Elisa Gardini, Liana Millu: un ritratto

"Free Ebrei", VI, 1, aprile 2017

Liana Millu: un ritratto

di Elisa Gardini

Abstract

Elisa Gardini offers a biographical sketch of Liana Millu (Millul), an Italian Jewish partisan, antifascist and writer, who was perhaps the most important female voice of the Italian "Shoah".

All’indomani della Liberazione, fino al 1947, vengono dati alle stampe numerosi memoriali crudi e brucianti, spesso pubblicati da piccoli editori coinvolti personalmente dal conflitto, sorti appositamente per dar voce a queste testimonianze, e che chiuderanno nell’arco di pochi anni. Questi scritti spiccano di rado per il loro valore artistico – ben spesso sono libretti scarni, sotto le cento pagine, quasi sprovvisti di cura editoriale – ma sono l’espressione immediata dell’epoca che li ha prodotti.  Tra queste testimonianze, pochissime – appena cinque – sono scritte da donne. Questi testi si distinguono per una maggiore tendenza all’analisi psicologica, e l’indagine di alcuni aspetti peculiari dell’universo femminile assume una naturale e delicata centralità: corpo, vita, maternità, violenza. È tra questa moltitudine di voci che debutta nella scrittura Liana Millu.

La Millu nasce a Pisa nel 1914 da una famiglia per metà ebraica e per metà cristiana. La sua voce letteraria rispecchia fedelmente la sua personalità: anticonformista, ironica, in aperta ribellione contro il mondo delle convenzioni borghesi. Rimasta nei primi anni di vita orfana di madre e allevata dai nonni, esponenti paradigmatici di una borghesia chiusa nei suoi retaggi perbenisti, la Millu dimostra precocemente il suo carattere libero e allergico alle costrizioni della buona società, andandosene via di casa appena maggiorenne e ancora nubile. La giovane Liana è decisa nella volontà di intraprendere la carriera di giornalista: possiede la dote di una scrittura copiosa ed efficace ed è impaziente di uscire dalla realtà pisana che le sta diventando sempre più stretta. Per un anno, per mantenersi economicamente, presta servizio come maestra elementare nel volterrano, mestiere che deve abbandonare l’anno seguente per i divieti imposti dalle leggi razziali. Lasciare l’insegnamento non le costa tuttavia un eccessivo dispiacere: non si può dire che abbia un debole per i bambini, e il ruolo di «maestrina» – che non pareva prometterle molti sbocchi – le sta troppo stretto. Poco più che ventenne, inizia a scrivere per alcuni giornali toscani, prima modificando il suo cognome da Millul a Millu (una scelta che manterrà poi nel corso degli anni) e, in seguito all’inasprimento delle persecuzioni razziali, adottando il nome d’arte di Nàila, anagramma di Liana. La stretta delle leggi antiebraiche la porta a svolgere diversi lavori tra la Toscana e Genova, dove si trasferirà nel 1940: la governante, la dattilografa, persino la cartomante. Aderisce a una formazione partigiana, ma viene arrestata in seguito a una delazione. Nella primavera del ‘44 viene deportata a Birkenau e successivamente a Malkov, dove verrà liberata dagli Alleati nel maggio dell’anno successivo.

 

Le memorie di Liana Millu nascono di getto e vengono pubblicate nel 1947 dalle edizioni La Prora di Milano col titolo Il fumo di Birkenau. Quest’opera è una delle poche produzioni di ex deportati pubblicate nell’immediato dopoguerra che superi l’impianto diaristico e dichiaratamente soggettivo della memorialistica, per giungere a un prodotto di ottima qualità letteraria, anche se, ovviamente, segnato dalla natura autobiografica dei fatti narrati. La Millu, con Il fumo di Birkenau, rievoca la sua deportazione attraverso sei racconti, tutti incentrati sulle figure e sulle storie di altrettante compagne: conosciamo così la bella Lily, mandata a morte dalla Kapo per futili rivalità amorose; Maria, deportata in dolce attesa e decisa a portare a termine la sua gravidanza, che morirà dissanguata insieme al neonato; Bruna, che ritrova il suo bambino nel Lager vicino e che, alla notizia che era stato destinato alla selezione, sceglie di dare la morte a sé e al figlio abbracciandolo un’ultima volta attraverso i fili elettrificati; Zina che, per favorire la fuga di un prigioniero che immagina rassomigliante al marito ucciso dai nazisti, finisce a sua volta uccisa dalle percosse; le due sorelle Lotti e Gustine legatissime nella vita libera ma in Lager divise dalla moralità, dato che l’una ha scelto di lavorare in bordello e l’altra preferisce morire non accettando gli aiuti guadagnati in quella maniera dalla sorella; Lise, moglie fedele, combattuta tra l’idea di mantenere fede al vincolo matrimoniale e tra l’idea di prostituirsi per avere una possibilità di sopravvivenza, scegliendo alla fine l’adulterio.

Lo stile della Millu, già affinato dalla sua pratica giornalista, è asciutto, cronachistico, preciso e privo di patetismi. Tra i testi pubblicati negli anni Quaranta, Il fumo di Birkenau è quello con meno riferimenti autobiografici, frutto della scelta dell’autrice di raccontare la sua storia in maniera schermata, ma anche dimostrazione della coscienza letteraria della scrivente. Emerge deciso il carattere forte e volitivo della scrittrice; osservazioni salaci sulla vita del campo compaiono a vivacizzare la narrazione, qua e là viene disseminata qualche notazione intrisa di una sferzante ironia. Ogni racconto termina su una «nota smorzata», come nota Primo Levi nell’introduzione all’edizione Giuntina; i destini dei personaggi non vengono caricati da enfasi superflue e si lascia che i fatti parlino da soli, che siano eloquenti nella loro tremenda nudità.

Le memorie della Millu mantengono la loro caratteristica ruvidezza anche quando trattano temi delicati come l’aborto forzato, le violenze, la maternità negata. Emerge la rabbia, più che  l’imbarazzo, nei confronti dei persecutori nazisti, rabbia che si ritrova nelle numerose invettive e nella ruvidezza del linguaggio usato. La voce schietta della Millu si adatta alla lingua degli aguzzini; tenta di addentrarcisi e di abbrutirsi per poter sopravvivere nell’abiezione. Assorbe sprezzante il gergo del Lager, utilizzando ispidamente il turpiloquio per descrivere una realtà al di fuori di ogni possibilità di sublimazione lirica. E’ così che, nella disperata lotta per la salvezza, la Millu riesce ad accantonare i bisogni dello spirito per indurirsi e resistere tenacemente nella lotta quotidiana.

 

Dopo aver continuato l’attività di pubblicista e, nel 1957, aver visto la ristampa presso Mondadori de Il fumo di Birkenau, la Millu matura l’intenzione di scrivere un’opera narrativa di più ampio respiro. Nel 1978 viene dato alle stampe il romanzo I ponti di Schwerin. Anche questo scritto esce per una piccola casa editrice, la Lalli di Poggibonsi, e non gode di una buona diffusione; ed è un peccato, poiché è un’opera complessa e ben oliata che trascende la gravità del tema concentrazionario per allargarsi ad uno straordinario ritratto di donna, autobiografico e sferzante. Il romanzo segue, attraverso una struttura narrativa abbastanza complessa, le vicende di Elmina, una ragazza ebrea toscana che viene deportata a Birkenau; dopo la liberazione affronta un tortuoso viaggio verso il ponte di Schwerin, il punto di raccolta degli sfollati da dove sarebbero stati rimpatriati, e, una volta tornata in Italia, deve fare i conti con le disillusioni del ritorno.

Nella protagonista convergono innumerevoli aspetti autobiografici della Millu, che ci rimandano un ritratto, romanzato ma non troppo, dell’autrice. Come le eroine emancipate che nascono dalle penne delle scrittrici di fine Ottocento, Elmina-Nàila-Liana non è bella, ha una famiglia ingombrante da cui vorrebbe svincolarsi, ha una concezione via via più disincantata dell’amore e a causa di questo progressivo disamoramento non desidera troppo ardentemente crearsi dei legami. Come Liana, la protagonista lavora come ‘maestrina’, diventa partigiana, si getta con passione e baldanza in imprese rischiose e legami improbabili, pur sempre mantenendo integra la sua dignità. La dialettica arguta e il carattere volitivo di Elmina contrastano col ruolo sottomesso destinato alle donne; sia in Lager che prima e dopo la deportazione deve fare i conti con l’ipocrisia dell’ambiente circostante e con la sua nomea di donna facile e inquieta. Elmina fa a pezzi le convenzioni sociali; il suo scopo principale è realizzarsi ed essere libera, scavalcando, se necessario, gli sbarramenti della mentalità comune, provando un sottile piacere nel porsi controcorrente.

 

L’attività di scrittrice della Millu prosegue con l’uscita nel 1988 di La camicia di Josepha, pubblicato dall’editore genovese ECIG; per l’editrice Morcelliana escono nel 1990 Dopo il fumo. Sono il n. A 5384 di Auschwitz-Birkenau e, nel 2006, postumo per volontà dell’autrice, Tagebuch: il diario del ritorno dal lager.

La spinta alla scrittura di Liana Millu supera la pura esigenza testimoniale. L’attrazione giovanile verso il mondo del giornalismo, poi concretizzatasi nella stesura di libri, racconti, articoli, alcuni dei quali svincolati dalla sua esperienza di ex deportata, la rendono una scrittrice a tutto tondo, abile anche nel calarsi con acume e profondità nelle vicende del presente quotidiano.

Casella di testo

Citazione:

Elisa Gardini, Liana Millu: un ritratto, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VI, 1, aprile 2017

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