Paolo Di Motoli, Francesco Pallante, Gerusalemme negli anni del mandato britannico

"Free Ebrei", V, 1, aprile 2016

Gerusalemme negli anni del mandato britannico 

di Paolo Di Motoli e Francesco Pallante

Abstract

The essay tries to assess the history of Jerusalem during the british Mandate on Palestine from a political and religious point of view. The main thesis is that one cannot understand the urban development of Jerusalem withouth taking into account the different ethnic and religious perspectives.

Introduzione

Tracciare le linee fondamentali della storia di Gerusalemme negli anni del mandato britannico può aiutare, da un lato, a comprendere le origini delle controversie che a tutt’oggi contrappongono israeliani e palestinesi e, dall’altro, a mettere in luce la centralità che il conflitto per il controllo della Città Santa assunse fin da allora.

I principali temi intorno ai quali verte l’odierna contesa sulla città trovano un antecedente nelle vicende della prima metà del secolo scorso: la questione identitaria, il problema dei Luoghi Santi, l’equilibrio etnico all’interno dei confini municipali, l’utilizzo a fini politici dell’urbanistica, il rapporto tra componenti laiche e religiose all’interno delle diverse comunità. Sono questi gli argomenti che verranno affrontati nelle pagine che seguono.

 

1. Il quadro storico

Nel corso della prima guerra mondiale le aspirazioni nazionali degli arabi e del movimento sionista vennero utilizzate dalle potenze occidentali per sostituirsi all’Impero ottomano nel dominio del Medio Oriente.

La Gran Bretagna fu abile nel giocare le sue carte su più tavoli: con il carteggio MacMahon-Hussein (1915-1916) promise l’indipendenza agli arabi, ottenendone il sostegno contro gli ottomani; con la dichiarazione Balfour (1917) si impegnò a favorire la causa sionista; con gli accordi Sykes-Picot (1916) pattuì con la Francia la futura spartizione del Medio Oriente, riservandosi, tra l’altro, il controllo della Palestina, salvo Gerusalemme e l’area circostante, da internazionalizzare[i].

Le operazioni belliche portarono alla conquista della Palestina da parte delle armate alleate, composte da forze britanniche e da reparti francesi, italiani, australiani, neozelandesi, indiani, algerini, armeni, ebrei e arabi. L’11 dicembre 1917 il generale Allenby, comandante delle truppe alleate, entrò a Gerusalemme, accompagnato dal colonnello de Piépape del distaccamento francese e dal colonnello Dagostino del distaccamento italiano. Tutti i territori in precedenza controllati dall’Impero ottomano vennero occupati dagli inglesi e dai loro alleati arabi[ii]. Pochi anni dopo, il 24 luglio 1922, la Società delle Nazioni attribuì a Londra il mandato sulla Palestina.

Il mandato assicurava agli inglesi i più ampi poteri, ma imponeva l’obbligo di applicare la dichiarazione Balfour, dando così riconoscimento a livello internazionale alle aspirazioni del movimento sionista.

 

2. I primi anni del mandato britannico

La separazione della Palestina dalla confinante Transgiordania, sancita dal mandato, assicurò un nuovo ruolo a Gerusalemme, che si emancipò dall’influenza di Damasco e della Grande Siria diventando, per la prima volta nella sua storia moderna, il centro urbano di riferimento dell’intera Palestina[iii]. Il colonnello britannico Ronald Storrs fu il primo governatore militare della città, carica che mantenne fino al 1926.

Gli inglesi ereditarono una situazione complicata dalle dispute politiche e religiose. Consapevole delle difficoltà che ne sarebbero potute derivare, nel discorso pronunciato subito dopo l’ingresso in città, il generale Allenby promise di rispettare e proteggere gli interessi di tutte le religioni, secondo il principio dello status quo (già utilizzato dagli ottomani, anche se con riferimento ai soli Luoghi Santi cristiani). Gli inglesi ufficializzarono questa decisione nel 1923, quando il governo mandatario comunicò alla Società delle Nazioni di aver «assunto la responsabilità sui Luoghi Santi … come successore del governo turco». Archer Cust, un funzionario governativo, venne incaricato di stabilire l’esatto contenuto dello status quo, ricostruendo per ciascuno dei siti interessati i costumi e gli usi prevalenti. La codificazione lasciò, però, tutti insoddisfatti, scatenando, soprattutto fra i cristiani, una ridda di nuove contestazioni: era sufficiente lo spostamento di un tappeto perché greci, armeni, cattolici, copti, siriani ed etiopi reclamassero l’immediato intervento delle autorità britanniche[iv]. Particolarmente duro fu il confronto che oppose il patriarca cattolico, l’italiano Luigi Barlassina, al governatore Storrs. Barlassina lamentava la preferenza a suo avviso accordata dagli inglesi agli ortodossi, e non perdeva occasione per anteporre nel cerimoniale liturgico il console francese al governatore britannico. Storrs si recò a Roma per cercare di risolvere la questione direttamente con il Papa, ma senza ottenere alcuna concessione. Il pontefice, anzi, accusò gli inglesi di aver profanato la Città Santa, consentendo l’apertura di alcuni cinema e tollerando la presenza di prostitute, e riconfermò Barlassina alla guida del patriarcato (ove rimase fino alla sua morte, avvenuta nel 1947)[v].

Sul piano politico la situazione era ancora più incandescente. A partire dal giugno del 1920, l’amministrazione militare sulla Palestina venne rimpiazzata da un’amministrazione civile guidata, nel ruolo di alto commissario, da sir Herbert Samuel, un ebreo britannico che era stato fra gli ispiratori della dichiarazione Balfour[vi]. Poco prima del passaggio di consegne, il governo militare nominò sindaco di Gerusalemme Musa Kazim al-Husayni, un notabile arabo che, per assurgere alla carica, si impegnò a non sostenere rivendicazioni nazionaliste da parte dei palestinesi. Nonostante le promesse, fin da subito Musa Kazim assicurò il suo attivo sostegno alla politica dei nazionalisti, schierandosi in prima persona nelle manifestazioni contro l’amministrazione britannica e il movimento sionista. Così avvenne anche nella primavera del 1920 in occasione della festa di Nabi Musa, una festività musulmana dedicata al profeta Mosè, che quell’anno cadde in un periodo di crescenti tensioni. Sottovalutando il pericolo, le autorità britanniche non presero misure idonee a prevenire gli scontri, mentre gli ebrei, consapevoli della situazione, si prepararono costituendo una forza di difesa (haganà, in ebraico) per proteggere i quartieri ebraici di Gerusalemme. L’organizzazione venne affidata a Vladimir Jabotinsky, che, reclutate alcune centinaia di uomini, li fece sfilare per le strade di Gerusalemme fino al quartier generale britannico, suscitando l’ira dei nazionalisti arabi. L’arrivo di migliaia di pellegrini musulmani di Hebron fece montare ulteriormente la tensione: il sindaco Musa Kazim al-Husayni marciò alla testa di un corteo antisionista, pronunziando un infuocato discorso dalla balconata di un hotel, mentre il suo giovane parente Hajj Amin al-Husayni esibiva un ritratto dell’emiro Feysal gridando: «questo è il vostro Re!». Gli scontri esplosero subito dopo la fine del discorso e durarono tre giorni, coinvolgendo il quartiere ebraico della Città Vecchia e i quartieri ebraici della zona nuova. Il bilancio ammontò a 5 morti e 200 feriti nel campo ebraico e a 4 morti e 25 feriti in quello arabo[vii].

La reazione inglese fu immediata: Storrs rimosse il sindaco dall’incarico, nominando al suo posto l’esponente principale di un’altra delle famiglie arabe più influenti di Gerusalemme, Raghib Bey Nashashibi. I britannici colpirono anche il capo nazionalista Hajj Amin al-Husayni, nel frattempo rifugiatosi in Siria, condannandolo in contumacia a dieci anni di prigione. L’anno seguente, tuttavia, Hajj Amin venne amnistiato e gli fu consentito di tornare a Gerusalemme in seguito al raggiungimento di un accordo con l’alto commissario Herbert Samuel: in cambio dell’impegno a non provocare più disordini nelle celebrazioni di Nabi Musa, Hajj Amin ottenne dall’amministrazione mandataria l’appoggio che gli consentì di imporsi nella contesa per succedere al fratello Kamil Bey al-Husayni, da poco deceduto, nella carica di muftì di Gerusalemme[viii]. Con l’avvento del mandato britannico, la carica di muftì aveva assunto una nuova importanza: la fine dell’Impero ottomano aveva slegato i musulmani di Palestina dalle istituzioni religiose centrali dipendenti dal Sultano di Istanbul. Per riempire tale vuoto, gli inglesi favorirono la nascita di nuove autorità religiose, in particolare rafforzando il ruolo del muftì di Gerusalemme, la cui influenza religiosa si estese progressivamente all’intera Palestina britannica[ix].

Nei primi tempi del suo incarico il nuovo muftì si mosse con prudenza e nel 1921 riuscì a ottenere anche il posto di presidente del Consiglio supremo musulmano. Questa nuova carica assicurò a Hajj Amin al-Husayni il pieno controllo del sistema del Waqf, l’istituzione preposta al governo dei Luoghi Santi islamici, nonché la supervisione su tutti gli enti religiosi musulmani in Palestina (scuole, tribunali islamici, orfanotrofi, ospedali, giornali, biblioteche, …), così concentrando nelle sue mani un considerevole potere.

 

3. La prima fase dell’urbanizzazione britannica[x]

Quando gli inglesi conquistarono Gerusalemme, la città era allo stremo, segnata da tre anni di guerra e da 20.000 morti di fame e malattie. La Città Vecchia era in decadenza, i quartieri fuori le mura isolati e carenti di infrastrutture moderne; non esistevano telefoni né automobili; la popolazione era scesa a 53.000 abitanti (31.000 ebrei, 12.000 cristiani e 10.000 musulmani). Inizialmente i britannici si posero due obiettivi: valorizzare l’importanza spirituale della Città Vecchia e rilanciare l’economia per migliorare le condizioni di vita della popolazione, in particolare tramite il ripristino del sistema stradale, l’estensione della rete ferroviaria, la costruzione degli impianti elettrici, la progettazione di una rete idrica capace di assicurare un approvvigionamento regolare alla città, l’apertura di ospedali militari per la popolazione civile.

Gli inglesi mostrarono un’attenzione particolare per la città, favorendone la crescita demografica. Durante il mandato la popolazione triplicò, raggiungendo i 165.000 abitanti, e lo sviluppo urbano investì tutti i tipi di edilizia: residenziale, commerciale, alberghiera, per uffici, religiosa. Tra il 1918 e il 1944 vennero messi in atto ben sei piani urbanistici, che costituiscono il fondamento della Gerusalemme contemporanea. Fin dal 1917, Allenby dichiarò prioritaria la preservazione dei Luoghi Santi alle tre religioni. L’anno seguente il governatore Storrs fondò la Pro-Jerusalem Society, che riuniva ufficiali britannici ed esponenti delle tre comunità religiose con la finalità di proteggere e restaurare la Città Vecchia. Vennero inoltre emanate due ordinanze per proibire ogni nuova costruzione in un raggio di 2.500 metri dalla Porta di Damasco e bandire l’uso di latta e intonaco nelle costruzioni, decretando di fatto l’obbligo dell’uso della pietra nel rivestimento delle facciate degli edifici. Questa attenzione per i quartieri storici rappresenta il principio cui vennero ispirati tutti gli interventi successivi: separare la Città Vecchia dalla parte moderna della città[xi].

Il primo piano urbanistico, elaborato nel 1918 da William Mac Lean, suddivise la città in quattro zone: (1) la Città Vecchia, in cui per costruire era necessaria un’autorizzazione speciale; (2) la zona intorno alle mura, che formava un anello protettivo di 300 metri a ovest e 3.000 a est (comprendente il monte degli Ulivi, il monte Scopus e la valle del Cedron), in cui le nuove costruzioni erano proibite e gli immobili che ostacolavano la vista sulle mura destinati alla demolizione; (3) le zone a nord, a nord-est e a ovest della Città Vecchia e le zone a est, dove le costruzioni erano autorizzate nel quadro di una regolamentazione molto restrittiva; (4) l’area da nord-ovest a sud-ovest, comprendente la parte moderna della città e le zone destinate allo sviluppo edilizio. Il piano indicava le linee generali della rete stradale e individuava la collocazione degli spazi da lasciare liberi: il risultato sarebbe stata un’area urbana compatta, attorniata da una serie di spazi verdi, con al centro la parte storica. Nessuna costruzione doveva interferire con la linea d’orizzonte del monte degli Ulivi, l’altezza degli immobili non doveva superare gli undici metri, i tetti dovevano essere in pietra e a forma di cupola, l’impiego di gesso e metallo, come già detto, era proibito: tali divieti si sono protratti fino ai giorni nostri. Inoltre venne introdotta la proibizione di insediare in città officine e industria pesante. L’obiettivo del progetto era di sviluppare la città soprattutto a ovest, più moderatamente a nord e a sud, e di rallentare l’espansione a est, tenuto conto delle difficoltà topografiche specifiche del luogo.

L’anno seguente, nel 1919, l’urbanista Patrick Geddes, su invito dalla Pro-Jerusalem Society, preparò un nuovo piano basato su un impianto stradale più flessibile, i cui assi principali assecondassero ai rilievi su cui si sviluppava la città. Il piano, successivo all’ampliamento dei confini amministrativi della città ai quartieri costruiti fuori le mura dopo il 1860, prevedeva un sistema di circonvallazioni che collegasse tali quartieri tra di loro; in tal modo si voleva favorire lo sviluppo di nuove zone a ovest, sud-ovest e nord-ovest della Città Vecchia, destinate ad accogliere gli immigrati ebrei che in quegli anni affluivano a Gerusalemme. Si decise inoltre la collocazione dell’Università ebraica sul Monte Scopus. Con una nuova ordinanza venne, poi, organizzato più razionalmente lo spazio ove era possibile costruire nuovi edifici, privilegiando in particolare l’edificazione sulle colline della nuova Gerusalemme, alla ricerca di un equilibrio con la Città Vecchia e i quartieri costruiti prima della guerra. Il risultato fu il passaggio da una situazione di urbanizzazione disordinata e spontanea alla realizzazione di un tessuto urbano organizzato attorno ad alcuni poli chiaramente definiti.

Un nuovo piano decennale, elaborato da Charles Robert Ashbee e Patrick Geddes nel 1922, completò i progetti precedenti  con l’individuazione di quattro aree principali: la Città Vecchia, gli spazi aperti e verdi delle vallate, i quartieri residenziali, le aree industriali vicino ai grandi assi di trasporto. Le norme sulle nuove costruzioni e i vincoli per il rispetto della linea dell’orizzonte rimasero gli stessi. L’originalità di questo nuovo piano fu quella di prevedere la concentrazione degli edifici pubblici in grandi aree centrali e in altre zone più piccole diffuse nei vari quartieri. Tre siti per insediarvi industrie leggere vennero individuati vicino alla stazione, a Beit Safafa e nel quartiere di Schneller. Per la città nuova il piano prevedeva la realizzazione di città giardino, molto di moda nell’urbanismo inglese di quegli anni; non era invece prevista la destinazione di zone specifiche alle esigenze commerciali[xii].

 

 

4. Scontri per i Luoghi Santi

Nel 1927 si tennero a Gerusalemme le prime elezioni municipali dall’inizio del mandato britannico. Le consultazioni furono connotate dallo scontro tra il sindaco uscente, Raghib Bey Nashashibi, e il muftì, che gli rimproverava di aver accettato l’investitura offertagli dai britannici dopo la deposizione di Musa Kazim al-Husayni in seguito agli incidenti di Nabi Musa. Nashashibi aveva gestito la città in maniera poco efficiente, ma venne confermato sindaco grazie all’appoggio della comunità ebraica, alla quale promise, senza poi mantenere, il riconoscimento dell’ebraico come lingua ufficiale nella gestione degli affari municipali, una tassazione uguale a quella degli arabi e il riconoscimento del diritto all’assunzione negli uffici pubblici[xiii]. Benché gli ebrei fossero in maggioranza, la parte più grande del corpo elettorale era araba, dal momento che una quota consistente della popolazione ebraica aveva conservato la propria nazionalità di origine[xiv].

Nel 1929 scoppiarono a Gerusalemme nuovi sanguinosi scontri, molto più gravi di quelli del 1920, tanto che le violenze si allargarono a macchia d’olio coinvolgendo tutta la Palestina. Il muro del Pianto fu la causa, o il pretesto, di questo nuovo confronto, in cui la passione religiosa andò a intrecciarsi al nazionalismo[xv]: la contesa si accese il 23 settembre del 1928, quando il rabbinato decise di far erigere un paravento nel piccolo corridoio antistante al muro per dividere gli uomini dalle donne in occasione dello Yom Kippur. Il Waqf denunciò la violazione dello status quo e la polizia britannica intervenne per rimuovere il divisorio, interrompendo la preghiera ebraica. I rabbini accusarono allora la polizia di aver profanato i luoghi più sacri della religione ebraica nel giorno più sacro, e anche i laici, per i quali il muro costituiva un simbolo nazionale, reclamarono con veemenza il Kotel per il popolo di Israele. L’organismo rappresentativo degli ebrei di Palestina, il Vaad Leumi, chiese alle autorità britanniche di espropriare il muro e di affidarlo gli ebrei. In risposta, nell’inverno del 1928-1929 il muftì di Gerusalemme, Hajj Amin al-Husayni, si fece promotore di una campagna internazionale per la difesa dell’al-Boraq e dei Luoghi Santi dell’islam e il Consiglio supremo musulmano prese una serie di provvedimenti per ostacolare il culto ebraico. Ciò esasperò la popolazione ebraica e, nell’agosto 1929, mentre il movimento sionista affermava che le proprie rivendicazioni si limitavano al muro occidentale, il giornale ultranazionalista Doar Ha Yom reclamò la ricostruzione del Tempio ebraico al posto delle moschee islamiche. Le tensioni raggiunsero il culmine verso la metà di agosto, quando una settimana di violenza causò la morte di 133 ebrei e di 116 arabi, oltre a centinaia di feriti.

In seguito agli scontri gli inglesi insediarono una commissione d’inchiesta, guidata da Sir Walter Shaw, che adottò il seguente verdetto conclusivo:

«Ai Musulmani appartiene la proprietà ed il diritto esclusivo sul muro occidentale, facendo esso parte integrante dell’area dell’Haram al-Sharif

Ai Musulmani ugualmente appartiene la proprietà della pavimentazione davanti al muro ed il cosiddetto quarto del Maghrebi adiacente al muro…

Come luoghi di culto e/o altri oggetti appartenenti al culto ebraico possono essere considerati altri luoghi in prossimità del muro…

Gli ebrei dovranno avere libero accesso al muro occidentale per scopo di devozione in ogni momento…»[xvi].

Come in tutti i casi successivi (la pratica di nominare commissioni incaricate di indagare le cause dell’esplosione delle violenze dura a tutt’oggi) il verdetto della commissione non servì a dissuadere i contendenti dalle loro intenzioni.

 

5. La seconda fase dell’urbanizzazione britannica[xvii]

Nel 1930 fu approvato un nuovo piano urbanistico (Planning Jerusalem) destinato a controllare la rapida crescita della città causata dall’aumento dell’immigrazione: alla fine degli anni ‘20, la nuova Gerusalemme era oramai sedici volte più grande della Città Vecchia. Il piano manteneva le restrizioni alle costruzioni introdotte dai programmi precedenti, con le rilevanti eccezioni del limite all’altezza massima delle costruzioni e della riduzione a 25-50 metri della cintura verde attorno la città in cui era vietato costruire. Il piano fissava per la prima volta dei limiti alla densità di occupazione del suolo: la superficie delle nuove costruzioni non doveva essere superiore, a seconda dei casi, ai 600 o ai 1.000 metri quadrati, e venne anche stabilito il coefficiente di occupazione per lotti di terreno. Era inoltre previsto un nuovo schema stradale basato su assi viari maggiori a servizio dei poli urbani principali e assi secondari di collegamento tra i diversi quartieri.

Nel 1931 vennero ridisegnati i confini municipali, che passarono da 17 a 44 chilometri quadrati[xviii]. Gli inglesi furono i primi a capire il rapporto intercorrente tra i confini cittadini e il conflitto politico: allargando il territorio municipale si potevano, infatti, alterare i rapporti demografici tra le diverse comunità. Per questa ragione gli arabi chiedevano l’allargamento, in modo da includere in Gerusalemme i villaggi circostanti popolati da loro connazionali; gli ebrei, invece, volevano mantenere i confini esistenti per evitare di perdere la maggioranza della popolazione cittadina.

Clifford Holliday modificò parzialmente nel 1934 il piano del 1930, pur conservandone le linee generali. Lo spazio aperto attorno alla Città Vecchia venne dichiarato riserva naturale e non più semplicemente cintura verde. Il nuovo intervento preconizzava un’urbanizzazione che rispettasse le curve del terreno in modo da non distruggere la specificità del paesaggio gerosolimitano. Colmando una mancanza nei piani precedenti, si stabilì inoltre di collocare una zona commerciale lungo la strada per Jaffa.

L’espansione urbana rese, però, molto presto datato il lavoro di Holliday e, nel 1944, Henry Kendall preparò un nuovo progetto, rimasto importante perché segnò il passaggio verso l’urbanizzazione della regione di Gerusalemme al di là dei confini municipali della città. Mentre i piani precedenti mettevano soprattutto l’accento sulla Città Vecchia e i suoi dintorni, il piano Kendall spostò l’attenzione sui quartieri residenziali, lo sviluppo della nuova Gerusalemme e lo schema generale degli assi di trasporto. L’obiettivo era di trasformare Gerusalemme in una capitale amministrativa, politica e scientifica, limitando l’importanza dell’industrializzazione. Kendall sosteneva di volere dare il senso fisico della città come punto di incontro di tre popoli: l’ebraico, l’arabo e il britannico. La città doveva diventare il crocevia nazionale di trasporti, approfittando della sua posizione posta all’intersezione dei due assi nord-sud (Ramallah-Hebron) e ovest-est (Haifa-Jerico). A tal fine era prevista la costruzione di quattro autostrade (verso Tel Aviv, verso Hebron, verso la Galilea e verso Gerico), tutte connesse alla circonvallazione periferica che avrebbe dovuto correre attorno alla città. Erano, poi, previste sei categorie di quartieri residenziali, ciascuna delle quali doveva rispettare le stesse regole di densità di costruzione e di occupazione del suolo. I quartieri ebraici dovevano essere più numerosi a ovest, quelli arabi a sud e a est. Ogni quartiere era progettato come un blocco unitario dal punto di vista etnico e religioso, in modo da realizzare una sorta di alternanza tra zone ebraiche e zone arabe. Questa relativa omogeneizzazione etnica non poté però essere realizzata a causa delle tensioni tra le due comunità e ciò provocò il fallimento dell’unico progetto urbanistico britannico che non fosse improntato alla separazione. Il piano si proponeva, inoltre, di preservare l’estetica complessiva della città, con lo scopo principale di lasciare ben visibile la linea dell’orizzonte cittadino. Oltre al vincolo di costruire in pietra di Gerusalemme, fu proibito l’uso del cemento; fu nuovamente fissata l’altezza massima degli immobili (a quindici metri); vennero regolati il numero e la forma dei balconi e delle terrazze; fu previsto l’interramento delle tubature per l’acqua. Al di là della sua mancata applicazione, l’importanza del piano elaborato da Henry Kendall è dimostrata dall’essere stato successivamente preso a riferimento per i futuri programmi urbanistici elaborati dagli israeliani dopo il 1967.

Tutti e sei i piani britannici si basarono, in definitiva, sugli stessi principi: preservazione del paesaggio urbano, valorizzazione della linea dell’orizzonte, regolamentazione architettonica, salvaguardia della Città Vecchia, creazione di spazi aperti. Il risultato è stato la creazione di una metropoli moderna, basata sull’equilibrio tra la Città Vecchia, i quartieri sorti fuori dalle mura e le zone nuove poste a delimitare il territorio metropolitano.

 

6. La nuova Gerusalemme

A parte gli interventi conservativi realizzati nelle zone storiche della città, a far cambiare aspetto a Gerusalemme furono le costruzioni realizzate nella zona nuova.

Nel perimetro delimitato da via Jaffa, viale re Giorgio V e via Ben Yehuda, vennero edificati uffici, banche, cinema, negozi, ristoranti e caffé, trasformando questa zona nel principale quartiere commerciale della città (rimase tale fino agli inizi degli anni Novanta). Gli interventi edili, realizzati da investitori pubblici e privati tra il 1926 e il 1937, produssero come risultato la modifica del profilo urbano di Gerusalemme e lo spostamento del centro della città verso sud. I britannici autorizzarono la costruzione di immobili alti otto piani, dall’aspetto che mescolava le concezioni architettoniche locali, lo stile internazionale (caratterizzato da asimmetria, funzionalismo, facciate disadorne e uso di materiali moderni come cemento, vetro e metallo) e la più decorativa Art Decò. In alcuni casi venne utilizzato anche lo stile moderno, connotato dall’aspirazione a fondere assieme gli elementi decorativi tipici di vari periodi: l’edificio delle Assicurazioni Generali, costruito dall’architetto italiano Marcello Piacentini, è caratterizzato da linee orizzontali, tipiche degli anni ‘30, che contrastano con la facciata, rivestita di pietre, che richiama l’architettura mamelucca. Un altro esempio significativo di questo stile architettonico è la costruzione della Anglo Palestinian Bank. Per la prima vennero realizzati edifici uniti l’uno all’altro in una facciata ininterrotta su ambedue i lati di una strada, realizzando quell’«effetto corridoio», caratteristico degli anni del mandato, che conferì al centro cittadino un carattere europeo. Gli architetti che contribuirono a dare a Gerusalemme il suo nuovo aspetto furono soprattutto Eric Mendelsohn, Richard Kaufmann, Clifford Holliday e gli arabi cristiani Spyro Houris e Daoud T’lil[xix].

Un’area dedicata alle istituzioni pubbliche fu individuata alla periferia ovest della zona urbana, e venne realizzata tra il 1928 e il 1936. Gli inglesi costruirono, in particolare, il palazzo del governo, residenza dell’alto commissario, dallo stile che mescolava elementi orientali, locali ed europei, la chiesa di Sant’Andrea e l’ufficio postale centrale.

Tra le istituzioni culturali si segnalano l’università ebraica, edificata sul monte Scopus nel 1925, il museo Rockfeller e il museo archeologico della Palestina.

Per quanto riguarda le istituzioni assistenziali, nel 1927 venne costruito il Grande orfanotrofio Diskin della Palestina, mentre tra il 1930 e il 1938, sempre sul monte Scopus, sorse l’ospedale Hadassah, il più moderno della città e dell’intero Medio Oriente. L’architettura dell’ospedale, realizzato da Mendelsohn, giocava sul contrasto tra il carattere geometrico ad angoli retti del complesso e le tre cupole poste all’ingresso, che richiamano lo stile del vicino villaggio arabo di Issawiyeh: Mendelsohn riteneva sbagliato imitare la tradizione edilizia araba, ma anche creare uno scenario europeo in opposizione a essa[xx].

Quanto agli edifici turisticinel 1929 aprì, su iniziativa del Consiglio Supremo musulmano, il lussuoso Palace Hotel, situato proprio di fronte alle mura della Città Vecchia (successivamente venne trasformato in edificio di uffici per il governo mandatario). Il complesso alberghiero più famoso del Medio Oriente divenne però l’hotel King David, inaugurato nel 1931, dalle cui terrazze si godeva di una insuperabile vista sulla Città Vecchia.

Di fronte al King David, l’architetto Arthur Louis Harmon, il progettista dell’Empire State Building di New York, costruì l’imponente insieme dell’YMCA (Young Men’s Christian Association), decorato con interventi che mescolavano abilmente ispirazioni bizantine, romane e musulmane; il complesso era sormontato da una torre, il più alto edificio della città, che divenne in breve uno degli elementi caratteristici del paesaggio gerosolimitano[xxi].

Riguardo, invece, agli edifici di abitazione civile, gli anni ‘20 e ‘30 furono caratterizzati dall’edificazione di ville e immobili d’appartamento, forse l’innovazione maggiore nel panorama urbanistico gerosolimitano. Contrariamente al periodo precedente, in cui vennero costruiti solo quartieri ebraici, in questi anni sorsero anche nuove zone arabe. L’edilizia ebraica si sviluppò intorno alla realizzazione di città giardino e unità di vicinato, cioè blocchi di immobili architettonicamente e demograficamente compatti. La prima città giardino ebraica fu Beit ha-Kerem, creata nel 1922 in una zona isolata alla periferia ovest della città. L’insediamento era strutturato su un piano geometrico, basato su una via centrale pedonale e alcune strade parallele, connesse da arterie più piccole, lungo le quali si affacciavano ville con giardino, case individuali e  piccoli immobili collettivi, calati in un vasto spazio verde; l’idea era di proporre un nuovo stile di vita, contrapposto a quello dettato dalla sovrappopolazione dei primi quartieri ebraici. Questa nuova forma di colonia urbana fece da modello per le altre cinque città giardino: Talpiyot (1922), Mekor Hayim (1924), Rehavia (1924-1929)[xxii], Kiryat Moshè (1925) e Bayit ve Gan (1928). Altro tipico modello di edilizia civile ebraica furono i nuovi quartieri di Romema (1921), Geula (1924), Mekor Baruch (1926), Yefé Nof (1929), Neve Shaanan (1929) e Arnona (1931), caratterizzati da edifici di tre e quattro piani che ricordavano lo stile architettonico del centro città. Anche i nuovi quartieri arabi ripresero il modello delle città giardino e delle unità di vicinato. Le quattro città giardino di Talbieh, Katamon, Abu Tor e Baka sono connotate dalla realizzazione di lussuose ville con splendidi giardini, che spesso venivano poi affittate dai ricchi proprietari arabi a diplomatici, funzionari e amministratori britannici. Le altre zone di insediamento popolare arabo furono i quartieri di Mamila e Sheikh Jarrah (1925), caratterizzati dall’assenza di edifici pubblici.

Alla fine del periodo mandatario, Gerusalemme presentava un nuovo volto: lo spazio urbano si era progressivamente strutturato attorno a una molteplicità di quartieri, conservanti ciascuno le sue specificità etniche, religiose e socio-professionali. La pianificazione britannica aveva fortemente caratterizzato la città, grazie alla conservazione del patrimonio culturale della Città Vecchia, ai miglioramenti realizzati nelle zone urbane e alla creazione di nuovi spazi verdi.

7. La rivolta araba

Nel 1934 gli inglesi cambiarono la legge sulle municipalità, sostituendo la normativa ottomana. La nuova legge introdusse un sistema elettorale basato su dodici circoscrizioni, sei assegnate agli ebrei, quattro ai musulmani e due ai cristiani, in ognuna delle quali veniva eletto un membro del consiglio municipale. Gli ebrei, in quanto maggioranza, rivendicarono la carica di sindaco, ma le autorità inglesi respinsero tale richiesta. Venne, però, stabilito che il sindaco musulmano dovesse prestare particolare attenzione alle opinioni del capogruppo ebraico quando venivano trattate questioni riguardanti gli ebrei e la stessa procedura venne, successivamente, introdotta per la comunità cristiana.

Il sindaco nominato dalle autorità britanniche nel 1934 fu Hussein Fakhri al-Khalidi, che sconfisse il contestato Raghib Bey Nashashibi nella sua circoscrizione elettorale grazie all’appoggio degli Husayni[xxiii] e degli ebrei, che credettero alle sue promesse di un governo votato alla correttezza e all’equilibrio. Anche questo sindaco, però, tenne una condotta nazionalista, forte anche del fatto che la maggior parte dei funzionari della municipalità erano arabi. Il primo cittadino rifiutava di ascoltare il capogruppo ebraico Daniel Auster e spesso usava il suo doppio voto in consiglio per mettere in minoranza gli ebrei; questi reagirono disertando le riunioni del consiglio per non far raggiungere il quorum funzionale[xxiv].

Queste tensioni prepararono il terreno alle violenze che esplosero nel 1936, quando la popolazione araba di Palestina si rivoltò al dominio inglese. In tutti i grandi agglomerati urbani sorsero dei Comitati nazionali arabi e il 25 aprile rappresentanti delle varie fazioni istituirono a Gerusalemme un comitato direttivo di otto membri, l’Alto comitato arabo, presieduto dal muftì Hajj Amin al-Husayni e composto anche dal sindaco di Gerusalemme. L’Alto comitato proclamò uno sciopero generale illimitato reclamando il blocco dell’immigrazione ebraica, la fine delle vendite di terreni ai sionisti e la costituzione di un’assemblea legislativa eletta dal popolo[xxv].

Le forze inglesi furono inizialmente sopraffatte dalla rivolta e solo il 7 settembre del 1936, quasi cinque mesi dopo i primi scontri, venne proclamata la legge marziale. Nell’ottobre dello stesso anno, promettendo l’istituzione di una commissione reale per riesaminare completamente la questione palestinese, gli inglesi ottennero una sospensione della rivolta[xxvi]. Nel luglio del 1937 il governo britannico nominò la commissione reale, guidata da Lord William Robert Peel, le cui conclusioni invitavano alla spartizione della Palestina in uno Stato ebraico, in uno arabo e in un territorio, da mantenere sotto mandato britannico, comprendente Gerusalemme, Betlemme e un corridoio verso il mare fino a Jaffa, che tagliava in due parti il piccolo Stato ebraico. Come corollario della divisione venne proposto uno scambio di popolazione, che avrebbe coinvolto 225.000 arabi e 1.250 ebrei, per uniformare etnicamente i due Stati.

Il piano venne respinto dall’Alto comitato arabo, mentre la maggioranza sionista, esclusa la destra, pur non accettando l’esiguo Stato ebraico offerto dalla commissione Peel, accettò il principio della spartizione, chiedendo miglioramenti a proprio favore. In particolare, i sionisti proposero un piano per la spartizione di Gerusalemme basato su linee di divisione geografiche, etno-nazionali e funzional-religiose. Dal punto di vista geografico sostennero la separazione della parte est dalla parte ovest, con il monte Scopus, dove erano situati l’Università ebraica e l’ospedale Hadassah, da porre sotto sovranità israeliana. Dal punto di vista etnico la proposta fu di separare i due popoli, con gli ebrei che sarebbero diventati cittadini dello Stato ebraico anche se rimasti nella zona araba della città. Dal punto di vista funzionale e religioso fu richiesto di dare ai Luoghi Santi uno status internazionale. Tale proposta era indicativa del pensiero e delle priorità che guidarono i suoi formulatori: la fondazione dello Stato di Israele era per i sionisti più importante della sovranità sul territorio di Gerusalemme est; inoltre il controllo del monte Scopus era considerato più vitale della sovranità sul monte del Tempio[xxvii]. I palestinesi e gli inglesi rifiutarono, però, il piano di spartizione della città proposto dai sionisti e così la commissione Peel ribadì che Gerusalemme e Betlemme sarebbero rimaste sotto mandato britannico.

Il fallimento della commissione Peel portò alla ripresa della rivolta. Il 1° ottobre del 1937 la potenza mandataria dichiarò illegali l’Alto comitato arabo e i vari Comitati nazionali. Furono emessi ordini d’arresto nei confronti di tutti i membri dell’Alto comitato arabo e il muftì Hajj Amin al-Husayni, che riuscì a sfuggire all’arresto riparando in Libano via mare, venne destituito dalla presidenza del Comitato supremo musulmano[xxviii]. Circa duecento esponenti palestinesi furono incarcerati e una parte di loro, fra cui il sindaco Khalidi, venne esiliata alle isole Seychelles. Daniel Auster ricoprì temporaneamente la carica di presidente del consiglio municipale per poi essere rimpiazzato dal fratello dell’ex sindaco esiliato, l’anziano giudice Mustafa Bey al-Khalidi. L’arresto dei dirigenti nazionalisti lasciò la rivolta senza una guida. Con il passare del tempo gli inglesi ricorsero sempre di più alla forza, sospesero l’amministrazione civile e imposero un governo militare in tutto il paese[xxix].

Nonostante la repressione, nell’ottobre del 1938 gran parte della Palestina era sotto il controllo dei ribelli e il 17 dello stesso mese anche la Città Vecchia di Gerusalemme venne occupata. Fu l’ultimo successo arabo. Due giorni dopo il comandante del distretto militare di Gerusalemme ordinò la rioccupazione della Città Vecchia e i ribelli capitolarono[xxx]. La repressione iniziò a raggiungere i risultati sperati dagli inglesi nel 1939, agevolata anche dalle divisioni nel campo arabo. I Nashashibi, oramai in aperta contrapposizione con i rivali Husayni, si schierarono con la Gran Bretagna, in una lotta che diede origine quasi a una guerra civile strisciante tra i palestinesi.

Gli inglesi, nella speranza di placare gli animi, abbandonarono di fatto le ipotesi di spartizione della Palestina, anche se formalmente nel novembre del 1938 una nuova commissione, guidata da sir John Woodhead, si espresse ancora per la costituzione di uno Stato ebraico, ma notevolmente ridotto: la Galilea, una zona comprendente Gerusalemme, Betlemme e Jaffa con il deserto del Negev, avrebbero dovuto rimanere sotto il controllo britannico; lo Stato arabo sarebbe stato sei volte più grande di quello ebraico[xxxi]. Il piano Woodhead venne discusso alla Conferenza di St. James nel febbraio del 1939, ma gli arabi, rappresentati da cinque paesi e da delegati palestinesi seduti a un tavolo diverso da quello degli ebrei, rifiutarono anche questa ipotesi.

Il governo di Neville Chamberlain decise, allora, di agire unilateralmente. Nel maggio del 1939, con il libro bianco MacDonald, esplicitò il ripensamento britannico circa la spartizione, proponendo la creazione di un unico Stato arabo per il 1944. I cambiamenti previsti dal libro bianco furono, però, presto abbandonati per una complicata serie di ragioni, tra le quali le divisioni della comunità palestinese, l’efficace opposizione del movimento sionista, che riteneva il libro bianco un «tradimento», la ripulsa provocata dall’atteggiamento filo-nazista di molti musulmani, la posizione più favorevole al sionismo del nuovo primo ministro Winston Churchill.

 

8. La seconda guerra mondiale

La questione di Gerusalemme rimase sospesa fino all’ultima parte della seconda guerra mondiale. Nel settembre del 1943 l’alto commissario sir Harold MacMichael propose un altro schema di spartizione della Palestina, secondo il quale uno Stato di Gerusalemme (comprendente anche le città di Betlemme, Ramallah, Lidda e Ramleh) governato dalla Gran Bretagna avrebbe dovuto affiancarsi ai due Stati arabo ed ebraico. La popolazione dello Stato di Gerusalemme avrebbe dovuto contare circa 300.000 persone, di cui 90.000 ebrei, e gli abitanti non sarebbero stati cittadini né dello Stato arabo né di quello ebraico. Dal punto di vista istituzionale, il piano MacMichael prevedeva che Gerusalemme fosse governata da una diarchia: un governo di ventisei membri eletti dal popolo (di cui undici musulmani, otto ebrei e sette cristiani) si sarebbe occupato di alcune limitate questioni, mentre l’alto commissario britannico avrebbe mantenuto la responsabilità della gestione dei Luoghi Santi, della difesa e delle relazioni estere. Il governo britannico approvò la spartizione proposta da MacMichael nell’ottobre del 1944, precisando che lo Stato di Gerusalemme avrebbe dovuto essere autonomo, ma governato dai britannici o dalle Società delle Nazioni. Churchill vedeva questa soluzione di buon occhio, ma la concretizzazione del piano venne rinviata a causa della opposizione del ministero degli Esteri e della campagna terroristica lanciata dagli estremisti sionisti dell’Irgun e del Gruppo Stern (o Lehi) contro obbiettivi inglesi, culminata nel fallito attentato a MacMichael stesso dell’8 agosto 1944.

Intanto, nell’agosto del 1944, la municipalità di Gerusalemme precipitò in una grave crisi istituzionale, scatenata dalla morte del sindaco Mustafa Bey al-Khalidi. Come già era avvenuto nel 1937, il capogruppo ebraico Daniel Auster prese il suo posto, nell’attesa che venisse scelto il sostituto. Questa volta, però, i consiglieri arabi boicottarono i lavori del consiglio municipale, pretendendo l’immediata nomina di un nuovo sindaco arabo. Gli ebrei, dal canto loro, reclamarono un sindaco ebreo o, quanto meno, una rotazione tra musulmani, ebrei e cristiani. Tale proposta venne recepita nel marzo del 1945 dall’alto commissario britannico Viscount Gort, ma contro di essa gli arabi organizzarono uno sciopero generale. Il consiglio municipale rimase, così, paralizzato fino all’11 luglio del 1945, quando gli inglesi decisero di affidare temporaneamente l’amministrazione della città a una commissione composta da cinque ufficiali britannici. Contemporaneamente il giudice sir William Fitzgerald venne incaricato di condurre un’inchiesta sul futuro governo municipale della città, ma la comunità ebraica rifiutò di prestare la propria collaborazione. Le conclusioni di Fitzgerald evidenziarono l’impossibilità della cooperazione arabo-ebraica all’interno dello stesso consiglio municipale, e, per questo, il giudice propose di dividere la città in due sotto-municipalità, separate tra loro, ma unite nell’ambito di un più ampio consiglio amministrativo (sul modello di Londra)[xxxii]. Anche la proposta di Fitzgerald cadde però nel vuoto e, a partire dal dicembre 1945, il governo della città passò a una commissione composta da quattro ufficiali inglesi e due palestinesi, guidata da George Webster. Questi lasciò il posto, un anno dopo, a John Hilton, il quale venne a sua volta sostituito da Richard Graves nel giugno del 1947[xxxiii].

 

9. Gli ebrei in rivolta

La questione di Gerusalemme riesplose subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, a causa dei violenti scontri che contrapposero le organizzazioni paramilitari clandestine ebraiche (l’Haganà, l’Irgun e il Lehi) alle autorità mandatarie. Il governo britannico, tramite il ministro degli Esteri Ernest Bevin, dichiarò che Londra avrebbe risposto alla forza con la forza, ma la repressione inglese non sortì risultati efficaci. Sebbene la rivolta ebraica abbia causato meno vittime di quella araba del 1936, per gli inglesi fu molto più difficile mantenere il controllo della situazione: i gruppi paramilitari ebraici erano ben organizzati e coordinati tra loro, mentre gli inglesi, reduci dal conflitto mondiale, si erano molto indeboliti. Azioni di sabotaggio e attentati terroristici si verificarono in tutta la Palestina, Gerusalemme compresa[xxxiv].

Nell’aprile del 1946 gli inglesi tentarono di coinvolgere gli Stati Uniti nella ricerca di una soluzione per il problema palestinese. Una commissione, composta dal ministro britannico Herbert Morrison e dall’ex assistente segretario di Stato americano Henry Grady, propose la divisione della Palestina in due province autonome: a nord venne prevista la conversione del mandato in un’amministrazione fiduciaria dell’Onu; l’area di Gerusalemme e il deserto del Negev, a sud, sarebbero invece rimasti sotto il governo dell’alto commissario britannico. Il piano Morrison-Grady[xxxv] venne, però, bocciato dagli stessi americani a causa dei contrasti sorti in seno all’amministrazione Truman circa il mantenimento del controllo britannico su Gerusalemme[xxxvi].

Il 22 luglio 1946 l’Irgun realizzò proprio nella Città Santa la più clamorosa e controversa delle sue operazioni: l’attentato dinamitardo all’hotel King David, sede dell’amministrazione civile e militare britannica in Palestina. L’esplosione causò 91 morti, anche se l’attentato era stato programmato come attacco dimostrativo diretto a colpire il prestigio inglese, e non come azione volta a causare un numero così elevato di vittime. Il giorno seguente, l’Haganà emise una dichiarazione pubblica in cui denunciava la pesante perdita di vite umane causata dall’attentato e poneva fine all’unitarietà della guida della rivolta[xxxvii]. Gli inglesi reagirono imponendo un rigido coprifuoco sulla città. L’area centrale di Gerusalemme, dove si trovavano i più importanti uffici governativi, il quartier generale della polizia, l’ospedale pubblico e la prigione centrale, venne recintata col filo spinato e trasformata in un’inaccessibile zona di sicurezza. Ironicamente gli ebrei la battezzarono «Bevingrad» giocando con il nome dell’odiato ministro degli Esteri inglese.

I disordini, tuttavia, continuarono in un crescendo di violenze ebraiche e rappresaglie britanniche, tali da rendere impossibile il ristabilimento dell’ordine. Il 14 febbraio 1947 il governo di Londra annunciò la decisione di ritirarsi dalla Palestina, devolvendo alle Nazioni Unite il compito di trovare una soluzione al problema.

 

10. Il progetto di internazionalizzazione di Gerusalemme

Della questione venne investita l’Assemblea generale dell’Onu, che il 28 aprile del 1947 nominò il Comitato speciale delle Nazioni Unite per la Palestina (Unscop), composto da rappresentanti di nazioni ritenute neutrali e presieduta dal giurista svedese Emil Sandstrom.

In estate l’Unscop si recò a Gerusalemme e in altre zone della Palestina. L’Alto comitato arabo rifiutò di cooperare e la posizione degli arabi, determinati a costituire un loro Stato su tutta la Palestina con Gerusalemme capitale, venne espressa dai rappresentanti dei maggiori paesi dell’area. I cristiani chiesero l’internazionalizzazione di Gerusalemme per voce del custode francescano dei Luoghi Santi, dal momento che il Vaticano non volle pronunziarsi ufficialmente sulla questione[xxxviii]. Il punto di vista dell’Agenzia ebraica venne espresso da Ben Gurion, il quale preferì non esplicitare pienamente la posizione sionista, accennando vagamente a una divisione della città in un settore occidentale da incorporare nello Stato ebraico e in una parte orientale, inclusa la Città Vecchia, da internazionalizzare[xxxix].

Il 1° settembre l’Unscop consegnò all’Assemblea generale il proprio rapporto, nel quale veniva raccomandata all’unanimità la fine del mandato britannico. La maggioranza dei membri propose la divisione della Palestina in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo, con un’amministrazione fiduciaria internazionale per Gerusalemme e Betlemme. La minoranza dell’Unscop (composta da Jugoslavia, India e Iran) preferì, invece, designare Gerusalemme come capitale di uno Stato federale indipendente. L’Agenzia ebraica decise di accettare l’internazionalizzazione della città secondo il piano della maggioranza dell’Unscop, ma ponendo la condizione che vi fosse l’assenso anche da parte araba[xl]. Per gli arabi, invece, l’adesione alla proposta dell’Unscop sarebbe equivalsa alla rinuncia alle proprie aspirazioni nazionali e così rigettarono ogni ipotesi di spartizione[xli]. Il governo inglese, dal canto suo, prese segretamente la decisione di evacuare completamente la Palestina, incurante delle difficoltà che questa decisione avrebbe causato al trasferimento dei poteri previsto dal piano dell’Onu[xlii].

Il 29 novembre 1947 l’Assemblea generale si riunì per prendere una decisione. La votazione si concluse con l’approvazione del piano di spartizione della Palestina. La risoluzione così approvata, la numero 181, prevedeva la creazione di uno Stato ebraico sul 55% della Palestina con 558.000 abitanti ebrei e 405.000 arabi; di uno Stato arabo abitato da 804.000 arabi e da 10.000 ebrei; e di una zona a regime internazionale comprendente Gerusalemme, Betlemme e altri villaggi minori con una popolazione di 105.000 arabi (di cui 65.000 a Gerusalemme) e 100.000 ebrei (quasi tutti gerosolimitani)[xliii]. La parte terza della risoluzione n. 181 riguardava lo status di Gerusalemme. Il progetto prevedeva che la città venisse costituita come corpus separatum, sottoposto a un regime speciale internazionale e governato da un Consiglio di amministrazione fiduciaria in nome delle Nazioni Unite. Tale Consiglio avrebbe dovuto elaborare uno statuto per la città sulla base delle numerose disposizioni già fissate dalla risoluzione n. 181, con l’obiettivo di favorire la pace religiosa e la cooperazione tra le varie comunità. Un governatore, designato dal Consiglio di amministrazione fiduciaria per conto dell’Onu, sarebbe stato incaricato della gestione amministrativa, della conduzione delle relazioni internazionali e della tutela dei Luoghi Santi e degli edifici religiosi situati in ogni parte della Palestina. A garanzia dell’imparzialità della sua gestione era previsto che il governatore non potesse essere cittadino né dello Stato arabo né di quello ebraico, che la forza a sua disposizione fosse costituita da  una polizia internazionale e che fosse assistito da uno staff amministrativo composto in prevalenza da personale internazionale. Il solo organo eletto dagli abitanti della zona internazionalizzata sarebbe stato il Consiglio legislativo, dotato di poteri in materia legislativa e fiscale. Il governatore manteneva, però, il diritto di veto contro le decisioni eventualmente ritenute pericolose per la salvaguardia dei Luoghi Santi e la pacifica coesistenza tra le comunità. Lo statuto elaborato dal Consiglio di amministrazione fiduciaria avrebbe, inoltre, dovuto garantire la tutela dei diritti umani e il riconoscimento delle libertà civili, la salvaguardia dell’autonomia dei villaggi, un apparato giudiziario indipendente, la libertà di visita e di transito a Gerusalemme per i cittadini dello Stato ebraico e di quello arabo, il mantenimento dei diritti esistenti relativi ai Luoghi Santi. L’integrazione dell’area di Gerusalemme nella Palestina avrebbe dovuto essere agevolata da un’unione economica e dalla presenza di rappresentanze consolari dello Stato arabo e di quello ebraico. Infine, la sezione D della parte III della risoluzione, precisava che lo statuto elaborato dal Consiglio di amministrazione fiduciaria (che avrebbe dovuto entrare in vigore non più tardi del 1° ottobre 1948) sarebbe rimasto in vigore per un periodo di dieci anni, a meno che il Consiglio di amministrazione fiduciaria avesse reputato necessario riesaminare alcuni provvedimenti. Dopo questo periodo l’intero statuto sarebbe stato sottoposto a riesame dal Consiglio di amministrazione fiduciaria e, tramite referendum, anche gli abitanti di Gerusalemme avrebbero potuto esprimere la volontà di apportare modifiche al regime della città.

 

 

11. La guerra civile arabo-ebraica

Fu subito chiaro che la decisione delle Nazioni Unite non avrebbe trovato applicazione pacifica: nel corso delle due settimane che seguirono il voto sulla spartizione rimasero uccisi 93 arabi, 84 ebrei e 7 militari inglesi[xliv]. Gerusalemme si ritrovò in breve divisa in due, priva di comunicazioni tra la parte araba e quella ebraica: gli ebrei non potevano più raggiungere il palazzo di giustizia e la banca principale, situati nei quartieri nemici; gli arabi erano impossibilitati a recarsi negli uffici del governo, che si trovavano nel settore ebraico. L’ufficio postale, la centrale telefonica, l’ospedale governativo, il comando della polizia, la prigione e gli uffici della radio erano protetti con il filo spinato nell’area fortificata dai poliziotti britannici.

Ben presto gli arabi sferrarono i primi attacchi ai convogli ebraici che ogni giorno dalla costa salivano a Gerusalemme. All’altezza del villaggio arabo di Bab el Wad la strada si infilava in una stretta gola che costituiva il terreno ideale per tendere imboscate. L’unità d’élite dell’Haganà, il Palmach, allestì allora alcune autoblindo artigianali con le quali iniziò a scortare i convogli. In breve, il tratto tra Bab el Wad e Gerusalemme diventò un cimitero di carcasse di autocarri.

L’altra grande difficoltà per l’Haganà era la difesa del quartiere ebraico della Città Vecchia, completamente circondato dalle zone arabe. L’unico collegamento con la Gerusalemme ebraica era garantito dall’autobus della linea numero 2, che gli arabi potevano bloccare in ogni momento. I comandanti sionisti decisero di infiltrare clandestinamente nel quartiere alcune decine di uomini, nonostante le proteste degli abitanti, i quali temevano che la presenza di uomini armati sarebbe stata vista come una provocazione dai loro vicini. All’inizio del 1948 l’autobus della linea 2 venne soppresso, dopo che gli arabi avevano sbarrato la porta di Jaffa innalzando una grande barricata. Nonostante le pressioni dell’Agenzia ebraica gli inglesi rifiutarono di intervenire, ma si impegnarono a scortare un convoglio settimanale per portare rifornimenti agli ebrei rimasti assediati.

La strategia stabilita da Ben Gurion, a Gerusalemme come in tutta la Palestina, prevedeva che gli ebrei conservassero le postazioni che occupavano. Ciò nonostante, la popolazione ebraica della Città Santa iniziò ad abbandonare i quartieri misti dove era in minoranza. Per fermare l’esodo l’Haganà diede il via a una campagna di intimidazione volta a cacciare gli arabi da questi quartieri: ai manifesti di minaccia affissi sulle case seguirono gli spari e le esplosioni notturne e, infine, le demolizioni delle case con l’esplosivo. Gli arabi vennero, così, costretti a lasciare il quartiere di Romema e parte di quello di Katamon. Subito gli ebrei occuparono le case abbandonate dagli arabi[xlv].

In breve si passò agli attentati terroristici. Il 13 dicembre 1947 un commando dell’Irgun lanciò due bombe fra la folla araba alla porta di Damasco, uccidendo sei persone e ferendone una quarantina. Il 5 gennaio 1948 una bomba dell’Haganà distrusse i tre piani dell’hotel Semiramis, nel quartiere di Katamon. Trentasei persone, fra cui il console spagnolo, morirono nell’esplosione. Due giorni dopo un furgone dell’Irgun si fermò davanti alla porta di Jaffa: un bidone imbottito di tritolo e di pezzi di ferro arrugginiti venne fatto rotolare dalla porta posteriore tra la folla araba che aspettava l’autobus. Altri diciassette civili persero la vita.

La risposta araba non si fece attendere. Il 2 febbraio, su ordine del comandante delle milizie arabe, Abdel Khader al-Husayni, due disertori inglesi condussero un’autobomba fin nel cuore della città ebraica, sotto le finestre degli uffici del Palestine Post, il principale quotidiano in lingua ebraica di Gerusalemme. L’esplosione distrusse l’edificio, causando il ferimento di numerosi giornalisti. Il 21 dello stesso mese tre autocarri rubati all’esercito britannico e riempiti di esplosivo vennero fatti saltare dagli uomini del muftì nella via Ben Yehuda, una delle principali arterie del settore ebraico, causando cinquantaquattro morti fra la popolazione civile. La rabbia degli ebrei si scatenò contro i britannici, accusati di parteggiare per gli arabi: l’Irgun diede ordine di sparare a vista contro ogni inglese e nel giro di poche ore, dopo aver perso una dozzina di uomini, il comando britannico fu costretto a ritirare le proprie truppe dalla zona ebraica. L’8 marzo un altro autocarro sottratto agli inglesi esplose nel quartiere ebraico di Montefiore causando quindici morti. Tre giorni dopo una nuova esplosione provocò dodici vittime negli uffici dell’Agenzia ebraica di viale re Giorgio V[xlvi].

La strategia araba puntava al completo isolamento di Gerusalemme dal resto della Palestina. Per raggiungere questo obiettivo non era, però, sufficiente tagliare il collegamento tra la Città Santa e il mare. Un grande insediamento di kibbutzim, la colonia agricola di Kfar Etzion, sorgeva a sud lungo la strada per Hebron, impedendo alle forze di Abdel Khader di completare l’accerchiamento della città. Gli arabi decisero di attaccare la colonia, e il 27 marzo l’Haganà, perdette la maggior parte dei suoi mezzi militari in una dura battaglia combattuta nel tentativo di rifornire il kibbutz assediato[xlvii]; per i sionisti divenne così impossibile continuare ad assicurare l’afflusso dei rifornimenti necessari agli ebrei di Gerusalemme. Alla fine di marzo del 1948 la situazione alimentare nella parte ebraica della città divenne drammatica: il cibo cominciò a scarseggiare e anche l’approvvigionamento di acqua iniziò ad essere un problema. L’Agenzia ebraica decise il razionamento delle esigue scorte rimaste: raggiungere Gerusalemme divenne la priorità assoluta del movimento sionista. A questo punto, però, non bastava più la semplice riapertura della via di comunicazione, bisognava colpire gli arabi direttamente nei villaggi lungo la strada dai quali partivano per lanciare i loro attacchi. Si trattava di distruggere decine di centri abitati e questo compito fu affidato a un giovane ufficiale del Palmach, Yitzhak Rabin.

In pochi giorni l’operazione, battezzata Nashon, venne approntata. Il piano prevedeva la conquista preliminare del villaggio di al-Kastal, situato su una collina a cinque chilometri da Gerusalemme in posizione dominante sulla strada di accesso alla città. L’attacco, lanciato la notte del 2 aprile, colse di sorpresa la piccola guarnigione araba posta a difesa della postazione strategica, che venne rapidamente occupata. Già la mattina successiva ci fu la rabbiosa, ma disorganizzata, reazione araba: tre contrattacchi consecutivi vennero contenuti dagli uomini del Palmach, mentre le restanti forze sioniste occupavano i villaggi arabi che sorgevano lungo tutta la strada. Il 5 aprile anche la stretta di Bab el Wad era nelle mani degli ebrei, che subito ne approfittarono per rifornire con un grande convoglio i loro quartieri di Gerusalemme, isolati da quindici giorni. Appena venuto a sapere che i sionisti avevano rotto l’assedio, Abdel Kader al-Husayni decise di partecipare personalmente alla riconquista di al-Kastal, ma rimase ucciso mentre guidava l’attacco alla testa delle sue truppe. La notizia della scomparsa del loro comandante scatenò la furia degli arabi. Centinaia di uomini armati si gettarono nella mischia costringendo gli ebrei, numericamente sopraffatti, alla ritirata. Il corpo di Abdel Khader venne recuperato e trasportato a Gerusalemme, dove venne sepolto sulla spianata delle Moschee accanto alla tomba del padre Musa Kazim al-Husayni, già sindaco della città. Una folla di migliaia di persone prese parte al corteo funebre e anche gli uomini che avevano riconquistato al-Kastel fecero ritorno in massa a Gerusalemme per parteciparvi. La notte stessa il villaggio, rimasto semideserto, venne ripreso dalle unità del Palmach, che decisero di distruggerlo.

Data la gravità della situazione creatasi a Gerusalemme, l’Haganà aveva deciso di coinvolgere nell’operazione Nashon anche l’Irgun e il Lehi. Gli uomini della destra sionista ricevettero l’incarico di conquistare un altro centro abitato arabo, Deir Yassin, posto a metà strada tra Gerusalemme e al-Kastal. Il villaggio venne preso nella notte del 9 aprile 1948 quasi senza incontrare resistenza, ma gli assalitori si comportarono con efferatezza e alla fine si contarono oltre cento civili uccisi[xlviii]. Gli arabi vennero presi dal panico e dalla rabbia. Centinaia di contadini, terrorizzati dai racconti dei sopravvissuti di Deir Yassin, iniziarono ad abbandonare i loro villaggi che subito vennero occupati dall’Haganà. Anche molti arabi che ancora vivevano nei quartieri misti di Gerusalemme abbandonarono le loro case. Il 13 aprile, poi, arrivò la risposta militare. Un convoglio che trasportava medici e infermiere all’ospedale Hadassah sul monte Scopus, un’enclave in mezzo al settore arabo di Gerusalemme, cadde in un’imboscata e venne quasi interamente annientato. Quando gli inglesi si decisero a intervenire, quasi sei ore dopo l’inizio degli scontri, oltre settanta persone erano già state uccise[xlix].

12. La fine del mandato 

Nelle ultime settimane del mandato la posta in gioco a Gerusalemme divenne l’occupazione delle posizioni strategiche che gli inglesi si preparavano ad abbandonare. Questi ultimi, assecondando una tendenza già in atto da mesi, facilitarono la spartizione della città in due zone di influenza: agli arabi, oltre al settore orientale che già abitavano in larga maggioranza, vennero tacitamente lasciati i quartieri sud occidentali, mentre la parte nord occidentale passò sotto il controllo ebraico.

Entrambe le fazioni tentarono di conquistare nuove zone al loro controllo. Lo scontro interessò particolarmente la zona sud orientale, che gli inglesi avevano lasciato agli arabi. Si trattava di quartieri residenziali, abitati dalla buona borghesia araba, ma incuneati nella parte ebraica. Molti degli abitanti avevano potuto permettersi di fuggire dalla guerra imminente rifugiandosi presso amici e parenti, e questo facilitò i piani dell’Haganà. I pochi residenti rimasti subirono intimidazioni e attacchi armati, ma in alcuni casi ci furono anche accordi per lo scambio di case tra ebrei e arabi. In tal modo i cittadini di Gerusalemme vennero divisi in due blocchi nettamente separati, con una sorta di terra di nessuno nel mezzo. La vita normale in città divenne impossibile: i commerci si fermarono, gli uffici pubblici smisero di funzionare, nella zona ebraica il razionamento, che già colpiva il cibo da molte settimane, si estese ad acqua e combustibile. Il quartiere ebraico della Città Vecchia, non lontano dal muro del Pianto, rimase isolato, quasi interamente circondato dalle forze armate arabe che controllavano le porte di Jaffa, Damasco e Santo Stefano.

Il governatore britannico Graves prese atto della divisione. L’ex capogruppo ebraico nel consiglio municipale, Daniel Auster, venne informalmente riconosciuto sindaco della Gerusalemme ebraica per poter procedere alla divisione degli uffici e dei documenti dell’amministrazione. Anche il denaro rimasto nelle casse della municipalità fu ripartito tra arabi ed ebrei: un assegno di 30.000 sterline palestinesi venne elargito ad Auster che lo depositò presso la Anglopalestine Bank; uno di 27.500 venne, invece, fornito ad Anton Safieh per gli arabi. Quando Safieh ricevette il denaro, però, le banche erano chiuse ed egli decise di lasciare l’assegno nell’edificio della municipalità; la zona, tuttavia, venne subito coinvolta nei combattimenti e quando in giugno Safieh riuscì finalmente a ritornarvi l’assegno era svanito.

Le Nazioni Unite tentarono ripetutamente una mediazione per ottenere un cessate il fuoco, ma solo il 6 maggio, a una settimana dalla fine del mandato britannico, l’Assemblea generale dell’Onu riuscì finalmente a raggiungere un accordo accettato sia dagli arabi che dai sionisti. L’intesa era limitata a Gerusalemme e prevedeva l’istituzione di uno speciale commissario incaricato di esercitare la propria autorità solo all’interno dei confini municipali e non nell’area del corpus separatum prevista dal piano di spartizione del 1947. Il potere di nominare il commissario municipale venne attribuito all’alto commissario britannico, ma fu impossibile trovare qualcuno disposto ad accettare di ricoprire il difficile incarico[l].

Alle otto del mattino del 14 maggio, dopo una breve cerimonia, sir Alan Cunningham, l’ultimo alto commissario britannico in Palestina, lasciò la sua residenza a Gerusalemme. Tale era oramai la situazione sul terreno che per condurlo all’aeroporto venne utilizzata la limousine blindata appositamente costruita per proteggere re Giorgio VI durante i bombardamenti di Londra. La bandiera britannica venne sostituita con quella della Croce Rossa, ma, pochi giorni dopo, l’edificio che aveva rappresentato per quasi trent’anni l’impero britannico in Palestina venne occupato da un gruppo di beduini che vi si accampò con i suoi cammelli[li].

Note

[i] D. Fromkin, Una pace senza pace, Rizzoli, Milano 2002 e P. Maltese, Nazionalismo arabo e nazionalismo ebraico, Mursia, Milano 1992, pp. 70-75.

[ii] W.T. Massey, How Jerusalem Was Won: Being a Record of Allemby’s Campaign in Palestine, Constable and Company Ltd., London 1919, p. 33 e B. Wasserstein, Divided Jerusalem. The Struggle for the Holy City, Profile Books, London 2001, pp. 79-80.

[iii] B. Kimmerling e J.S. Migdal, I palestinesi. La genesi di un popolo, La nuova Italia, Firenze 2002, pp. 106-107.

[iv] A. Elon, Gerusalemme. Città di specchi, Rizzoli, Milano 1989, pp. 85 sgg.

[v] S. Minerbi, Il Vaticano, la Terra Santa e il sionismo, Bompiani, Milano 1988, pp. 35 sgg. e 142 sgg. e P. Pieraccini, Gerusalemme, Luoghi Santi e comunità religiose, Edb, Bologna 1996, pp. 230-231.

[vi] L’alto commissario era il capo dell’amministrazione britannica nei territori coloniali. In Palestina si succedettero sette alti commissari: dopo Herbert Samuel (1920-1925) vi furono Herbert Plumer (1925-1928), John Chancellor (1928-1931), Arthur Wauchope (1931-1938), Harold MacMichael (1938-1944), Viscount Gort (1944-1945) e Alan Cunningham (1945-1948).

[vii] M. Schattner, Histoire de la droite israelienne, Complexe, Bruxelles 1991, pp. 56 sgg., M. Benvenisti, City of Stone: The Hidden History of Jerusalem, University of California Press, Berkley 1996, p.119 e B. Wasserstein, op. cit., p. 104.

[viii] S. Fabei, Una vita per la Palestina, Mursia, Milano 2003, pp. 37 sgg.

[ix] B. Kimmerling e J.S. Migdal, op. cit., pp. 108-109.

[x] G. Biger, Urban Planning and Garden Suburbs of Jerusalem, 1918-1925, in Studies in zionism, vol. 7, n. 1, 1986, pp. 1-9.

[xi] D. Kroyanker, Gerusalemme: l’architettura, Arsenale editrice, Verona 1994, pp. 143-144.

[xii] V. Rivière-Tencer e A. Attal, Jérusalem. Destin d’une métropole, l’Harmattan, Paris 1997, pp. 178-180.

[xiii] M. Benvenisti, op. cit., p. 120.

[xiv] H. Laurens, Gerusalemme capitale della Palestina mandataria, in F. Mardam-Bey e E. Sanbar (a cura di), Gerusalemme: il sacro e il politico, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 189-190

[xv] Il muro, in ebraico Kotel Maaravi (muro occidentale), era il luogo dove gli ebrei si riunivano in preghiera per piangere la distruzione dell’antico Tempio di Gerusalemme eretto da Erode sul monte dove, secondo la tradizione ebraica, Abramo aveva sacrificato un agnello al posto del figlio Isacco. All’interno del Tempio, dove successivamente fu riposta l’Arca dell’Alleanza, poteva penetrare solo il grande sacerdote: era questo il luogo sacro in cui si manifestava la presenza del divino (in ebraico Shekina). Gli scritti rabbinici affermano che la Shekina non abbandonò mai questo luogo, neppure durante la distruzione del Tempio da parte delle legioni romane di Tito nel 70 d.C.. Molti secoli dopo, lo stesso monte su cui era sorto il Tempio ebraico venne scelto dagli arabi per costruirvi la Cupola della Roccia. Il santuario fu eretto vicino al punto da cui si ritiene che Maometto sia asceso al cielo nel suo viaggio notturno, quando, secondo la tradizione islamica, fu ammesso alla presenza di tutti i profeti per essere istruito sui doveri della preghiera. I musulmani usano chiamare il muro occidentale al-Boraq, dal nome del favoloso destriero che aveva trasportato Maometto da La Mecca a Gerusalemme in una notte.

Dalla fine delle crociate, l’area sacra, comprendente il monte (detto monte del Tempio dagli ebrei e Nobile santuario, o Haram al-Sharif, dagli arabi) con la Cupola della Roccia e la moschea al-Aqsa, il muro occidentale e il vicino quartiere Maghrebi, apparteneva all’ente che gestisce le proprietà religiose musulmane, il Waqf (un’istituzione di diritto musulmano costituita per gestire un patrimonio a fini di beneficenza o di assistenza sociale). Gli islamici non ostacolarono mai il pellegrinaggio degli ebrei al muro, permettendo loro di passare attraverso il quartiere Maghrebi che ne costituiva l’unica via di accesso, ma l’atteggiamento delle autorità religiose cambiò nel momento in cui i musulmani cominciarono a percepire il sionismo come una minaccia, soprattutto a causa dell’incremento della popolazione ebraica in Palestina. Già a partire dalla seconda metà del XIX secolo, i religiosi islamici irrigidirono la loro posizione, opponendosi alla modifica dello svolgimento del culto ebraico davanti al muro: come avveniva tra i cristiani, anche i musulmani iniziarono a considerare qualsiasi cambiamento, come l’aggiunta di arredi religiosi, una violazione dello status quo (M. Schattner, op. cit., pp. 100-101, M. Ruthven, Islam, Einaudi, Torino 1999, pp. 51-52 e F. Encel, Geopolitique de Jerusalem, Flammarion, Paris 2002, pp. 72-73).

[xvi] S. Katz, Lone Wolf, Barricade Books, New York 1996, p. 1141.

[xvii] V. Rivière-Tencer e A. Attal, op. cit., pp. 180-184.

[xviii] Al tempo della prima guerra mondiale la città misurava solo 7 chilometri quadrati, compreso il territorio della Città Vecchia.

[xix] D. Kroyanker, op. cit., pp. 145-147.

[xx] B. Zevi, Erich Mendelsohn opera completa, Testo & Immagine, Torino 1997, p. 246.

[xxi] L. Eylon, Jerusalem. The new City comes of Age Architecture in the British Mandate Period, in www.israelemb.org/boston/publications.htm.

[xxii] Rehavia è stato il luogo di residenza di molti leader israeliani, tra i quali Arthur Ruppin, padre dell’insediamento sionistico in Palestina, Menahem Ussishkin, capo del Fondo nazionale ebraico, Dov Yossef, più volte ministro, Golda Meir, quarto primo ministro di Israele, Daniel Auster, primo sindaco ebreo di Gerusalemme, i filosofi Hugo Bergmann e Gershon Scholem. Al numero 3 di via Balfour sorgeva uno dei più importanti edifici del quartiere, disegnato da Richard Kaufmann per la ricca famiglia Aghion; nel 1939 la costruzione venne ceduta a re Pietro di Jugoslavia in esilio e oggi è la residenza ufficiale dei primi ministri di Israele.

[xxiii] Y. Porath, The Palestinian Arab National Movement: From Riots to Rebellion 1929-1939, Frank Cass, London 1977, pp. 63-64.

[xxiv] M. Benvenisti, op. cit., pp. 121-122.

[xxv] B. Kimmerling e J.S. Migdal, op. cit., pp. 135-137 e Y. Porath, op. cit., p. 188.

[xxvi] H. Laurens, Il fallimento del Mandato inglese, in AA. VV., Israele da Mosè agli accordi di Oslo, Dedalo, Bari 1999, pp. 305-306.

[xxvii] M. Golani, Zionism without Zion? The Position of the Leadership of the Yishuv and the State of Israel on the Question of Jerusalem 1947-9, in Avi Brali, Eidan, Yad Ben-Zvi, Jerusalem 1994, pp. 32-33.

[xxviii] S. Fabei, op. cit., pp. 110-111.

[xxix] B. Kimmerling e J.S. Migdal, op. cit., pp. 135-137.

[xxx] B. Wasserstein, op. cit., pp. 113-115.

[xxxi] I. Galnoor, The partition of Palestine, State University of New York Press, Albany 1995, pp. 236-240.

[xxxii] B. Wasserstein, op. cit., pp. 117-122.

[xxxiii] M. Benvenisti, op. cit., pp. 210-211.

[xxxiv] M. Shattner, op. cit., pp. 224-228.

[xxxv] Il piano prevedeva anche l’immigrazione in Palestina di 100.000 nuovi rifugiati ebrei e l’abolizione delle restrizioni all’acquisto di terreni da parte ebraica.

[xxxvi] B. Wasserstein, op. cit., p. 125.

[xxxvii] R. Amdur, Begin, Targa italiana, Milano 1990, p. 81 e L. Brenner, The iron wall: Zionism revisionism from Jabotinsky to Shamir, Zed Books, London 1984, p. 135.

[xxxviii] S. Ferrari, The Holy See and the Postwar Palestine Issue: The internationalization of Jerusalem and the Protection of the Holy Places, in International Affairs, n. 2, 1984, p. 264.

[xxxix] M. Golani, op. cit., p. 41.

[xl] M. Klein, Jerusalem, the contested city, Hurst & Company, London 2001, p. 42.

[xli] M. Rodinson, Israele e il rifiuto arabo, Einaudi, Torino 1974, p. 44.

[xlii] B. Morris, Vittime, Rizzoli, Milano 2001, p. 235.

[xliii] I dati relativi alla città di Gerusalemme sono tratti da B. Wasserstein, op. cit., p. 128.

[xliv] D. Lapierre e L. Collins, Gerusalemme! Gerusalemme!, Mondadori, Milano 1972, pp. 82-83.

[xlv] D. Lapierre e L. Collins, op. cit., pp. 90-92 e 106.

[xlvi] B. Wasserstein, op. cit., pp. 134 sgg. e B. Morris, op. cit., pp. 251 sgg.

[xlvii] D. Lapierre e L. Collins, op. cit., pp. 197 sgg.

[xlviii] Nel 1948 osservatori e giornalisti scrissero che a Deir Yassin i morti furono almeno 250. Tuttavia, recenti studi storici (riportati da B. Morris, op. cit., p. 266, nota 29) suggeriscono che le vittime furono fra 100 e 110.

[xlix] B. Morris, op. cit., p. 267.

[l] B. Wasserstein, op. cit., pp. 143-144 e 146-149.

[li] D. Lapierre e L. Collins, op. cit., p. 14.

Casella di testo

Citazione:

Paolo Di Motoli, Francesco Pallante, Gerusalemme negli anni del mandato britannico, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", V, 1, aprile 2016

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