Anna Szwarc Zając, Un bambino nel ghetto di Litzmannstadt

"Free Ebrei", IV, 1, febbraio 2015

Un bambino italiano nel ghetto di Litzmannstadt

La storia di Emanuele illustrata nel libro di Dacia Maraini „Il treno dell'ultima notte

di Anna Szwarc Zając

Abstract

Anna Szwarc Zając analyzes the story of Emanuele in Dacia Maraini's historic novel "Il treno dell'ultima notte" (2008).

Dacia Maraini ha pubblicato „Il treno dell'ultima notte” nel 2008 presso la casa editrice BUR. Sono trascorsi sette anni dalla pubblicazione e il libro continua a raccogliere l'ammirazione dei lettori. Nel 2014 in occasione dell'inaugurazione della mostra “La Grande Retata” a Genova, ho avuto l'occasione di intervistare Dacia, la quale mi ha rivelato l'origine della sua ispirazione: “Le storie mi vengono a trovare e io non so mai in anticipo chi e cosa verrà a bussare alla mia porta.”[1] E proprio così il piccolo Emanuele entrò dalla porta e diventò un protagonista del suo libro.

„Il treno dell'ultima notte” narra la storia dell'Europa. Come capita spesso nella scrittura della Maraini, la scrittrice non racconta una storia sola, bensì ancora al tema principale altri racconti, in modo che per il lettore sia possibile scoprire la storia italiana degli anni Trenta, la storia d'Europa durante la Seconda Guerra Mondiale e la storia ungherese nel 1956.

Dalla Cronaca del Ghetto di Łódź non risulta che nel ghetto di Litzmannstadt ci fossero degli italiani, perciò si pone la domanda di come sia possibile che un bambino italiano si trovasse nel ghetto di Łódź. La Maraini ha trovato una soluzione semplice. È vero, il piccolo Emanuele è nato a Firenze da padre italiano, ma la madre aveva radici ebraiche. La signora Thelma Orestein era figlia di un ebreo austriaco che combatté a favore dell'Austria durante la Grande Guerra. Per questo motivo, la famiglia Orestein non vide il pericolo che si affacciava in Europa nel 1938. La madre orgogliosa decise che tutta famiglia si sarebbe trasferita in Austria dove avrebbero vissuto nell'appartamento lasciato dal nonno. E da lì il piccolo Emanuele fu deportato a Łódź, dove inizialmente scrisse delle lettere e poi un diario.

I lettori conoscono Emanuele grazie a queste lettere e grazie alla memoria di una sua fedele amica d’infanzia, Amara. La ragazza, anni dopo, decise di attraversare l'Europa per cercarlo. Purtroppo il continente era attraversato da un altro dramma politico, e Amara si trovava oltre la cortina di ferro.

Che cosa sappiamo della vita di Emanuele durante i suoi anni nel ghetto? Oggi, in questo saggio, proviamo a scoprirlo. La prima lettera arriva in Italia dall'Austria nel dicembre 1939. Emanuele scrisse che la vita a Vienna era molto bella, che lui era felice, ma ricordava l'Italia, che non avrebbe mai dimenticato. Sulle pagine scritte con lo stile semplice di un bambino, il ragazzo racconta la vita quotidiana:

 

Faccio colazione con papà. La mamma dorme fino alle dieci. La bambinaia, Mariska, prepara per noi delle grandi pappe: yogurt fresco con fette di banana tagliate sopra, latte caldo allungato con caffè, fette di pane abbrustolito cosparse di burro fresco e marmellata fatta da lei.[2]

 

Un'altra lettera informa che Emanuele comincia sentire il peso della guerra. Non ricorrendo ancora alla prima persona (escludendo l'episodio in cui durante una gita scolastica fu costretto a mangiare solo un pezzetto di pane nero con latte), Emanuele scrive che la bambinaia Marysia si lamentò della mancanza di cibo. Pian piano, il ragazzo italiano cominciò a vedere il pericolo come del resto suo padre Karl, che provò a persuadere la moglie a tornare, ma la signora Orestein non voleva neanche sentire la proposta. Perciò Emanuele confessò nel 1941 che fu costretto a mettere sul vestito una Stella di Davide. Tutti gli ebrei europei dovevano essere marchiati, in modo che la gente li potesse riconoscere subito. Non molto lontano da Emanuele un altro bambino mise sulla giacca il simbolo degli ebrei. David Sieracowiak nel suo diario scrisse:

 

Stiamo tornando al Medioevo. Ancora una volta la stella gialla entra a far parte dell’abbigliamento ebraico. Oggi è stato emesso un ordine per il quale tutti gli ebrei, di qualsiasi età e sesso devono indossare sul braccio destro, proprio sotto l’ascella, una banda   di “giallo ebraico”, alta 10 centimetri.[3]

 

Alla fine del 1941 Amara ricevette due lettere da parte di Emanuele il quale raccontava di come la guerra fosse diventata veramente pericolosa per il popolo ebraico. A scuola si era verificato un altro episodio: gli studenti furono divisi secondo il cognome in due gruppi, bambini ariani ed ebrei. Così facevano i nazisti in tutti i paesi che avevano occupato. Isolavano gli studenti per mostrare come esistesse una razza superiore che non poteva essere mescolata con gli altri.

Cito la Maraini: ”Da domani non potete più venire a scuola”.[4] Così un ufficiale delle SS spiegò a Emanuele le nuove regole. Nello stesso tempo, un altro ufficiale delle SS spiegò la stessa cosa a David  Sierakowiak:

 

Le scuole elementari ebraiche, che sono diventate proprietà del Consiglio ebraico della Comunità, insegneranno tedesco ed ebraico. Gli ebrei sono stati espulsi da tutti i ginnasi   statali e privati.[5]

 

Emanuele ci informa di come la sua tata Mariska fosse costretta ad abbandonare il servizio presso la famiglia, non potendo un ebrea lavorare più in casa. Il ragazzino lamentava di avere tanta paura da non poter dormire la notte.  Aveva paura di Hitler che gridava alla radio contro gli ebrei. Nei suoi discorsi Hitler ricordava al popolo tedesco di come la causa delle difficoltà e della povertà della nazione dipendesse dagli ebrei e dalle conseguenze del trattato di Versailles.

Hitler era un eccellente oratore che sapeva come manipolare il pensiero del popolo.

Il bambino iniziava a capire il peso di quel che accadeva nel mondo e temere per la sorte della propria famiglia. “Per quale popolo un bambino può rappresentare un pericolo?” sembra chiedersi Emanuele nel dicembre 1941. Non può comprendere come un bambino biondo, con gli occhi azzurri, possa rappresentare un pericolo per il popolo austriaco. Per quale motivo la polizia deve proteggere i tedeschi dagli ebrei? Perché la sua famiglia ha lasciato l'Italia?

Le risposte non si potevano trovare a casa sua. La madre ignorava i fatti. Il comportamento della signora Thelma era il risultato delle abili manipolazioni di Hitler, che era in grado di assopire le menti e tranquillizzare le coscienze. Philip Zimbardo spiega nel suo libro “L'effetto Lucifero. Cattivi si diventa?”[6] Come dinamiche di gruppo possano portare a fenomeni di estrema crudeltà, trasformando degli uomini in mostri.

Nell'ultima lettera spedita da Vienna in Italia leggiamo come l'appartamento in cui Emanuele viveva (proprietà del nonno austriaco) fu confiscato e assegnato a un'altra famiglia di nome Schumacher. Emanuele scriveva ad Amara sempre, anche dal ghetto di Łódź. La forma tuttavia era cambiata: i suoi racconti, da lettere, erano diventati parte di un diario che non veniva più spedito. L'inizio del diario racconta di come fosse avvenuta la deportazione.

 

Sono venuti a bussare alle quattro di mattina nella nostra casa di Vienna. Ci hanno dato        un’ora per preparare le valigie. Una a testa. Non più di tre in tutto. Ma dove dobbiamo andare? Nessuna risposta. Erano frettolosi e arrabbiati.[7]

 

Sorprendevano la gente di notte, causando paura e disorientamento. Il ringhiare dei cani e l'ira degli ufficiali delle SS accresceva il panico. Tale era il disorientamento che le persone non sapevano neppure che mettere nelle valigie. “Papà voleva riempirle con roba da mangiare. La mamma con roba per coprirsi: coperte, giacconi.”[8]

I nazisti caricarono tutti in vagoni bestiame e li portarono in un paese lontano, la cui lingua era incomprensibile, e nell'aria si sentiva un odore dolciastro con una nota di carne bruciata. Emanuele così racconta il viaggio:

 

Quattro notti di angoscia in un vagone bestiame blindato assieme a un centinaio di altri ebrei austriaci senza né mangiare né bere. Per fortuna avevamo con noi dei würstel e delle mele. […] Abbiamo mandato giù un würstel e una mela ciascuno, conservando il resto per dopo. Ma quando siamo andati a riprenderli, nella valigia di papà non c’era più niente. Qualcuno di quei morti di fame ci aveva rubato ogni cosa.[9]

 

Come racconta il ragazzo, la gente non aveva nessuna pietà verso il prossimo, anche se condividevano lo stesso destino. Emanuele raccontò di come venne derubato da una persona sconosciuta, e di come lo zio derubasse regolarmente la famiglia Orestein. È ora scientificamente dimostrato quanto la personalità cambi in una situazione difficile e avversa[10].

La mamma di Emanuele, prima una donna fiera e coraggiosa, all'arrivo nel ghetto si vide con Rumkowski e da quel momento si trasformò[11]. La signora sapeva tuttavia che solo lei poteva aiutare la famiglia ad andare avanti poiché suo marito era, come lo definì il figlio, “più morto che vivo”[12].

Ci sembra strano il fatto che Thelma si sia incontrata con Rumkowski, dato che “Il Re” del ghetto non voleva incontrarsi con il suo popolo. Rumkowski dava solo ordini, anche ai bambini, benché si definisse il padre dei bambini[13]. Lucille Eichengreen nel suo libro Rumkowski e gli orfani di Łódź scrisse:

 

Promulgavano gli ordini e Chaim Rumkowski, nominato Anziano dai nazisti in modo del tutto arbitrario, si assicurava che fossero eseguiti. Venivano affissi anche i turni di lavoro per le varie fabbriche e altre informazioni più o meno rilevanti.[14]

 

Nel ghetto il lavoro era molto importante. Anche Emanuele fu costretto a lavorare, trovò un posto come falegname e guadagnò 5 zl al giorno. Le testimonianze parlano chiaro: nel ghetto di Litzmannstadt si doveva lavorare. A conferma di queste parole riportiamo la voce di Stive Sem-Sandberg che scrisse nel suo libro: “E Adam lavorava. Ed era grato per il lavoro che gli aveva trovato suo zio Lajb. E diceva a se stesso che non avrebbe mai più fatto niente di male o infranto le leggi del Preside”.[15]

Per fare conoscere ad Amara le condizioni di vita irreali e assurde che era costretto a subire, Emanuele scrisse nel suo diario i prezzi del cibo, in modo che l'amica italiana sapesse che il burro costava 12 zl (2 giorni e mezzo di lavoro) o che il prezzo della carne era più alto perché costava 45 zl, quindi il piccolo Emanuele doveva lavorare 9 giorni per comprarli. In questa situazione, ovviamente, la gente non era in grado di guadagnare abbastanza soldi per comprare il cibo, di conseguenza nel ghetto di Łódź il tasso di morte per fame era altissimo.

Nel marzo del 1942, Emanuele scrisse nel diario che suo padre Karl spese tutti i soldi per comprare passaporti falsi, perché voleva scappare in America. L'idea era assurda, lo sapevano tutti tranne Karl. Un altro problema era creato dallo zio Edward, che soffriva di una malattia mentale. Lo zio aveva paura della fame, perciò rubava il cibo e lo nascondeva. Tuttavia si dimenticava del nascondiglio, di conseguenza il cibo marciva. Questo comportamento é stato analizzato in Polonia da Antonio Kępiński e dalla sua allieva  Maria Orwid. Gli studiosi lo hanno definito “KZ sindrom”.[16]

Sicuramente la vita nel ghetto di Litzmannstadt aveva come conseguenza una perdita di fiducia nei confronti delle altre persone. Questo succedeva perché i soldati nazisti arrivavano nel ghetto per scaricare le emozioni negative:

 

Ieri alla finestra ho visto due SS che picchiavano un ragazzo perché non aveva la stella gialla sul bavero del capotto. Il ragazzo mostrava la stella bene in vista cucita sul risvolto della giacca, sotto il soprabito. Ma loro hanno continuato a picchiarlo in testa. Un orecchio ha cominciato a sprizzare sangue. Il ragazzo si teneva la testa con le mani. Il sangue ha    sporcato la neve intorno.[17]

 

Un'altra testimonianza che conferma le nostre parole si può trovare nel diario di  Rutka Laskier:

 

ho visto con i miei occhi un soldato strappare un piccolo di pochi mesi dalle braccia della       madre e sbattergli la testa con tutta la forza contro il palo di un lampione. Il cervello è   schizzato su un albero, la madre ha avuto un attacco.[18]

 

La descrizione della vita crudele si esaurisce in questa lettera. Amara non ricevette in Italia più niente. Il piccolo amico non aveva smesso di scrivere, ma non spediva più nulla verso il bel paese.

Nel marzo del1942 il ragazzo confessò che cominciava a odiare i suoi genitori perché non si erano accorti del pericolo e, di conseguenza, lo avevano portato in un posto dove la vita umana non valeva niente. Emanuele litigava sempre con suo padre perché Karl non lavorava e non portava a casa niente da mangiare. Una volta si legge nel diario del ragazzo di come il padre portò a casa due uova. Era molto orgoglioso del suo bottino. Ma quando la madre le aprì, scoprì che le uova erano vuote. Purtroppo Karl aveva speso tutti soldi di cui disponeva la famiglia. Tre giorni di lavoro duro di Emanuele. Karl Orestein, anche lui fu cambiato, ma, al contrario di sua moglie, il padre di Emanuele diventò assolutamente utile. Nel ghetto nessuno poteva essere utile, lo sapevano tutti.

Gli abitanti del ghetto dovevano combattere non solo contro la fame ma anche contro le malattie, come per esempio la tubercolosi. Queste difficoltà furono create dal destino, ma nel ghetto di Litzmannstadt  il pericolo era ancora più forte. Il I settembre 1942 i nazisti organizzarono “La Grande Retata”. Per gli Ebrei tale data non recò  fortuna: è stata paragonata a un nomen omen (ci ricordiamo l'inizio della Seconda guerra mondiale e il primo settembre del 1939).

Il I settembre 1942 Emanuele vide un'azione che descrisse in questi termini:

 

Ieri ho visto un vecchio che non voleva salire assieme agli altri, l’hanno legato mani e piedi e attaccato a un gancio del camion che è partito veloce con quel corpo che sbatteva e         rotolava dietro. Faceva uno strano rumore di scatola vuota.[19]

 

Abbiamo molte testimonianze della Grande Retata (Wielka Szpera). Ricordo che in Italia esiste la possibilità di scoprire tutti particolari visitando la mostra fotografica che nel febbraio del 2015 è stata allestita a Torino.[20] Nelle pagine del diario, Amara lesse che il ragazzo si lamentava di sentirsi vuoto dentro: “Ho gli occhi di pietra, ho un cervello di pietra, ho la lingua di pietra e perfino un cuore di pietra”[21]. Il ragazzo non aveva sogni, perché è molto difficile sognare quando la gente sparisce senza lasciare traccia.

Il 18 aprile del 1942 Emanuele scrisse di avere le pulci. Sua mamma desiderava il talco ma tutti e due sapevano che il desidero non poteva essere esaudito. L'unica soluzione fu quella di mettere tutti i vestiti nella pentola e di farli bollire per un po'.

Se analizziamo bene il quaderno di Emanuele notiamo subito che per il ragazzo italiano il ghetto smise di essere un posto sconosciuto. Scriveva, semplicemente ghetto di Łódź oppure di Łódź o Litzmannstadt. Conosceva suoi vicini, come il signor Bobrowski, che si ammalò e la cui storia fu illustrata nel diario.

Il piccolo ragazzo italiano nel ghetto di Łódź soffriva la fame cosi tanto che pesava solo 40 kg. A questo punto cito le parole di David Sierakowiak; per descrivere meglio il problema, il giovane polacco scrisse: “In un certo modo il caso di Wolman mi fa sentire meno solo e scoraggiato, perché non sono l’unico a essere ucciso spiritualmente della fame (fisicamente la fame uccide tutti)”[22]. La mancanza del cibo e dodici o tredici ore al giorno di lavoro cambiarono Emanuele così tanto che il ragazzo non riconosceva se stesso. Una volta andò al mercato e vide una signora che vendeva la frutta. Il ragazzo si avvicinò solo per sentire l'odore ma la signora cominciò a sgridarlo:

 

Se te le mangi te la faccio sputare, mi ha detto, o paghi o niente, non si tocca! L’ho insultata a voce alta, dandole della ladra e lei mi ha risposto per le rime: sei un ragazzo schifoso, ma       ti sei visto? Senza capelli e coperto di croste? Va’ a pisciare da qualche altra parte![23]

 

In questo momento Emanuele cominciò a capire che si era trasformato da bambino innocente che viveva a Firenze e giocava con la sua amica a un ragazzo che nella vita vedeva tanta crudeltà e ingiustizia. Il cambiamento non era avvenuto solo dentro, ma si notava anche esteriormente;  il piccolo Emanuele era scomparso per sempre. Come scomparirono prima il padre Karl e poi la madre. Ma la loro morte fu diversa. Karl un giorno non tornò a casa e la famiglia scoprì un paio di giorni dopo, grazie al passaparola, che il padre era stato ucciso da un soldato delle SS. A questo punto l'unica cosa che il figlio e la moglie potevano fare era recitare una preghiera dedicata ai morti. Emanuele pronunciava le parole del Kaddish, ma non si sentiva triste, come quando scoprì il 28 aprile del 1943 che sua mamma era stata arrestata perché aveva rotto le macchine per non lavorare. In questo momento il ragazzo si trovava nell’ospedale in via Łogiewnicka, dove era ricoverato per tubercolosi. Quando uscì da lì, subito si recò in via  Czarneckiego 14/16 (Schneidergasse), dove Rumcowski aveva ordinato il 20 ottobre 1940 di aprire una prigione. La struttura fu isolata e aperta per le persone che avevano violato la legge del ghetto. La massima pena era di quattro mesi. Dopo questo periodo i carcerati venivano deportati a Chełmno, dove morivano ammazzati nelle camere a gas temporanee. Purtroppo non esistono dati certi relativi a quante persone furono rinchiuse nella prigione Centrale (Zentral-Gefängnis). Jechuda Lubiński stima che la cifra sia intorno alle  2.300 persone, di cui 250 donne.[24] Tra queste donne ci fu anche la mamma di Emanuele, che il ragazzo vide da lontano. La donna fu massacrata di botte e poi appesa in via Lutomierska, dove Rumkowski teneva i suoi famosi discorsi.

Se parliamo di Rumkowski come oratore, non possiamo dimenticarci di un altro posto,  il Centro Culturale di via Krawiecka creato per dare agli ebrei chiusi nel ghetto un po’ di divertimento;  il Re del Getto lo sfruttava anche per raccontare alla gente cosa succedeva nel suo territorio. Ma l'idea principale del Centro fu quella di dare un po' di gioia. Emanuele lo visitò una volta, perché voleva vedere un spettacolo teatrale. Quando la performance finì e gli attori andarono tra pubblico per raccogliere denaro, il ragazzo italiano non aveva un soldo, perciò offrì loro un panino, ma la piccola attrice non apprezzò il suo dono e gli fece una linguaccia. Cosi descrive quel posto David Sierakowiak:

 

O Rumkowski è impazzito completamente, o i tedeschi effettivamente non mandano cibo nel ghetto. Mi sono arrabbiato tanto che alle sei sono andato al concerto in via Krawiecka.   Viene organizzato ogni sabato sia per chi ha lo stomaco pieno, sia per chi ce l’ha completamente vuoto. Il concerto era sovraffollato. Non c’era niente di speciale, ma per un’ora e mezza ho in quale modo preso le distanze dalla realtà del ghetto che occupa sempre la mia mente.[25]

 

Emanuele scrisse l'ultima lettera il 20 maggio del 1943. Con questa informò Amara del fatto che il ghetto piano piano cominciava a essere liquidato e che nascose il quaderno nel muro della sua casa. Come scrivono gli autori della mostra “Wielka Szpera”:

 

Il ghetto di Litzmannstadt è servito come campo di lavoro fino all’estate 1944. Era    l’ultimo, grande raggruppamento di ebrei sulle terre polacche. La liquidazione iniziò a   luglio. Gli ultimi carichi di deportati partirono dalla stazione di Radegast in direzione di         Auschwitz – Birkenau a fine agosto 1944. Per coloro che sono sopravvissuti, gli eventi del settembre 1942 fanno parte delle esperienze più traumatiche. Non hanno mai dimenticato il silenzio che regnava nel ghetto dopo la deportazione  di migliaia di bambini.[26]

 

A questo punto la storia di Emanuele diventa un mistero e il lettore, insieme con Amara, prova a trovarlo. Fortunatamente la ragazza italiana ci riuscì, anche se all'inizio Emanuele non confessò di essere lui. Dopo l'esperienza nel ghetto Emanuele fu deportato in vari campi, finendo definitivamente a Dachau, dove i nazisti condussero su di lui alcuni esperimenti medici. Lì soffrì di torture che lo cambiarono definitivamente, tanto da spingerlo a cambiare il suo nome. Amara lo conobbe come Peter, un uomo cinico e brutale che non aveva niente in comune con il bambino dolce e sognatore che ricordava.

La vita nel ghetto di Litzmannstadt  non fu facile. Emanuele ebbe la fortuna di sopravvivere. Nel frattempo si trasformò varie volte, prima da bambino che sognava di volare a un ragazzo che lavorava sodo, fino a un uomo cinico e solo. “Il treno dell'ultima notte” racconta tante storie ma la storia del bambino italiano è molto toccante, perché dimostra che alla fine non è importante quale nazionalità fu toccata dal dramma mondiale conosciuto come Shoah, ma dipendeva dalla voglia di vivere. Emanuele, un bambino italiano, ha trovato la forza di salvarsi, forse perché sapeva sognare di volare sopra le vie del ghetto di Łódź, di Vienna e di Firenze.

 

Note

[1]   Anna Szwrc Zając, “Siamo tutti figli della memoria” le parole di Dacia Maraini intervistata per l'inaugurazione della mostra “La Grande Retata. Settembre 1942” la intervista fatta a Daccia Maraini nel 26 gennaio 2014.

[2]   Dacia Maraini, Il treno dell’ultima notte, BUR, Milano, 2008, p. 23.

[3]   David Sierakowiak, Il Diario di Dawid Sierakowiak, Cinque quaderni dal ghetto di Łódź, trad. da. G. Guastalla, Einaudi, Torino, 2008, p. 59.

[4]   D. Maraini, Op. cit., p. 44.

[5]   D. Sierakowiak, op. cit. p. 58.

[6]   Philip G. Zimbardo, L'effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Cortina, Raffaello, 2008.

[7]   D. Maraini, Op. cit., p.62.

[8]   Ibidem, p. 62.

[9]   Ibidem, p. 62.

[10] P. Zimbardo, op. cit., p. 62.

[11] Guarda il libro di Abram Cytryn, Pragnę żyć, Bonobo, Warszawa, 2004.

[12] D. Maraini, op. cit., p. 63.

[13] Rumkowski desiderava essere conosciuto e ammirato come Korczak, ma il suo comportamento e le sue scelte non

     permettano di fare questo paragone. Rumkowski fu un personaggio opposto al dr. Henryk Goldszmit.

[14] Lucille Eichengreen, Rumkowski e gli orfani di Łódź, Marsilio, Venezia, 2014, trad. di Fabio Viola, p. 15.

[15] Stive Sem-Sandberg, Gli spodestati, Marsilio, Venezia, 2012, trad. di Katia De Marco, p. 222.

[16] Guarda Katarzyna Prot, Łukasz Biedka, Krzysztof Szwajca, Kazimierz Bierzyński, Ewa Domagalska, Ryszard

     Izdebski, Psychoterapia grupowa ocalałych z Holokaustu-doświadczenia e un film di Teresa Otulak: „KZ syndrom”, reż. Agata Michowska, Anna Orlikowska, Pracownia Działań Multimedialnych. Otulak ha ricevuto un premio al concorso „Mowa nienawiści. Wykluczam wykluczanie”.

[17] D. Maraini, op. cit., p. 66.

[18] Rutka Laskier, Diario, Bompiani, Milano, trad. di Laura Quercioli Mincer, 2008, p. 68.

[19] D. Maraini, op. Cit., p. 69.

[20] A 2014 la stessa possibilità fu data ai visitato ridi  Genova.

[21] D. Maraini, op. Cit., p. 70.

[22] D. Sierakowiak, op. cit., p. 172.

[23] D. Maraini, op. cit., p. 284.

[24] J. Lubiński, Dziennik z Bałut, [in:] Litzmannstadt-Getto. Przewodnik po przeszłości, red. J. Podolska, Piątek

     Trzynastego, Łódź, 2004.

[25] D. Sierakowiak, op. cit. s. 185.

[26] Mostra creata da Centro Dialogo Marek Edelman e dall'Archivio Nazionale Polacco di Łódź, trad. da Anna Szwarc

     Zając.

Casella di testo

Citazione:

Anna Szwarc Zajac, Un bambino nel ghetto di Litzmannstadt, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", IV, 1, febbraio 2015

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