Alessandro Matta, Quando un testimone ci lascia. Addio ad Alberto Mieli

"Free Ebrei", VII, 1, giugno 2018

Quando un Testimone ci lascia…

 

Addio ad Alberto Mieli “Zi’ Pucchio”, il testimone dei dilemmi morali della Shoah

 

di Alessandro Matta

Abstract

Alessandro Matta depictes us the life and work of Alberto Mieli, one of the last Italian witness and survivor of the Shoah. 

È molto difficile per me scrivere queste poche righe per ricordare un testimone della Shoah che, purtroppo, di persona non ho mai avuto occasione di conoscere. O meglio, che ho “conosciuto” solamente attraverso la lettura della sua testimonianza su vari libri, attraverso il suo volto di testimone della storia all’interno di molti documentari sulla Shoah e trasmissioni televisive, o attraverso esperienze di miei conoscenti che hanno avuto il privilegio di conoscerlo di persona.

Tuttavia, spero che queste poche righe in suo ricordo saranno considerate per quel piccolo omaggio che vuole essere ad un grande testimone, che con la sua morte alcuni giorni fa ci ha lasciati tutti un pò più soli.

Alberto Mieli, classe 1925, venne arrestato perché ebreo nel Novembre 1943 all’età di soli 17 anni. Rinchiuso dapprima nel VI braccio di Regina Coeli (quello dal quale nel Marzo 1944 saranno selezionati tutti gli ebrei e non ebrei vittime dell’eccidio delle Fosse Ardeatine), poi nel campo di transito di Fossoli, da lì era stato deportato ad Auschwitz Birkenau col convoglio numero 9 della Shoah Italiana il 6 Aprile 1944. Aveva, a partire dalla deportazione ad Auschwitz Birkenau e dal superamento della prima selezione iniziale, subito una vera e propria odissea nel sistema concentrazionario nazista, che gli fece conoscere anche gli orrori della Marcia della Morte nel Gennaio 1945, con la quale venne evacuato da Birkenau nel lager di Mauthausen, nel quale verrà liberato dagli Americani solo il 5 Maggio 1945.

Numero di matricola numero A180060, Mieli verrà da me ricordato soprattutto per una particolarità. La sua  testimonianza, ricca di riflessioni e di interrogativi, era carica soprattutto di quelli che noi studiosi della shoah, rifacendoci ad una definizione coniata dallo Yad Vashem, definiremmo “i dilemmi morali” spesso succedutisi nelle vittime nel corso del genocidio.

Se ne trovano molti, lungo la testimonianza di “Zi’ Pucchio”, come veniva e viene tuttora ricordato nella comunità ebraica di Roma.

Anzitutto, non posso non citare quello che più lo ha tormentato per tutta la vita. L’episodio del religioso nella baracca di Birkenau. Alberto, in una giornata nella quale lavorava alla pulizia delle baracche del lager, aveva sorpreso un religioso ortodosso a pregare in un angolo della baracca con una piccola Torah, che nascondeva nel guscio di un tozzo di pane al quale l’uomo aveva strappato via la mollica. In quella occasione, Alberto aveva picchiato l’uomo “selvaggiamente” (come lui stesso raccontò a Marcello Pezzetti nell’intervista a lui rilasciata nel 1995) ammonendolo a non fare mai più qualcosa del genere. Ma tempo dopo, “Zi Pucchio” aveva iniziato a provare una profonda vergogna per quella reazione violenta. Lui aveva agito così per tutelare la sua baracca, che sarebbe indubbiamente stata interamente passata per le armi dalle SS se fossero state queste ultime a sorprendere il religioso pregando. Ma ripensando a quest’uomo, il rimorso lo aveva letteralmente piegato, al pensiero di “quanto coraggio” avesse avuto questo essere umano nel rinunciare perfino al cibo pur di continuare a pregare secondo i precetti della religione ebraica. Il dilemma in Alberto fu così forte, che negli anni successivi alla guerra si consultò con molti rabbini sul suo gesto atroce. Tutti gli risposero che comunque la sua reazione era giustificata dal timore per la sua vita e quella dei compagni di prigionia, ma ciò non bastò a continuare a lasciarlo nel dilemma se fosse meglio una “egoistica” volontà di sopravvivenza, o fosse piuttosto ammirevole la “resistenza” di un religioso che continuava nel lager a pregare di nascosto, in un luogo atto allo scopo di eliminare per sempre gli ebrei e la loro storia, la loro cultura e la loro religione dalla storia del mondo.

L’altro episodio tremendo, ed anche questo carico di dilemmi morali, è quello che Alberto visse nel lager di Mauthausen, quando una domenica, lui e i suoi compagni di sventura dovettero assistere ad un orrendo spettacolo messo in scena dalle SS: un figlio doveva picchiare… il padre!

Si trattava di due deportati non ebrei Romani nel lager. Il figlio cercava di addolcire i colpi che dava al padre, ma le SS resesi conto di quanto stava avvenendo, avevano massacrato di botte il giovane dicendogli che “quello era il modo corretto di picchiare il padre”. Ed immediata, era arrivata la dolorante richiesta del padre al figlio con una frase in romanesco: “A Gì, meneme forte, sennò sti zozzi ci ammazzeno!” Un padre che supplicava il figlio di colpirlo forte, onde evitare che entrambi alla fine venissero uccisi.

La testimonianza di Zi’ Pucchio, con questi due soli episodi, è in grado di scatenare nei giovani e negli adulti molte discussioni preziose. Ed anche per questo, con la sua morte, oggi siamo tutti un po’ più soli.

Concludo questo mio scritto in ricordo di Alberto Mieli, con le parole di una preghiera scritta proprio da Alberto negli anni successivi alla Shoah, la preghiera del deportato:

 

Oh Dio onnipotente che tu sei al di sopra di noi tutti, ascolta questa mia preghiera. Fa si che a nessun ebreo o uomo di buona volontà venga mai in sogno ciò che i miei occhi furono costretti a vedere, cioè le sofferenze e la degradazione del mio popolo e di uomini eroi che sacrificarono la loro vita per l’uguaglianza e la libertà dei popoli. Oh signore, pur non dimenticando non porterò odio essendo Tu il giudice supremo che giudicherai i malvagi che, come belve assetate di sangue, tanta offesa portarono all’umanità.

Ti ringrazio buon Dio

Alberto Mieli

 

Baruch Dayan ha Emet, Zi’ Pucchio!

Casella di testo

Citazione:

Alessandro Matta, Quando un testimone ci lascia. Addio ad Alberto Mieli, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VII, 1, giugno 2018

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