Nell’anno 2018 ricorre il centenario
della vittoria alleata della Grande Guerra e al contempo il 70° della
promulgazione della Costituzione Italiana e della creazione dello Stato
d’Israele. Tuttavia, a ben vedere, vi sono altre ricorrenze a queste
collaterali, che non possono passare inosservate. E difatti lo scorso 24 maggio
(altra data storica) si è tenuto a Roma un convegno, che ha voluto ricordare l’ingresso
e la successiva forzata uscita degli ebrei italiani dalle Forze Armate
nazionali. Infatti fu nel lontano 1848 che il re di Sardegna Carlo Alberto di
Savoia autorizzò il proprio Esercito ad aprire le porte ai sudditi ebrei,
mentre fu il suo bisnipote Vittorio Emanuele III che nel 1938 decretò l’espulsione
razziale gli stessi ebrei dalle medesime Forze Armate.
L’evento romano, che ha ricordato
questi fatti, dal significativo titolo Il
rovescio delle medaglie. I militari ebrei italiani 1848-1948 è stato
organizzato dall’Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia e dalla Comunità
ebraica di Roma. Esso ha visto l’intervento di 11 relatori. Questi –
provenienti dal mondo dell’Università, delle Forze Armate, della Comunità
ebraica e della ricerca indipendente – hanno offerto un interessante ed
esauriente spaccato di come il Risorgimento italiano sia stato un elemento di
grande leva socio-patriottica anche per gli italiani di religione ebraica. Al
contempo le intercorse leggi razziali (e razziste) hanno invece rotto quel
patto di emancipazione, adesione e partecipazione, che gli ebrei avevano sottoscritto
e testimoniato senza riserve in favore dei destini della Patria italiana.
Si è iniziato con l’intervento di
Pierluigi Briganti (autore tra l’altro del volume Il contributo militare degli ebrei italiani alla Grande Guerra. 1915-1918).
Egli ha fatto un’esauriente carrellata della partecipazione degli israeliti della
Penisola dal periodo napoleonico fino alla Prima guerra mondiale, soffermandosi
su alcuni rilevanti esempi: indicativo il tal senso come sulle 5 medaglie d’oro
al valor militare concesse durante la Grande Guerra ai combattenti ebrei, tra
di essi vi fosse anche il più giovane (Roberto Sarfatti di 17 anni) e il più vecchio
(Giulio Blum di 61 anni) decorato dell’intero Esercito italiano.
Ha seguito l’intervento del
sottoscritto (autore tra l’altro del volume I
soldati ebrei di Mussolini). Il proponimento del mio intervento è stato
quello di inquadrare l’evoluzione normativa del Regno d’Italia, volta a
integrare e poi espellere gli ebrei dalla vita militare del Paese. Se lo
Statuto albertino e i decreti successivi del 1848 furono forieri della grande
adesione risorgimentale, le Leggi razziali del 1938 furono inversamente
proporzionali nel mortificare quel sorprendente senso patriottico. Si è voluto
poi dare risalto alla malafede di Mussolini, volta subdolamente a rassicurare i
decorati ebrei che i loro meriti patriottici li avrebbero salvati dal forzato
congedo, oltre all’altrettanta ambiguità del Governo Badoglio, che impiegò oltre
sei mesi per abrogare gli effetti della vergogna antisemita.
Si è passati poi alla relazione di
Gerardo Severino (maggiore della Guardia di Finanza e direttore del Museo
storico del corpo), autore di numerosi volumi legati a rilevanti figure di
Fiamme Gialle ebree. Anch’egli ha ribadito il consolidato intreccio tra
Risorgimento italiano e comunità ebraica nazionale, soffermandosi su alcuni
finanzieri di religione israelitica, che diedero lustro al corpo militare
d’appartenenza. Particolare interesse ha rappresentato l’esperienza della
Grande Guerra, in cui la Guardia di Finanza operò come vera e propria arma
combattente e non solo come polizia dedita alla lotta al contrabbando e ai
reati tributari. Tra tutti va ricordata la figura del maresciallo Arrigo
Procaccia, che dopo il congedo nel 1939 chiese e ottenne nel 1944 di rientrare
nel corpo, tanto da meritare la successiva nomina a ufficiale.
A quel punto è stata la volta di Mario
Toscano (professione di storia contemporanea all’università di Roma Sapienza),
che ha illustrato il significato spirituale della partecipazione ebraica alla
Prima guerra mondiale. Si è soffermato in particolare sul ruolo che i rabbini
militari ebbero nel Regio Esercito e sull’adesione – seppur tra sensibilità
differenti – dell’ebraismo italiano a un’esperienza così coinvolgente, ma anche
così drammatica come la Grande Guerra. Non a caso proprio l’esiguo numero degli
ebrei italiani rispetto alle comunità straniere pose l’accento sul controverso rapporto
di presunta fraternità con le più numerose componenti austro-ungariche, di cui
si veniva a contatto per esempio a seguito dell’imprigionamento dei nemici al
fronte. Fu così che i rabbini militari furono sia un conforto per i militari
correligionari, ma divennero anche l’inusuale occasione per riflettere sulla
propria identità, inserita in un contesto così totalizzante come la guerra,
dove i rischi maggiori erano l’assimilazione, il mimetismo religioso, se non
addirittura la coatta conversione ad opera dei cappellani cattolici.
Proprio il tema della prigionia è stato
quello poi trattato da Lauro Rossi (dirigente della Biblioteca di Storia
moderna e contemporanea di Roma). Si è voluto così dare un contributo sulle
differenze e sulle somiglianze dell’essere ebreo, rispetto alle altre
confessioni religiose, anche dietro a un reticolato in territorio nemico. La
triste vita dei prigionieri durante la Grande Guerra è stata quindi declinata
nell’analisi di un rapporto ancora più oppressivo, che purtroppo per gli ebrei
sarebbe stato caratterizzante durante la successiva guerra mondiale.
L’ultimo intervento della mattina è
stato presentato dallo scrittore e filosofo Paolo Orsucci Granata (autore tra
l’altro del volume Moisè va alla guerra).
La sua esposizione ha elencato dieci parole ebraiche, volte a spiegare cosa
volesse significare essere israeliti nel 1915. Attraverso una loro analisi
filologica e poi ricontestualizzate nell’Italia liberale, le dieci parole hanno
permesso di immergersi nel più intimo sentire morale e spirituale dei militari
ebrei mobilitati nel conflitto, anche in rapporto con i precetti della propria
tradizione religiosa. Non a caso, riprendendo il discorso sui rabbini militari,
egli ha accennato anche al grande rischio che il contesto a maggioranza
cattolica potesse trasformare il ruolo del rabbino da maestro d’Israele a
quello più avvilente di semplice “prete israelita”.
Dopo il pranzo si è passati all’analisi
delle fonti documentali, custodite presso la Comunità ebraica della Capitale.
Ha preso la parola Lia Toaff (nipote del compianto rabbino Elio), curatrice
della mostra dal significativo titolo Prima
di tutto italiani, allestita nel 2014 e poi divenuta permanente nelle sale
del Museo ebraico di Roma. L’intervento ha voluto così testimoniare non solo la
crescente sensibilità della comunità verso la tematica del patriottismo dei
propri correligionari, ma anche verso la conservazione e la valorizzazione del
materiale documentale e fotografico posseduto o solo di recente acquisito
proprio grazie alla mostra. Si è quindi voluto risaltare come – nonostante i
romani fossero riuscire a liberarsi del proprio ghetto solo nel 1870 – tale
ritardo non abbia inficiato sull’intensità della propria adesione alla Nazione
comune. Preannunciando poi l’allestimento di una nuova mostra, questa volta
legata all’80° anniversario della normativa antiebraica, si è colta l’occasione
per illustrare alcune figure di spicco della comunità, che vissero nell’arco di
un ventennio l’intensa esperienza bellica nella Grande Guerra e poi la
mortificazione del congedo per motivi razziali.
Si è quindi passati a Silvia Haia
Antonucci (responsabile dell’Archivio storico della comunità di Roma), che ha
illustrato – attraverso la descrizione del patrimonio custodito – l’evoluzione dell’ebraismo
cittadino dallo Stato della Chiesa al fascismo. Non è mancata l’occasione per fare
il punto della situazione sugli studi effettuati e si è accennato anche a
figure militari di spicco, che a vario titolo hanno avuto a che fare con Roma.
Tra di essi il generale Emanuele Pugliese, che già eroico combattente in guerra
fu tra l’altro il comandante della divisione di presidio, che fermò la Marcia
su Roma e che poi permise di far entrare i fascisti, solo per averne ricevuto
l’ordine dal Governo del re.
Chiuso il discorso sulle fonti
documentali, si è dato spazio a due significative figure di militari ebrei. Si
è iniziato con l’intervento di Mariano Gabriele (decano degli storici militari
e grande esperto di Marina), che ha presentato la carriera di Umberto Pugliese,
generale del genio navale e creatore di numerosi invenzioni marinare.
L’episodio più significativo del personaggio è però il fatto che, dopo il
congedo forzato per motivi razziali, egli fu ritenuto talmente insostituibile
che nell’autunno 1940 fu richiamato in servizio per risollevare le sorti della
Marina, mortificata dal micidiale attacco britannico a Taranto. Fu così che il
fascismo fu obbligato a riesaminare la sua posizione, tanto da arianizzare
Pugliese per meriti eccezionali e richiamarlo in servizio permanente.
Altrettanto significativa la figura di
Massimo Adolfo Vitale, illustrata da Costantino Di Sante (professore e studioso
delle tematiche legate alle occupazioni belliche e al colonialismo). Si è così
dato spazio a un uomo eclettico e incredibile: Vitale passò senza soluzione di
continuità da una mirabile e pionieristica carriera militare, espletata
prevalentemente in Africa tra truppe cammellate e quelle aeree, a una meno
avventurosa, ma altrettanto significativa come funzionario coloniale. Nel mezzo
Vitale è stato anche saggista e novelliere, agente segreto per gli Alleati dopo
l’espulsione dall’amministrazione pubblica e l’esilio, poi direttore del Museo
coloniale di Roma e infine attento investigatore delle dinamiche della Shoah.
Avendo perduta la madre e la sorella in un campo di concentramento, Vitale fu
particolarmente sensibile al tema: volle combattere fino all’ultimo ogni forma
di discriminazione e pregiudizio, ancora presenti nel secondo dopoguerra.
Insomma una figura a tutto tondo, pienamente italiana e pienamente ebraica,
anche al limite dell’incredibile.
Ultima relazione del convegno è stata
quella di Daniela Roccas (medico e studiosa di storia sanitaria), che ha sintetizzato
un lungo percorso d’indagine, volto a dare valore a una delle più tipiche
professioni ebraiche: l’arte medica. Partendo dal convegno sul tema,
organizzato a Trieste nel maggio 2016 dall’Associazione medica ebraica (a cui
parteciparono oltre alla stessa Roccas, anche Briganti e il sottoscritto), si è
voluto dimostrare come gli studi sanitari e le relative terapie fossero
un’ennesima occasione per dimostrare l’attaccamento alla Patria dei cittadini
ebrei, soprattutto degli ufficiali medici. Trieste come cerniera tra il mondo
mitteleuropeo e quello mediterraneo – soprattutto in occasione della Grande
Guerra – rappresentò uno dei centri più vitali di ricerca e valorizzazione del
sapere sulle malattie e sulle rispettive cure. Non minore importanza l’apporto
prettamente bellico, svolto sia negli ospedali da campo o territoriali, sia
presso l’Università castrense di San Giorgio di Nogaro, vero e proprio istituto
bellico di alta formazione per il personale sanitario del Regio Esercito.
Non sono poi mancati interventi del
pubblico, che hanno voluto puntualizzare alcuni aspetti controversi e su cui è
sempre meglio avere un confronto. In tale senso vanno riferite le diverse
opinioni sulle varie motivazioni che portarono Mussolini all’antisemitismo di Stato.
Rispetto alle motivazioni prevalenti (creazione del razzismo nell’Impero,
volontà di avviare nel fascismo una seconda fase totalitaria, impulso a
trovarsi in sintonia con l’alleato nazista anche nel campo antisemita) non sono
mancati degli accenni alla politica fascista rivolta al Medio Oriente con
relative implicazioni politico-diplomatiche a favore degli arabi e quindi a
sfavore degli ebrei tout court, indipendentemente se essi fossero italiani o
stranieri, sionisti o antisionisti.
Altro aspetto dibattuto – e per certi
versi problematico – è stato quello relativo all’adesione degli ebrei ai
“valori” del fascismo. E’ stato infatti puntualizzato che il termine “valori”
avesse un significato neutro, nel senso di interessi o idee. Avendo gli ebrei
combattuto con coraggio e temerarietà nelle trincee e visto che diversi di loro
aderirono anche all’impresa fiumana di Gabriele D’Annunzio, fu naturale che
altrettanti trovassero nel movimento e poi nel partito fascista un referente
politico nella riaffermazione del reducismo.
Da citare infine alcune
parole di saluto dalle istituzioni organizzatrici: Enzo Orlanducci e Anna Maria
Isastia per conto dell’ANRP e di Claudio Procaccia per conto della Comunità
ebraica di Roma. Con la promessa di pubblicare presto le relazioni in appositi
atti, così da includere anche il mancato intervento di Gabriele Rigano sulla
riproposizione del Rabbinato militare durante la guerra d’Etiopia, la conclusione
della giornata di studio ha voluto certificare come molto è stato fatto, ma ancora
molto sia ancora da fare, proprio perché le nuove generazioni non possano mai
dimenticare gli insegnamenti della Storia.
In conclusione, si può sintetizzare
come il convegno sia stata non solo l’occasione per descrivere un fenomeno come
quello della piena integrazione degli ebrei nella Nazione italiana; è stata
anche un’analisi a 360° su come una delle comunità israelitiche nazionali più
piccole al Mondo potesse divenire così rilevante nella costruzione di uno Stato
nazionale. Non va infatti trascurato un rilevantissimo dato statistico: sui 140
generali ebrei catalogati nel 1952 a livello mondiale da Eli Rubin, ben 50 erano
italiani. Quando invece le comunità più numerose degli altri Stati ne
annoveravano: 26 in Francia, 23 in Austria-Ungheria e negli Stati Uniti e solo
15 in Gran Bretagna.