Guido Franzinetti, Memorie europee tra Polonia e Italia

"Free Ebrei", V, 1, aprile 2017

Memorie europee tra Polonia e Italia

Il "contesto" di Auschwitz[1]

di Guido Franzinetti

Abstract

Guido Franzinetti explores the problem of the memorialization of Auschwitz in Poland and Italy and concentrates on the context as a key element for comprehending nazi and fascist anti-Semitism.

1. Non sono mai stato entusiasta del Giorno della Memoria. Fin dall'inizio, sapevo come sarebbe andata a finire. (Per una argomentazione articolata, rimando all'intervento di di Elena Lowenthal)[2].

Tra i tanti motivi del mio scetticismo, c'era il fondato sospetto di assistere all’ennesima riproposizione dei discorsi sugli "italiani brava gente", che è poi un modo non tanto mascherato per dire "fascisti brava gente". Ci sono stati bravi fascisti, certamente; e ancor più bravi italiani (fascisti e non). E allora?

Un tempo il discorso verteva sul confronto tra nazismo e fascismo, approdando inevitabilmente alla domanda: "il fascismo era cattivo (sterminatore, antisemita, ecc.) quanto il nazismo?" Ed essendo la risposta (ovviamente) che non lo era, si avviava un'apologia del fascismo a gradi diversi: dal fatto che sino al 1938 non era poi così male, al fatto che, dopotutto tanti ebrei  si salvarono grazie ai fascisti, e via dicendo. D'altronde, questo è quel che probabilmente pensa la maggioranza degli italiani, e forse anche degli ebrei italiani. Perché mai dissentire?

Ho difficoltà a seguire le discussioni su questo piano inclinato (in cui le domande predeterminano le risposte). Non sono abituato a ragionare sulla cattiveria dei popoli (o, per usare una versione più aggiornata e sofisticata, la propensione all'antisemitismo).

Per lo stesso motivo, ho difficoltà nel seguire la logica di interrogativi quali “È possibile che l'antisemitismo polacco sia maggiore di quello italiano?” Come si misura l'antisemitismo? E cosa si intende per antisemitismo? Ce ne sono di ogni tipo (da Himmler a Zofia Kossak, ad esempio)[3].

In realtà la domanda è una affermazione: il pogrom di Kielce [avvenuto in Polonia nel 1946] dimostra che l'antisemitismo polacco era "maggiore di quello italiano". Questo modo di argomentare non è storia. È giornalismo.

A scanso di equivoci, non sto sostenendo l'inesistenza o l'irrilevanza dell'antisemitismo polacco. Penso solo che mettere a confronto antisemitismo polacco e italiano non sia un paragone pertinente.

2. Nel settore immobiliare esistono tre fattori che contano: locazione, locazione e locazione. Nella storia contano invece altri tre fattori: contesto, contesto e contesto.

Non mi interessa fare l'apologo della Polonia rifugio degli ebrei all'epoca della Rzeczpospolita polacco-lituana, isola di tolleranza in età moderna. Sono visioni anacronistiche, e l'anacronismo è un peccato capitale per uno storico. Penso sia invece utile individuare il contesto, e in particolare capire la società dei gentili[4].

Alla vigilia della Seconda Guerra mondiale c'erano 3.200.000 ebrei polacchi (pari al 9% della popolazione polacca). Italia c'erano 58.000 ebrei italiani (pari a 0,1% della popolazione italiana). (Tutte le cifre che uso sono approssimative, ma in modo non rilevante rispetto ai temi trattati)

In Polonia (o, per essere precisi, nei territori compresi nei confini della II Repubblica) gli ebrei erano poco integrati (socialmente, culturalmente, politicamente) rispetto alle altre popolazioni della Polonia. Questo era dovuto ad antisemitismo diffuso[5], ma anche ad altri fattori (la suddivisione delle terre polacche in almeno tre parti diverse, e tutto ciò che ne derivava). A torto o a ragione, gli ebrei polacchi erano ritenuti altamente riconoscibili (per tratti somatici, ecc.).

In Italia gli ebrei erano altamente assimilati (socialmente, culturalmente, politicamente). Anzi, erano un po' più italiani (e nazionalisti) della media[6]. A torto o a ragione, gli ebrei italiani sono ritenuti poco riconoscibili. (Tuttora, gli italiani sono in genere poco capaci a distinguere un cognome ebraico.)

Durante la Seconda guerra mondiale, non esisteva alcuna entità statale polacca.

Durante la Seconda guerra mondiale, lo Stato italiano rimase a tutti gli effetti sovrano sino all'8 settembre 1943. Successivamente, esistette una entità statale denominata Repubblica sociale italiana, che mantenne almeno limitato alcune prerogative di sovranità (forze armate, servizi di sicurezza, diritto di chiamata della leva militare).

Per quanto riguarda le probabilità di sopravvivenza degli ebrei polacchi, queste furono sempre estremamente basse, salvo i casi in cui un ebreo potesse passare per "ariano" (per esempio, non fosse circonciso; avesse tratti somatici ritenuti non polacchi). A ciò si aggiungevano i costi elevati dell’assistenza agli ebrei (sia che fosse denunciata, sia che non lo fosse) e  gli incentivi elevati per favorire la denuncia e la delazione nei confronti degli ebrei. La chiesa cattolica polacca –nei casi in cui era disposta ad offrire assistenza agli ebrei- aveva margini di manovra molto limitati con le autorità naziste[7].

Per quanto riguarda la probabilità di sopravvivenza degli ebrei italiani, queste furono sempre estremamente elevate per i motivi indicati in precedenza (elevata assimilazione, scarsa visibilità, ecc.). Entravano in gioco i calcoli ragionevoli (giusti o sbagliati che fossero) sull'avanzata alleata in Italia. Qualunque italiano di media intelligenza (e in particolare i funzionari dello stato, collaboratori della RSI, ma anche imprenditori, operatori economici, ecc.) potevano prevedere l'arrivo alleato in tempi relativamente brevi[8]. Era naturale, in quel contesto, predisporre politiche assicurative per il futuro (contributi finanziari al CLN, contatti con CLN, mediazioni tra CLN, RSI e Wehrmacht e nazisti). In questo contesto, gli incentivi a fornire assistenza ad ebrei con azioni a bassa visibilità (per esempio, fornire un documento di guardia svizzera a un giovane ebreo a Roma) erano relativamente elevati (un domani, questa azione poteva fornire una difesa da accuse di collaborazionismo). Un fascista poteva trovare ebrei da "proteggere" in qualche modo[9]. Gli incentivi alla denuncia e alla delazione della presenza di ebrei erano legati a occasioni limitate nel tempo e nello spazio (p es la delazione alla vigilia del rastrellamento del 16 ottobre 1943 a Roma). Ovviamente, ci furono anche gesti di assistenza gratuita agli ebrei. (Non sarei in grado di quantificarla).

Un capitolo a parte merita la questione dell'atteggiamento del Vaticano e della chiesa cattolica italiana. Ovviamente il Vaticano e la chiesa esercitavano un potere contrattuale nei confronti dei nazisti. (Non avrebbe alcun senso un paragone con la posizione della chiesa polacca). I nazisti erano perfettamente consapevoli degli ebrei e antifascisti ospitati in strutture ecclesiali. Avrebbero potuto effettuare incursioni in ogni momento nei conventi e monasteri. Lo fecero solo raramente. In compenso, la chiesa cattolica seppe ricambiare tale comportamento nel dopoguerra, fornendo a nazisti e fascisti della RSI le possibilità di mettersi in salvo alla fine della guerra. (Non mi interessa alcun giudizio moralistico. La questione riguarda la coscienza dei cattolici, non degli altri. Mi limito a constatare il fatto, e a sottolinearne le implicazioni anche per le probabilità di sopravvivenza degli ebrei italiani).

Più in generale, l'intero arco dell'occupazione nazista e della RSI fu fortemente condizionato dai calcoli sui tempi e suoi modi dell'avanzata alleata in Italia. Roma non fu distrutta (per ovvi motivi). Firenze non fu distrutta (in base a una intesa con i nazisti). (Il confronto con Varsavia e Budapest potrebbe essere di un qualche interesse. Praga fu salvata, ma dagli uomini di Vlasov).

Nel caso di Trieste e dell'Istria, formazioni politiche italiane (antifasciste e non) potevano seriamente ipotizzare uno sbarco alleato in Istria (con l'avallo dei nazisti). È difficile immaginare ragionamenti equivalenti da parte polacca; non sarebbe stato logisticamente possibile. Si potrebbero fare innumerevoli altri paragoni del genere[10].

3. Veniano infine al dopoguerra.  È certamente vero che la grande maggioranza degli ebrei polacchi sopravvissuti alla guerra (350.000) emigrarono. ebrei polacchi sopravvissuti, di cui 230.000 rifugiatisi in Urss. Gli ebrei rimasti in Polonia furono 230.000, pari al 0,9% dei cittadini polacchi nel 1946 (su 23.930.000)[11].

In Italia gli ebrei sopravvissuti furono 32.000 (su 47.515.537 italiani, pari a 0,06%).

In termini percentuali, ciò significa che gli ebrei sopravvissuti in Polonia erano 16 volte più numerosi degli ebrei sopravvissuti in Italia.

A quel punto erano i numeri in assoluto a contare. Il problema polacco era che c'erano troppi sopravvissuti. Gli stessi comunisti polacchi (ebrei e non) furono sbalorditi da queste cifre. Lo furono anche i (numerosi) cittadini polacchi che si erano impossessati dei beni degli ebrei polacchi (e che spesso accolsero i sopravvissuti dicendo "Ma non eravate tutti morti?"). Questo elemento fu certo presente nei pogrom a Kielce e in Slesia.

 

Per i comunisti polacchi l'eccesso di sopravvissuti rappresentava un problema rispetto al progetto di creare stati nazionali relativamente omogenei dal punto di vista "etnico" (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria). Non per nulla la tendenza (e la politica) di tutti gli stati est-europei nell'area sovietica (anche se non ancora formalmente comunisti) fu di favorire e incoraggiare l'emigrazione ebraica in Palestina. (Come è noto, emigrare negli Stati Uniti era praticamente impossibile in quegli anni; emigrare in Europa occidentale richiedeva agganci preesistenti, e non molti ne avevano). Quindi, faute de mieux, era meglio emigrare in Palestina.

 

Il caso volle che uno dei punti di passaggio per la Palestina fosse l'Italia (altri furono, se non sbaglio, la Jugoslavia, la Bulgaria e la Romania). In quel momento l'Italia deve essere apparso un paese molto favorevole agli ebrei diretti in Palestina: le sinistre appoggiavano l’emigrazione (clandestina) per i motivi ben noti; le destre e anche gli ex collaboratori dello stato fascista e della RSI non disdegnavano di incoraggiare una emigrazione illegale per mettere il bastone fra le ruote agli imperialisti britannici (e, nel contempo, liberarsi del possibile fardello di rifugiati ebrei sul territorio italiano). Quindi in Israele si trova tuttora una plateale adesione all'idea di "italiani brava gente" [12].

 

In compenso, non ci fu una grossa emigrazione di ebrei italiani in Palestina[13]. E perché mai avrebbero dovuto farlo? La natura della persecuzione antiebraica e soprattutto la sua tempistica (1938-43, 1943-45) fece sì che molti ebrei italiani poterono mettersi in salvo relativamente presto. In ogni caso, riuscirono a mantenere intatto il loro capitale sociale, se non quello finanziario. Potevano fare conto su reti di appoggio, il riconoscimento dei loro titoli di studio, ecc. Rimanere in Italia, a quel punto, conveniva, ed era una scelta abbastanza sicura. Andarsene via, invece, era rischioso per un ebreo italiano. E, dopotutto, cosa costava rimanere in Italia? Una semplice adesione formale al mito degli "italiani brava gente". Per ogni evenienza, rendersi invisibili (cosa non difficile, in quel momento). Chissà, si poteva anche diventare un giorno giudice costituzionale. (In Italia la riscoperta dell'identità ebraica iniziò molto più tardi, negli anni ottanta del XX secolo).

 

Infine, un piccolo dettaglio fattuale (e uno contro-fattuale). Uno dei tanti vantaggi dell'andarsene via dalla Polonia del dopoguerra era anche di sfuggire al comunismo, che molti ebrei sopravvissuti avevano già conosciuto. Questo è il dato fattuale.

 

L'elemento contro-fattuale è invece: se invece l'Italia fosse diventata comunista (e la Polonia non lo fosse diventata), come sarebbe andata la storia degli italiani "brava gente" (per definizione)?

 

Ovviamente, non lo sapremo mai. Una tale eventualità non si è mai verificata.

 

Salvo in un caso: l'occupazione di Trieste da parte dei comunisti jugoslavi, anche solo per 40 giorni. Non so se un mezzo secolo di occupazione comunista in tutta l'Italia avrebbe permesso agli italiani di rimanere "brava gente".

 

Non credo che queste mie considerazioni ammontino a una apologia per l'antisemitismo polacco. Sono solo un invito a non dimenticare il contesto. Questo è quel che fanno gli storici.

Note

[1] Le osservazioni che seguono prendono spunto da una discussione avviata nella sessione su "Memorie europee tra Polonia e Italia", nell'ambito del Corso di Storia e Didattica della Shoah (Torino, Giovedì  16 febbraio 2017).

[2] E. Loewenthal, Contro il giorno della memoria : una riflessione sul rito del ricordo, la retorica della commemorazione, la condivisione del passato (Torino, Add editore, 2014).

[3] Su Zofia Kossak, cfr. C. Tonini, Il tempo dell'odio e il tempo della cura : storia di Zofia Kossak, la polacca antisemita che salvò migliaia di ebrei (Torino, Zamorani, 2005).

[4] Per questo aspetto cfr. Richard Pipes, "Catherine II and the Jews: The origins of the pale of settlement”, Soviet Jewish Affairs, Volume 5, 1975, n. 2.

[5] Un antisemitismo maggiore che nel resto d'Europa? Non darei per scontato che lo fosse. Comunque affermazioni del genere richiedono verifiche storiche. L'antisemitismo era perfettamente diffuso ed accettabile in Europa, almeno sino al 1938, e forse anche sino al 1945. (Ripeto, bisogna anche saper dare una definizione precisa dell'antisemitismo di cui si parla).

[6] Politicamente erano in genere di destra, salvo casi isolati, come Torino. Questa era la valutazione retrospettiva di  Leo Valiani.

[7] Il 17% del clero polacco sarebbe stato ucciso durante la guerra. Non dispongo di dati analoghi per il clero italiano.

[8] Le peculiarità del caso della RSI fecero sì che Adriano Olivetti potesse essere considerato non ebreo, e quindi la sua fabbrica operò normalmente durante il 1943-45. (Il padre di Olivetti, invece, dovette rifugiarsi in Svizzera in quanto ebreo.)

[9] Questo sarebbe avvenuto nel caso di Giorgio Almirante (stando ad alcune testimonianze, si rifugiò presso Emanuele Levi, che aveva protetto in precedenza). Si potrebbero elencare numerosi altri casi.

[10] Come ho accennato nel mio intervento, le vicende dell'ebraismo triestino-fortemente integrato al fascismo locale- richiederebbero una discussione ampia. (Anche questo è un aspetto che non troverebbe facilmente equivalenti nel caso polacco.)

[11] I dati indicati in questa sede sono tutti approssimativi, ma validi ai fini delle argomentazioni avanzate.

[12] Si segnala però che David Carpi fornisce valutazioni più equilibrate sul comportamento delle popolazioni italiane verso gli ebrei. Cfr. Encyclopaedia of the Holocaust (1990); The Holocaust Encyclopaedia (2001), nelle voci relative all'Italia.

[13] Nel periodo 1948-53 emigrarono in Israele 1547 ebrei classificati come italiani. In termini assoluti, si trattava del più basso numero di ebrei emigrati dall'Europa occidentale, dopo i Paesi Bassi (1309) e il Belgio (1203).

Casella di testo

Citazione:

Guido Frazinetti, Memorie europee tra Polonia e Italia. Il "contesto" di Auschwitz, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VI, 1, aprile 2017

url: http://www.freeebrei.com/anno-vi-numero-1-gennaio-giugno-2017/guido-franzinetti-memorie-europee-tra-polonia-e-italia