora alla socialità, ora all’individualità.

Il pensiero mobile non riconosce insomma l’impossibilità di agire in comunione alla ragione e al sentimento a differenza di Spinoza, ma neanche risulta dipendente dall’agire esterno all’individuo come accade nella fase finale dell’analisi in Rosenzweig.

Quale intellettuale, io sarei necessario alla contrapposizione del momento, che si abbatte tutta sul singolo, per quanto ciò che avverte quel singolo può essere nei migliori dei casi, comune a tanti altri singoli.

Una posizione, questa, che rintraccia all’interno dell’individuo in chiave spinoziana, i meccanismi propri a un agire esterno all’individuo, nelle mie parole e per la mia esperienza, un’identità ebraica indefinita e indefinibile potrebbe essere una soluzione, ma anche un punto di partenza, e allo stesso tempo, si rintraccia una matrice razionale che non solo si sovrapponga alle emozioni, ma le distingua, le distanzi, le divida in maniera netta per favorirne alcune e distanziarne altre.

Non che le elimini, ma le gestisca.

D’altronde, chi mai potrebbe porre soluzione pedagogica a breve raggio se la discorsività regnante non presuppone un’alternativa emotiva che diventi discorsiva e la tempistica non permette di prospettare ampi raggi di reattività dialettica per impedire a sua volta una mera dominanza emotiva dell’intelletto?

Chi mai potrebbe vedere insomma, nella dimensione dell’oralità, l’oralità, non la scrittura si badi bene, nell’iconicità che la frase assume nell’oralità, vedere nella frase “Spinoza fu emarginato da altri ebrei come lui” del mio collega coetaneo e di giurisprudenza, una mera constatazione razionale e non un’espressività emotiva?

 

Una volta io mi dichiarai, ebreo ateo.

Su un social.

Apriti cielo.

Moltissimi leggendomi, evidenziavano una profonda contraddizione: come può una persona che prega secondo dettami religiosi dell’ebraismo essere allo stesso tempo una persona che non prega, perché non crede?

Costoro non vedevano né della lingua italiana la sinonimia tra ebreo e israelita, due sinonimi antropologicamente determinati, né sempre della lingua italiana, che non sorge contraddizione nel dire “io sono un israelita ateo”, così come quindi, “io sono un ebreo ateo”.

Costoro leggevano con la propria esperienza emotiva, un’emotività altrui razionalmente espressa.

Producevano nuove forme di interpretazione tipiche da setta, culture underground.

Ed ecco un nuovo attrito.

Giuliano d’altronde, attraverso Spinoza e Rosenzweig già elabora una natura poliedrica, non monolitica, dogmatica, del culto e della cultura all’interno dell’ebraismo con questi due filosofi.

Un modo di rapportarsi alla fede in primis che sembra sfuggire a orizzonti religiosi preesistenti, dunque come non potrebbe essere la non fede o per alcuni, la fede nella non fede?

Secondo le sue parole, le parole di Giuliano, ciò che in Spinoza è deduttivo, in Rosenzweig è induttivo.

La loro ricerca di un piano divino in loro è così che per loro procede.

E procede dialetticamente di fatto.

Di conseguenza, il pensiero mobile che qui formulo, apparirebbe decisamente rosenzweighiano, dicasi induttivo.

È dalla mia esperienza che parto, quella di una formazione culturale forte e ambivalente tra due nazionalità, quella italiana e quella israeliana.

È da me che parto anche quando affermo che una mera identità ebraica a me connessa, può stimolare un orizzonte più ampio di azione e reazione, una risposta o una non risposta alla frase su Spinoza del mio collega.

È un modus operandi che proposta in questa maniera, è così peculiare da non essere riproducibile se non per casi simili ai miei, come coloro che sono figli di genitori provenienti da nazionalità diverse.

Il procedere però di un pensiero mobile, resta paradossalmente e in maniera anche inquietante, deduttivo…

Procede dalla generalità di quanto la mia visione concepisce del reale, del ciò che a me è esterno, del ciò che in generale si propone a una visione anche comune di sé, per muoversi verso il particolare, sia come contesto di un episodio biografico sia come pragmatismo di un momento.

Sia anche come modulatore della mia prospettiva filosofica.

Il pensiero mobile non concepisce un’etichettatura metodica meramente deduttiva o meramente induttiva, perché ha un’impostazione reattiva.

Tutta reattiva.

Piuttosto, potrebbe essere formulata a questo punto, chi è colui che ha e opera secondo un pensiero mobile?

A chi lui o lei appartiene essenzialmente?

A tutti o a nessuno?

Tento di rispondere allora citando il Giuliano, che riassume Spinoza come fautore dell’intelletto quale via alla beatitudine e Rosenzweig come fautore dell’amore quale via alla beatitudine.

Se non viene usato l’intelletto per amare se stessi, un sé ferito dal mondo, l’amore verso il mondo, siano personali, animali o cose, ecco, l’amore, non è possibile.

 

Casella di testo

Citazione:

Daniel de lucia, Il pensiero mobile: il metodo da Spinoza a Rosenzweig nell'opera di Giuliano, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VI, 2, dicembre 2017

url: http://www.freeebrei.com/anno-vi-numero-2-luglio-dicembre-2017/daniel-de-lucia-il-pensiero-mobile