Marta Zucchelli, Utopia e disincanto

"Free Ebrei", VII, 1, maggio 2018

Utopia e disincanto: Vladimir Jabotinsky, il sionista letterato 

di Marta Fezzi Zucchelli

Abstract

Marza Fezzi Zucchelli, who has edited the first Italian edition of Jabotinsky's novel Piatero (The Five), explores the spiritual and cultural universive of one of the most important Jewish politician and intellectual of the last century.

 

   In un’interessante riflessione apparsa sulle pagine della “Repubblica” ormai cinque anni fa, Lucio Caracciolo individuava la quintessenza dello Stato di Israele nell’indeterminazione: “Israele si offre come rifugio per tutti gli ebrei, eppure oltre la metà di loro resta in diaspora. Vuole vedersi riconosciuto dagli arabi e dal resto del mondo come Stato ebraico, ma non si riconosce ufficialmente per tale. Non riesce a stabilire chi sia e chi non sia ebreo - motivo per cui non si è dotato di una Costituzione - mentre considera ogni ebreo un israeliano in potenza. È sionista per definizione, dunque considera Gerusalemme (Sion) la sua capitale una e indivisibile, eppure una quota importante dei suoi cittadini - la cospicua minoranza araba, ma anche l’iperortodossa ebraica refrattaria allo Stato laico - non lo è né intende diventarlo”.[1]

   Questa ambivalenza si incarna ancora oggi perfettamente nel governo di Benjamin Netanyahu e nell’élite che lo sostiene; economicamente liberista, geopoliticamente occidentalista e culturalmente orientalista, nell’accezione data al termine da Edward Said nel celeberrimo saggio Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente.

   Le origini di questa Weltanschauung affondano in parte nel pensiero di Vladimir Ze’ev Jabotinsky (Odessa 1880 - New York 1940), figura tra le più controverse del movimento sionista, fondatore della corrente revisionista, creatore della Legione ebraica, politico cinico e visionario a un tempo, passato alla storia per la sua visione del “muro di ferro”. Giornalista, letterato e uomo d’azione, il nome di questo “apolide metafisico” - secondo la brillante definizione di Emile Cioran - è stato per lungo tempo messo all’indice e rimosso è stato anche il suo fondamentale contributo alla nascita dello Stato ebraico in Palestina. Solamente a partire dal 1977, con il primo, storico trionfo della destra guidata da Menachem Begin, si è dato avvio a un processo di riscoperta della sua figura e del suo pensiero. Da allora è stato un crescendo continuo e oggi - complice anche la politica israeliana degli ultimi venti anni con l’intransigente approccio, teoricamente plasmato sulle istanze del Revisionismo, alla questione palestinese - il nome di Jabotinsky è tornato definitivamente alla ribalta. Il rinnovato interesse non ha tuttavia impedito che il complesso e ambiguo pensiero di questo intellettuale engagé - odessita di nascita, russo di cultura e italiano d’elezione - sia stato sovente strumentalizzato e pericolosamente banalizzato: da una parte i suoi avversari politici, pronti a classificarlo come leader fascista tout court, dall’altra i suoi sostenitori, inclini a venerarlo acriticamente e a richiamarsi alle sue teorie in maniera parziale e tendenziosa.

   L’incessante oscillare tra idealità e realtà, l’irrisolta tensione tra l’adesione assoluta ed entusiastica al sogno sionista del ritorno ebraico in Palestina e la disperante ma lucida interpretazione delle implicazioni connaturate all’attuazione di questa attesa millenaria, è questa la cifra ultima della riflessione di Jabotinsky, il cui disperato e radicato pessimismo antropologico permette di avvicinare la sua figura a quella di Bazarov, il rivoluzionario di Padri e Figli, la cui tragica complessità nasce “dalla sua natura amletica che oppugna l’altra sua anima donchisciottesca e la soverchia”.[2]

   E, in fondo, anche la tragicità e la complessità di Jabotinsky scaturiscono da questa esplosiva miscela che fa di lui un “folle Don Chisciotte” profondamente amletico, in bilico perpetuo tra utopia e disincanto.

   Se la parabola politica è stata indagata e approfondita, molto meno studiata risulta l’attività letteraria che spazia dalla poesia al racconto di genere, dal feuilleton giornalistico al romanzo, alla fine opera di traduzione. Jabotinsky - ammirato tra gli altri da Kornej Čukovskij, Maksim Gor’kij, Michail Osorgin e Valerij Brjusov - appartiene a tal punto alla storia del Sionismo che è oramai difficile considerarlo esclusivamente come scrittore: fatto decisamente curioso dal momento che non solo gli esordi, ma l’intera parabola jabotinskiana appare strettamente legata alla letteratura russa, con influenze ed eredità spesso sorprendenti.

   L’originalità e il talento artistico di Jabotinsky, già evidenti negli scritti giovanili, ritornano prepotenti nei due romanzi della maturità Samson Nazorej [Sansone il nazareno], romanzo storico del 1927 mai tradotto in italiano, e Pjatero [I cinque], opera del 1936 di cui ho recentemente curato per i tipi di Voland, casa editrice indipendente che ha coraggiosamente creduto nel progetto, la prima traduzione italiana. Interpretati spesso in maniera troppo semplicistica come banale estrinsecazione letteraria della polemica antiassimilazionista di Jabotinsky, la relazione tra questi testi e la sua filosofia politica è molto più profonda e complicata. Le due opere rappresentano due momenti distinti di un unico discorso, paradigmatico e imprescindibile per ogni nazionalismo; quello svolto intorno al concetto di identità. Se Sansone narra la nascita di una Nazione, I cinque appare come il racconto della sua dissoluzione; se il primo vuole essere rievocazione dell’epica nazionale, il secondo è invece evocazione dolente del passato personale. Pubblicato a puntate sulle pagine parigine della rivista “Rassvet” [“Alba”], I cinque è infatti un’opera liricamente autobiografica in cui Jabotinsky - dissimulato nella figura del narratore, un giovane giornalista ebreo russificato, - compie un nostalgico viaggio immaginario nella città della sua giovinezza, l’Odessa decadente di inizio secolo. La descrizione della città diviene un “magico atto di memoria”, un tentativo di annullare, attraverso la parola, la lontananza spazio-temporale. Come osserva Milan Kundera: “Le retour, en grec, se dit nostos. Algos signifie souffrance. La nostalgie est donc la souffrance causée par le désir inassouvi de retourner”.[3] E l’impossibilità del ritorno è spesso causata da un’incolmabile distanza temporale, quella che nel romanzo separa l’autore/narratore da quella “sublime epoca” di declino.

   Attraverso le vicende della famiglia Mil’grom, rappresentante della borghesia ebraica, e dei suoi cinque figli - Marusja, Marko, Lika, Serëža e Torik - Jabotinsky racconta il destino degli ebrei odessiti, apostoli e martiri a un tempo del tragico anelito assimilazionista, e indaga a fondo, senza mai cadere nella banale querelle politica, la vera natura della crisi del processo di assimilazione. Una crisi che non è solamente politica e ideologica, ma anche e soprattutto morale: un vuoto spirituale ed etico che, nella chiave di lettura jabotinskiana, appare esito inevitabile del volontario abbandono delle proprie radici da parte dei cinque protagonisti, uomini e donne musilianamente senza qualità, vulnerabili e inconsapevoli, convinti che l’abiura dell’ebraismo sia la sola via per la conquista di una vera identità e della tanto agognata rispettabilità economica e sociale. Alla disintegrazione dell’universo dei giovani Mil’grom, immersi in una falsa età dell’oro e prigionieri del proprio passato, si contrappone in discreta antitesi il percorso formativo, politico ed estetico, del narratore: l’ambizione letteraria, la pubblicistica sionista e la lenta presa di coscienza nazionale. Il destino dei personaggi, narrato con grande empatia, si intreccia, in un impianto narrativo appassionante e originale, con quello della Russia imperiale e del suo cosmopolita porto sul Mar Nero, in un ispirato affresco storico, estremo omaggio di Jabotinsky alla sua città natale e a quell’ebraismo europeo, vitale e fragile a un tempo, che egli profeticamente sentiva sempre più minacciato dalla Storia.

   Il testo originale presenta un vocabolario e uno stile particolari che concorrono alla profonda originalità dell’opera e che costituiscono una vera sfida per chi voglia cimentarsi nella sua resa in un’altra lingua. E a questo proposito, a proposito del lavoro di traduzione, trovo illuminante questa riflessione di Natalia Ginzburg: “Tradurre è servire [...] Essere formica e cavallo insieme. Il rischio è sempre di essere troppo cavallo o troppo formica. L’una e l’altra cosa sciupano l’opera. La lentezza non deve apparire, deve apparire la corsa del cavallo soltanto. Le parole nate così adagio non devono apparire striscianti o morte, ma fresche, viventi e impetuose. Il tradurre è dunque fatto di questa contraddizione insanabile [...]”[4]

   La lingua utilizzata da Jabotinsky non è il russo letterario “classico”, quello parlato e, soprattutto, scritto a Mosca o a San Pietroburgo, ma è il russo di Odessa; un idioma ricco di contaminazioni e prestiti, espressione di quella specificità etnica, culturale e linguistica resa celebre da altri grandi scrittori odessiti, quali Isaak Babel’ e Valentin Kataev, che a mio avviso rende Pjatero un testo di riferimento della letteratura legata alla città sul Mar Nero - oltre che un’opera di estremo interesse nel più ampio contesto della letteratura russa novecentesca - e che spero, grazie anche ai preziosi consigli di Daniela Di Sora, di aver reso in italiano rispettando l’arduo equilibrio tra la laboriosa lentezza della formica e l’andatura spedita del cavallo.

 

Note

[1] Cfr. “La Repubblica”, 14/06/2013.

[2] V. Strada, Tradizione e Rivoluzione nella letteratura russa, Einaudi, Torino 1980, p. 33.

[3] M. Kundera, L’ignorance, Gallimard, Paris 2003, p. 11.

[4] Cfr. S. Petrignani, La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg, Neri Pozza, Milano 2018, p. 373.

Casella di testo

Citazione:

Marta Fezzi Zucchelli, Utopia e disincanto. Vladimir Jabotinsky, il sionista letterato, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VII, 1, maggio 2018

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