Daniela Franceschi, La Shoah attraverso il "Corriere d'Informazione", "L'Unità"e "Il Giornale di Vicenza" (1945)

"Free Ebrei", VI, 1, gennaio 2017

La Shoah attraverso il “Corriere d’Informazione”, “L’Unità” e “Il Giornale di Vicenza” (1945)

 

di Daniela Franceschi

Abstract

Daniela Franceschi explores the presentation and representation of the Shoah on some some Italian newspapers after the end of the Second World War.

               …non avesse Iddio

           per qualche alto proposito indurito

i cuori come acciaio, per forza si sarebbero commossi

  William Shakespeare, Riccardo II, V, II, trad.

Paul Celan, “Todesfuge”, trad. di Giuseppe Bevilacqua, Poesie,         Mondadori, Milano 1997.

 

 

Prima del secondo conflitto, la comunità ebraica italiana contava circa 47.000 persone, che si ridussero a meno di 30.000 nel secondo dopoguerra. Una perdita così notevole è ascrivibile a svariate cause, tra le quali le abiure, le emigrazioni e le persecuzioni. Tra i sei milioni di ebrei vittime della Shoah, vi furono anche 6746 ebrei italiani[1].

Il cammino che gli ebrei italiani dovettero intraprendere, dopo la fine della seconda guerra mondiale, per una reintegrazione civile, sociale ed economica fu impervio e difficile.

Dal punto di vista prettamente giuridico, la rottura con la precedente legislazione razziale italiana fu risoluta; malgrado qualche resistenza iniziale del primo Governo Badoglio, e nonostante le riluttanze espresse dalla Santa Sede che nell’estate del 1943 segnalava all’Esecutivo l’esistenza nella Normativa antiebraica di elementi “meritevoli di conferma”[2], il processo di abrogazione delle Leggi razziali, imposto dagli alleati con l’articolo n. 31 dell’armistizio lungo, firmato a Malta il 29 settembre del 1943, portò entro il 1947 al superamento delle norme razziste e alla restituzione dei pieni diritti civili e politici agli ex perseguitati. La storiografia più recente ha fornito un’ampia documentazione sul difficile reintegro degli ebrei italiani nel legittimo possesso dei beni e del lavoro che la Legislazione antisemita gli aveva tolto; inoltre, ha anche delineato il contesto sociale che accompagnava questo ritorno: indifferenza; insofferenza; alcune volte aperta ostilità.

Ancora più complesso si rivelò ritornare alla vita all’interno di una comunità nazionale in cui, come nota Guri Schwarz, “l’antisemitismo fascista non aveva riguardato la sola minoranza perseguitata e i rapaci avvoltoi che avevano profittato della sua fragilità, ma aveva coinvolto la riscrittura dei codici della cittadinanza e la formulazione- anche tramite la raffigurazione di un controtipo negativo- di una diversa concezione dell’identità nazionale, che acquisiva carattere prescrittivo”[3].  

Fino agli anni Sessanta, lo sterminio degli ebrei non fu oggetto di un’analisi approfondita in nessuna parte d’Europa; nell’Europa orientale, soprattutto in Polonia, centro nevralgico del disegno di annientamento del popolo ebraico, dopo il 1947, fu negata la natura specificatamente razziale e antisemitica della persecuzione, inserendo gli ebrei sterminati nel calcolo dei cittadini uccisi dalla guerra nazista, occultandone l’identità attraverso un generico anonimato.

In Occidente, non vi fu questo processo di occultamento della specificità dell’Olocausto, tuttavia, non vi fu quell’attenzione e quella presa di coscienza collettiva che il genocidio ebraico avrebbe meritato.

L’elaborazione di tematiche quali le leggi razziali, la persecuzione e lo sterminio fu per gli ebrei italiani un processo privato, che non coinvolse la collettività. Infatti, fin dalla caduta della dittatura fascista, si andò progressivamente affermando un’interpretazione della politica antiebraica da cui era espunta ogni responsabilità italiana, ritenendo, erroneamente, la legislazione antisemita un’imposizione della Germania nazista; inoltre, si esaltava l’inesistenza dell’antisemitismo in Italia e l’impossibilità che il popolo italiano avesse potuto collaborare con degli spietati assassini.

La glorificazione del rifiuto della normativa antisemita da parte del popolo italiano alludeva, direttamente, alla distanza che separava gli italiani dalla dittatura fascista, non facente parte della storia italiana essendo una parentesi, dalla Repubblica Sociale, eterodiretta dai criminali nazisti, dagli orrori della guerra e dallo sterminio. La classe dirigente, politica e intellettuale, decise di fondare la nuova identità nazionale sul mito della Resistenza: il periodo fascista, e con esso le Leggi razziali, l’alleanza con la Germania hitleriana e le persecuzioni razziali e politiche divennero un incidente nella storia e nello spirito nazionale, meglio rappresentati dalla Resistenza, stabilendo, di conseguenza, un antagonismo irriducibile tra il popolo italiano e il regime fascista. Questo atteggiamento autoassolutorio non rispondeva solamente ad esigenze di politica internazionale (separare le sorti dell’Italia da quelle dell’ingombrante ex alleato tedesco per evitare una pace punitiva da parte dei vincitori), ma anche ai bisogni di natura psicologica di un Paese che, dovendo iniziare una difficile opera di ricostruzione, intendeva farlo senza il peso di uno scomodo passato, caratterizzato da lacerazioni e da molte pagine oscure.

Molti studi hanno evidenziato la necessità per i Partiti antifascisti di una legittimazione politica; questi, consapevoli dell’adesione popolare al regime, del carattere minoritario della Resistenza e delle sue caratteristiche anche di guerra civile, avrebbero evitato di chiamare l’Italia ad una drastica redde rationem con il passato per non dissestare la società e minare il loro consenso elettorale, rivendicando, invece, l’idea di una generale ostilità degli italiani al fascismo e presentandosi come rappresentanti di un popolo privo di colpe, protagonista di una vittoriosa guerra di liberazione nazionale sotto la leadership antifascista. La promozione di questa narrazione del passato fascista, e della Resistenza come mito fondante della Repubblica unita all’altro mito fondante, il fascismo come parentesi nella storia italiana, non ha riguardato soltanto le forze politiche di sinistra desiderose di ottenere una autolegittimazione politica[4], ma anche le forze moderate interessate a cancellare il coinvolgimento del popolo italiano, soprattutto quello delle sue élite politiche ed economiche, con il regime, addebitando tutte le colpe su Mussolini e i suoi più stretti accoliti, per favorire una transizione politica non traumatica, garantita da un blando processo di epurazione[5].

La stampa rappresenta un ambito di ricerca prezioso, poiché, riflettendo le dinamiche politiche e culturali della società contemporanea ed anche le rappresentazioni collettive dell’identità nazionale, offre la possibilità di analizzare come, nell’immediato dopoguerra, si formasse la memoria della deportazione e la sclerotizzazione di stereotipi e mitologie. Gli storici che si sono occupati dell’atteggiamento dell’opinione pubblica nell’immediato dopoguerra sono concordi nel registrare il silenzio della stampa nazionale sul coinvolgimento degli italiani nella deportazione e nello sterminio degli ebrei. Tuttavia, questa rimozione assume caratteristiche e sfumature dissimili, soprattutto se analizziamo giornali diversi per impostazione, storia e pubblico di riferimento, come il “Corriere della Sera”, rinato come il “Corriere d’Informazione”, “L’Unità” e “Il Giornale di Vicenza”, organo del Comitato di Liberazione Nazionale.    

È interessante iniziare questo studio proprio dall’ultima testata menzionata, “Il Giornale di Vicenza”, poiché in due articoli furono trattati argomenti solitamente elusi dalla stampa nazionale, quali la politica antisemita del regime fascista e la Risiera di San Sabba.

Il primo articolo fu pubblicato nella spalla della prima pagina nell’agosto del 1945[6], a firma di Attilio Graziani, in occasione del settimo anniversario della pubblicazione su “Il Giornale d’Italia” del Manifesto Razzista redatto da Giovanni Preziosi. Le considerazioni di Graziani prendevano le mosse da prima della promulgazione delle Leggi razziali, quando Mussolini aveva garantito ai capi delle comunità israelitiche l’inesistenza della questione ebraica: “L’uomo che in tutta la sua vita solo una volta mantenne fede alla promessa, quando dichiarò che sarebbe stata fatta tabula rasa della vita civile, ricevendo a Palazzo Venezia i capi delle Comunità Israelitiche italiane aveva dato loro atto del perfetto lealismo degli ebrei connazionali e nei suoi colloqui con Emil Ludwig aveva ribadito che tra noi e loro non esiste una questione ebraica”.

Ma “nell’estate del 1938, il vecchio ciurmatore, mutando, come sempre, gabbana con la faccia tosta di un giocoliere da piazza, si piega agli ordini di Berlino e bandisce la campagna antisemita. Sotto l’assurdo pretesto della cosiddetta difesa della razza, colui che fra le più clamorose amanti aveva avuto un’ebrea, si fa assertore delle criminose dottrine che, falsando la storia e la biologia, richiamano il più fosco medioevo e ricalcano Norimberga. Vicenda indegna di un popolo civile”. Dalle parole del giornalista emergeva chiaramente la condanna della politica razziale del regime, indegna di un popolo civile che, tuttavia, era considerata un’imposizione dell’alleato tedesco, quindi, intrinsecamente estranea al popolo italiano. La storiografia più recente ha evidenziato come, tra il 1935 e il 1936, la “questione antiebraica” avesse assunto un’importanza notevole per la politica interna e Mussolini decidesse, senza alcuna imposizione e agendo allo steso tempo da stimolo e da mediatore all’interno del gruppo dirigente del Partito, di risolverla dando al Paese una moderna politica antisemita.

Ben prima della Legislazione razziale contro gli ebrei del 1938, il regime fascista aveva attuato provvedimenti razzisti e segregazionisti verso le popolazioni delle colonie considerate inferiori[7], quindi, le diatribe pubbliche di Mussolini contro il razzismo tedesco devono essere correttamente riferite al fatto che “questo era contro tutti e tutto e al suo mancare di senso di equilibrio”[8], non certo al suo considerare ineluttabile una ferrea gerarchia fra le razze. Inoltre, in Italia sussistevano radici culturali su cui impiantare una politica di discriminazione antisemita[9], tra le quali il tradizionale antigiudaismo cattolico[10], i filoni di antisemitismo all’interno delle scienze biologiche e antropologiche nazionali che furono a fianco del regime nell’avallare la svolta razzista[11]. La dittatura fascista vide la possibilità che queste radici potessero fornirgli quella propulsione totalitaria che il nazismo sembrava aver trovato nell’ideologia razzista della Volksgemeinschaft[12].

L’articolista continuava soffermandosi sul Manifesto degli scienziati razzisti, definito Manifesto razzista che aveva profuso intorno agli ebrei “i germi del rancore e dell’odio”, trasmettendo un messaggio per cui ci si doveva guardare da loro, “che sono una razza e un popolo di parassiti tra i popoli che li ospitano, accentratori e monopolizzatori delle ricchezze accumulate con fatica altrui, disgregatori e dissolvitori, nemici della società e della famiglia”. Un messaggio che “annulla il patrimonio e il contributo di scienza, patriottismo e di operosità che gli ebrei hanno dato alla patria e al suo progredire”. La stampa fu investita dalla “vergognosa crociata”, attraverso “corifei sparsi nelle redazioni dei giornali dall’entusiasmo comandato”. Graziani continuava affermando, dopo aver fatto riferimento al susseguirsi dei provvedimenti legislativi emanati nel 1938, che fu il “razzismo codificato che elimina gli ebrei dalla vita nazionale, li segna e li sospinge verso il loro doloroso destino. (…)”. “La trafila delle restrizioni e degli inasprimenti” continuò per altri cinque anni, fino al 1943. Poi, il “30 novembre 1943, quando tutti gli ebrei o considerati tali, discriminati o no, in seguito al pronunciamento del congresso di Verona, che li qualifica stranieri e appartenenti a nazionalità nemica, sono assegnati ai campi di concentramento e spogliati dei beni che loro rimangono”. Il giornalista si riferiva al Manifesto di Verona, redatto dall’assemblea del Partito Fascista Repubblicano il 14 novembre, che al punto 7 considerava gli ebrei stranieri e quindi nemici; poi all’ordinanza del successivo 30 novembre, che stabiliva la confisca di tutti i loro beni e il loro internamento in campi di concentramento da costituirsi[13]. Guri Schwarz ha affermato che, in questo modo, “venendo privati della loro cittadinanza gli ebrei italiani persero l’unica, esile, garanzia legale che ne tutelava l’incolumità”.  Secondo l’articolista, il motivo alla base dell’ordinanza era il desiderio da parte del governo repubblichino di appropriarsi dei beni degli ebrei, “un vero assassinio a scopo di rapina”, a cui parteciparono non solo le SS tedesche, ma anche quelle italiane: “Le SS tedesche non rispettano neppure le pochissime eccezioni consentite dal Governo di Salò: durante il dominio dei teutoni e delle brigate nere gli ebrei patiscono tutte le vessazioni: dai campi di concentramento vengono deportati in Germania e in Polonia, trucidati a centinaia di migliaia con quella bestialità che rimarrà il marchio della maledetta razza tedesca per molte generazioni e forse per secoli. Gli altri, quelli miracolosamente sfuggiti alla cattura e mimetizzati nella campagna, attraverso rastrellamenti e rappresaglie vivono nel continuo terrore della morte sopra il loro capo”. Dal dicembre del 1943, allorquando furono allestiti i primi campi di concentramento italiani, si entrò nella fase di totale responsabilità italiana nella persecuzione fisica degli ebrei; “[…] gli arresti, gli internamenti, i sequestri dei beni rispondevano ad un preciso orientamento del governo fascista ed erano messi in atto dalla varie questure”[14]. In conclusione, l’articolista affermava che “il 28 aprile 1945 è per i superstiti la fine di sette anni di inenarrabili tormenti fisici e morali. La liberazione dal giogo tedesco e dalla tirannia fascista ridà agli ebrei i diritti civili e con essi il loro posto nel consorzio civile, riconoscendo ch’essi, primi tra tutti i perseguitati, hanno bene meritato la riscossa. Niente di nuovo, in quanto abbiamo voluto rievocare. Ma crediamo che ricordare si dovesse, nel settennale che ricorre. Ché, se si potesse dire di più, altro non resterebbe che a ciascuno e a chi scrive che narrare il proprio romanzo”. Il tema della Legislazione razziale del 1938 non apparve di frequente nella stampa italiana dell’epoca, tuttavia, è possibile notare come l’articolo riflettesse pienamente il contesto culturale e politico del tempo, che considerava le leggi razziali del 1938 come un’imposizione di Hitler, subita passivamente da Mussolini e dal suo entourage. È interessante notare come le responsabilità evidenziate dal contributo ricadessero su Mussolini e sulla “maledetta razza tedesca”.

L’articolo sulla Risiera di San Sabba fu pubblicato in occasione del ritrovamento di resti umani all’interno dell’edificio: “ingenti quantitativi di ossa umane calcinate sono venuti alla luce ieri, nell’ex pilatura di San Sabba durante la rimozione delle macerie della ciminiera fatta saltare dai tedeschi al momento della fuga”[15]. Il contributo proseguiva fornendo una breve descrizione del campo: “La pilatura del riso era stata adibita dalle SS durante i mesi dell’occupazione tedesca a luogo di raduno dei deportandi e a prigione politica ed era noto fin dai tempi dell’occupazione che vi si eliminavano e cremavano sistematicamente ebrei e partigiani”. La descrizione, seppur breve, riusciva a fornire un quadro abbastanza esauriente della polifunzionalità della Risiera che fungeva da prigione e luogo di tortura per gli oppositori politici, campo di sterminio nel quadro della Soluzione Finale e campo di transito verso i lager tedeschi.

L’articolo proseguiva descrivendo il ritrovamento dei resti: “Durante i lavori di sgombero anzidetti sono state rinvenute numerose ossa umane (scatole craniche, costole, tibie, ecc.) e nel canale sottostante il forno una massa di sostanza grassa che si ritiene residuo della cremazione. Accanto ai resti sono stati rinvenuti numerosi capi di vestiario, in parte lordi di sangue, che si ritiene aver appartenuto alle vittime. È stato trovato pure un sacco di cellulosa di quelli che si usavano comunemente per il trasporto di ossa umane. Testimoni oculari affermano che molti di tali sacchi sono stati visti uscire dalla “risiera della morte” sulle spalle dei militi delle SS che si recavano alla mattina presto o la sera all’imbrunire a vuotarli in mare dal moletto di San Sabba”. L’articolo non forniva ulteriori informazioni sul lager, che fu dimenticato per più di vent’anni, come ricorda Tullia Catalan: “all’epoca il Governo Militare Alleato fece quanto era in suo potere per rendere vani i tentativi di inchiesta sui crimini perpetrati in Risiera, spinto in ciò anche dall’atmosfera di contrapposizione politica e nazionale che caratterizzò la città in quegli anni. Con il ritorno all’Italia di Trieste, la Risiera di San Sabba continuò ad essere rimossa per circa un decennio dalla memoria collettiva della città: le uniche occasioni nella quali veniva riscattata dall’oblio erano le visite di esponenti dello stato e le celebrazioni di festività della Repubblica, quando vi affluivano da tutta Italia membri di associazioni di ex deportati e di partigiani. L’evento che mise fine a questa situazione ebbe luogo il 15 aprile 1965, con la promulgazione di un decreto presidenziale che conferiva all’ex lager la dignità di un monumento nazionale”[16].

Le altre notizie sulla Shoah riportate dal quotidiano erano estrapolate da corrispondenze di agenzie di stampa estere e da corrispondenze dai processi contro i criminali di guerra nazisti[17]. È interessante prendere in esame un articolo, tra quelli dedicati al processo di Norimberga, che concerneva specificatamente la persecuzione degli ebrei, Milioni di ebrei furono uccisi ma Himmler non era soddisfatto[18], ripreso anche da “La Nuova Stampa” lo stesso giorno, il 15 dicembre. L’articolo verteva esclusivamente sulla sorte degli ebrei dell’Europa orientale: nella prima parte si parlava di un piano tedesco per farli morire di fame: “[L’accusatore Wallace] ha ripreso la sua esposizione sulla campagna antisemita condotta dai nazisti. Egli ha prodotto una nuova serie di documenti tedeschi che rivelano l’esistenza di un piano per far morire di fame milioni di ebrei, non fornendo loro rifornimenti di viveri e proibendo loro di dedicarsi ai lavori agricoli, da cui avrebbero potuto trarre sostentamento. Fra questi documenti risulta un diario di Hans Frank. Dopo la promulgazione della nuova legge sull’alimentazione, nell’agosto del 1944, Frank scriveva: “abbiamo condannato a morire di fame un milione e 200.000 ebrei. Naturalmente anche se essi riusciranno in parte a sopravvivere a questo piano mirante ad affamarli, questa campagna fiancheggerà efficacemente altri provvedimenti contro di loro”.  Nella seconda parte, si trattava dei “furgoni della morte” e si nominavano i lager di Auschwitz e di Treblinka; “nel campo di concentramento di Auschwitz venivano uccisi in media 12.000 ebrei ungheresi al giorno: i forni crematori non erano sufficienti ad eliminare i cadaveri. Alcuni documenti si riferiscono alle atrocità commesse da Hans Frank nel campo della morte di Treblinka in cui venivano massacrati centinaia di migliaia di ebrei, fra donne e ragazzi.”

In conclusione, si fornivano anche delle cifre sullo sterminio: “da una esposizione sugli ebrei polacchi si deduce che furono soppressi nel solo periodo tra il 1942 e il 1944, oltre sei milioni di ebrei. Himmler non era soddisfatto di questa cifra, poiché, secondo lui, il numero sarebbe dovuto essere più alto”. Per quanto concerne quest’ultimo dato, è importante notare che, nell’immediato dopoguerra, esisteva una notevole confusione informativa, anche per ciò che riguardava il computo dei morti, che solitamente appare, in tutte le testate esaminate, inesatto e esagerato.

“Il Giornale di Vicenza” trattò apertamente della deportazione e dello sterminio degli ebrei, collegandoli sia alla politica razziale del fascismo sia al disegno del nazionalsocialismo, in base alle udienze del processo di Norimberga, dedicandogli, tuttavia, poco spazio. Questa linea editoriale può essere stata determinata anche dalle ridotte dimensioni della testata giornalistica, che imponevano una minore possibilità di scelta.

Di ben altre dimensioni e autorevolezza era depositario il “Corriere della Sera”, il più importante organo di informazione nel panorama del giornalismo italiano dell’epoca, tornato nelle edicole nella primavera del 1945 come “Corriere d’Informazione”[19], sotto la direzione di Mario Borsa[20].

Per una maggiore comprensione della linea editoriale del “Corriere”, è interessante soffermarsi su due articoli di fondo di Mario Borsa. Il primo articolo[21] invocava un coraggioso atto di sincerità da parte del popolo italiano nell’assumersi le proprie responsabilità per l’instaurarsi e il permanere della dittatura fascista, rendendo, altresì, omaggio alla lotta degli antifascisti, “nobili minoranze”, a lungo inascoltate dal popolo che aveva mostrato “supina acquiescenza al regime”. Due mesi dopo, in occasione dell’inizio della Conferenza di Postdam (17 luglio- 2 agosto 1945), il direttore cambiava opinione, sostenendo la richiesta del Governo Parri di un riconoscimento per l’Italia dello status di alleata a fianco delle Nazioni Unite[22], dato che l’Italia era degna di “tale posto per varie ragioni. Anzitutto sarà bene ricordare che il fascismo non è mai stato la sincera espressione della volontà del nostro popolo. Tutti coloro, e furono centinaia di migliaia, che nei venti anni della parentesi mussoliniana, hanno sofferto e in galera, e nelle isole, e nei campi di concentramento ed in esilio, sfidando le persecuzioni, la fame e la morte, stanno ad attestare che l’Italia liberale e democratica non era mai morta e che se non han potuto insorgere per risorgere fu solo perché una forza bruta la teneva sotto i piedi. Quando il 25 luglio 1943 questa forza bruta venne meno, vi fu una tale esplosione di esultanza che deve aver detto ai popoli d’Inghilterra, d’America e di Russia quale era stato ed era sempre stato il vero spirito intimo del nostro Paese”.

Secondo Mario Borsa, le “nobili minoranze” erano diventate schiere di “centinaia di migliaia” di antifascisti, espressione di “un’Italia liberale e democratica”, mai soggiogata dalla “forza bruta” della tirannide fascista.

Dal punto di vista politico, dopo la Conferenza di Postdam, durante le trattative sulla pace italiana, non ci fu un allontanamento da questa interpretazione, che assunse il carattere di posizione ufficiale condivisa, non solo dalle forze politiche di tutti gli schieramenti, ma anche da quelle culturali.

Dato il tenore del secondo editoriale non stupisce che il “Corriere d’Informazione” abbia dato, nel periodo esaminato, un notevole rilievo alle testimonianze degli ex deportati politici dei lager[23], tralasciando, si ritiene volutamente, ogni riferimento alla normativa antisemita fascista ed alle responsabilità dei funzionari e dei cittadini italiani nella Shoah. È difficile trovare nel “Corriere” dei riferimenti specifici allo sterminio degli ebrei. Infatti, si può osservare come i pochi riferimenti fossero inseriti in articoli che concernevano altri argomenti e in notizie brevi, riprese da scarne agenzie di stampa estere[24]. Anna Rossi-Doria osserva come nell’opinione pubblica del tempo sussistesse un’importante differenza tra i deportati politici e gli ebrei, poiché “i deportati politici furono considerati e si considerano fin dall’inizio i più simili ai partigiani, non solo perché molti di loro lo erano stati, ma anche perché comunque pagavano nel lager il prezzo, in qualche modo messo in conto, di una consapevole scelta antifascista compiuta in precedenza. Quest’ultima li differenziava sia dagli ebrei, che entravano nel campo di sterminio per ciò che erano, non per ciò che facevano, sia dagli internati militari, che erano prigionieri di guerra, anche se, come vedremo, privi dei diritti di questi. (…) Il deportato politico era stato un resistente, un protagonista attivo della lotta di liberazione, non una vittima: poteva quindi legittimamente rappresentare la deportazione. Non a caso il simbolo di quest’ultima fu per tutto il primo periodo Buchenwald, non Auschwitz”[25].

Prima che il giornalista Enrico Caprile seguisse come corrispondente il processo di Norimberga, il “Corriere” assimilava gli ebrei a tutti gli altri prigionieri dei lager, privando il genocidio ebraico della propria specificità[26].

Al processo di Lüneburg furono dedicati quattro articoli, ripresi dalle corrispondenze di giornalisti stranieri, focalizzando, quindi, l’attenzione sulle udienze più rilevanti[27]. È significativo il ricorrere di termini come massacratori, aguzzini, carnefici e belve nella descrizione degli imputati, e dei tedeschi in genere. A questo proposito, risulta di particolare interesse prendere in esame un articolo di Mario Borsa, in cui affermava che “preso individualmente il tedesco è persona assai rispettabile. […] Quando, infatti, il tedesco si immedesima nella sua ordinata organizzazione statale, l’individuo scompare: si livella, si uniformizza, si automatizza e diventa un maniaco a freddo che soffre di una malattia nazionale, secolare e, malgrado tante esperienze, apparentemente incurabile”[28]. Nella stampa italiana dell’epoca i tedeschi, soldati dell’esercito o membri delle SS, avevano sempre un’immagine ferina, priva di ogni caratteristica umana, tale raffigurazione ha rappresentato un’eredità della guerra colma di rancore e disprezzo.

Nei quattro articoli dedicati al processo alle guardie di Bergen Belsen non si riscontrano riferimenti alla Shoah, né nei titoli né nei contenuti. Infatti, anche se la descrizione delle condizioni di vita e di morte dei lager risulta particolareggiata, rimane assente un’analisi complessiva.

Quando nel dicembre del 1945 le udienze del processo di Norimberga iniziarono a concentrarsi sulle persecuzioni antiebraiche, Enrico Caprile ne parlò in due diverse corrispondenze. L’articolo del 14 dicembre, pubblicato in prima pagina, fu il primo che trattò apertamente della persecuzione, della deportazione e dello sterminio degli ebrei[29]. Nella prima parte del contributo, il corrispondente scriveva che “il processo di Norimberga entra nel vivo delle atrocità antisemitiche […]. Il giudice Dodd riprende l’esposizione delle atrocità naziste passando a parlare di quelle che hanno avuto carattere più orrendo e che sono costituite dai procedimenti di sterminio adottati nei campi di concentramento di ebrei e prigionieri”. Riportando gli stralci dell’udienza, Caprile tracciava alcuni quadri di quella che definiva “la terribile macchina della morte”, riconoscendo alla Shoah non più solo la status di “carneficina”, bensì di macchinazione strutturata. Caprile continuava descrivendo la sorte degli ebrei ungheresi: “Dodd ha una precisa documentazione sul numero degli ebrei deportati nei paesi occupati dalla Germania. Egli riferisce che dalla sola Ungheria a tutto il giugno 1944 furono deportati ben 475.000 ebrei. La quasi totalità di essi venne fatta passare attraverso le camera a gas sotto il diretto controllo di un alto gerarca della polizia di sicurezza nazista di nome Eichmann”. Il giornalista aggiungeva, inoltre, che “secondo precise risultanze rivelate dal giudice Dodd, l’Eichmann nella primavera del 1942 partecipò ad una conferenza a Berlino, nella quale fu deciso l’annientamento totale della popolazione ebraica dei territori occupati. L’ordine era rigoroso e tassativo”. La conferenza cui si riferiva il giornalista era la conferenza di Wansee, nella quale era stata ratificata e pianificata la soluzione finale.

Il giornale iniziava, quindi, a rendere pubblici i passaggi fondamentali dell’attuazione della Shoah. Il giornalista si soffermava poi sull’eliminazione delle prove, su ordine di Himmler, quando era chiaro che la guerra era persa: “la terribile macchina della morte funzionò spietatamente per tutto il periodo iniziale della guerra. Soltanto verso la fine Himmler cominciò ad avere paura della punizione degli Alleati che avevano lentamente rovesciato la posizione militare, e non volle più continuare nei procedimenti sommari. Anzi, fece di tutto per far sparire le tracce di ciò che aveva commesso e ordinò che le camere a gas e i forni crematori fossero fatti saltare in aria con della buona dinamite e che tutte le prove sparissero. Ma per fortuna della giustizia alleata l’ordine di Himmler fu eseguito solo per metà, per cui Eichmann e Kaltenbrunner continuarono i loro massacri e altre migliaia e migliaia di ebrei, deportati politici e prigionieri di guerra passarono attraverso gli orribili sistemi escogitati dalla perfida mente criminale dei nazisti”.

Caprile concludeva la corrispondenza con la descrizione di alcuni episodi raccapriccianti avvenuti nel lager: “il giudice americano cita anche fatti di una particolare repellente brutalità che il pubblico ascolta con il cuore sospeso. Nel Natale del 1944 a Flossenburg i detenuti di quel campo di concentramento furono costretti a assistere ad una scena macabra e rivoltante poiché il sentimento umano e quello religioso venivano offesi. Accanto alle forche dove penzolavano i cadaveri dei prigionieri condannati a morte erano posti grandi alberi di natale ornati con le tradizionali candeline. La luce di queste illuminava la scena tremenda nel baluginio dell’alba. 14 aviatori inglesi e americani salirono sulla forca, accusati di essere scesi con il paracadute all’interno della Germania per compiere atti di sabotaggio. Ma non ci si arresta soltanto a questo. Il giudice Dodd ha mostrato in udienza alcuni esemplari di pelle umana conciata a regola d’arte e che doveva servire per vari usi. La scoperta è stata fatta nei campi di Dachau e Belsen, ma non è impossibile che anche negli altri campi sia stato fatto lo stesso. Anche una testa rinsecchita di ebreo decapitato viene mostrata nell’aula. È una cosa talmente disgustosa che un brivido di gelo percorre la sala”.

La seconda corrispondenza di Enrico Caprile era incentrata sulla distruzione del ghetto di Varsavia[30].  Degna di nota la parte iniziale dell’articolo, in cui il giornalista affermava che “continua alla corte suprema l’esposizione delle persecuzioni naziste contro gli ebrei. È un argomento che è noto in tutti i principali suoi particolari al mondo civile. Ma l’accusa ha avuto il merito di recare nuove interessanti testimonianze per lumeggiarlo come si conveniva e per precisarne le storiche responsabilità”. Il giornalista concentrava la sua attenzione più che sul reale avvenimento della distruzione del ghetto, sul racconto di questo evento nelle pagine del diario di un generale delle SS, un certo Struth. Caprile poneva l’accento sulla malvagità delle SS tedesche: “nessuna considerazione umana e nessun sentimento di pietà trovarono posto nell’animo di quei carnefici in uniforme militare. Essi si accanirono contro uomini e donne ebree con tale odio che non è possibile comprendere e riferire. La scienza veniva posta al servizio della barbarie (…) uomini di questa fatta non potranno più essere rieducati. Essi impesteranno del loro male tutto il popolo tedesco e tutta l’Europa”.

Nel processo di Norimberga “fu non solo posta tutta l’enfasi sulle sole colpe tedesche- anzi, sulle colpe di un pugno di gerarchi nazisti- oscurando le responsabilità di altri regimi e altri popoli, ma fu anche distorta la percezione della natura storica peculiare delle politiche antisemite che maturarono in Europa ben prima dell’inizio del conflitto”[31]. In pratica, il processo fu parte di un meccanismo dell’oblio funzionale alla costruzione di una nuova identità europea. Tutto ciò era di aiuto all’Italia, sia dal punto di vista delle relazioni internazionali, sia da quello psicologico di un Paese che asseriva, a gran voce, la sua incolpevolezza, la sua purezza e la sua naturale vocazione antifascista.

Per completare questa analisi, è opportuno soffermarsi anche sull’organo di stampa ufficiale del Partito Comunista Italiano, “L’Unità”. Come è stato spesso notato, in questo periodo storico il genocidio degli ebrei fu in qualche modo assimilato non solo alla tragedia della deportazione degli oppositori politici e dei militari, ma alla più generale morte del senso dell’umanità e del ritorno della barbarie generata dal conflitto. Il quotidiano comunista, come la stampa antifascista in genere, si soffermò sulla sofferenza patita dai propri militanti nei campi d’internamento, senza riguardo per l’appartenenza religiosa o nazionale. Per l’antifascismo, il simbolo delle barbarie naziste non era Auschwitz, bensì Mauthausen e Buchenwald, i campi della deportazione politica. 

L’attenzione del giornale fu rivolta, quindi, quasi esclusivamente verso i reduci dai campi di concentramento di Buchenwald[32], di Dachau[33] e soprattutto di Mauthausen[34], dove erano stati internati, per la maggior parte, i prigionieri politici italiani, omettendo ogni riferimento al genocidio ebraico.

La sorte dei prigionieri italiani era un argomento che destava il profondo interesse del giornale, come dimostra l’editoriale di Velio Spano, pubblicato in prima pagina[35] poco prima della fine delle ostilità. Il direttore affermava che il problema dei prigionieri italiani in Germania, con l’approssimarsi della fine della guerra, sarebbe divenuto uno dei più pressanti, ponendo importanti interrogativi non soltanto nei confronti degli Alleati ma anche verso gli stessi italiani. È interessante notare come Spano tratti preliminarmente dei soldati italiani catturati. Infatti, affermava che era giunto il momento “in cui noi abbiamo il diritto e il dovere di domandare se ci sia oramai più ragione che i nostri prigionieri restino ancora in cattività. I prigionieri sono, è vero, dei soldati che hanno combattuto al servizio di Hitler e di Mussolini contro le Nazioni Unite; ma essi non sono in ciò differenti da tanti di quei soldati appartenenti alle divisioni italiane che si battono a fianco degli alleati e si battono secondo lo stesso insospettabile giudizio dei più autorevoli capi inglesi e americani, ammirevolmente”. L’articolo continuava parlando dell’accoglienza dei reduci, molto spesso ricevuti freddamente o con scherno; un simile comportamento era deplorato dal giornalista, che affermava l’esigenza di una maggiore vicinanza, poiché “un milione di nostri ragazzi preziosi per l’avvenire del Paese hanno sofferto in questi anni l’inferno in condizioni di vita assolutamente artificiali e quindi assai più penose di quelle che gli altri italiani hanno dovuto sopportare. Bisogna capire questa tragica verità. Bisogna quindi aprire le braccia a quelli dei quali invochiamo il ritorno e riprendere con essi il cammino in un’atmosfera di collaborazione fraterna senza la quale l’Italia non potrebbe trovare la propria unità e non potrebbe tracciare il proprio avvenire”. Anche un successivo articolo di fondo[36], pubblicato in prima pagina ma non firmato, ricalcava quello del direttore Spano.

È interessante soffermarsi su un articolo riguardante i reduci da Mauthausen, dal tono apertamente celebrativo, al cui interno era inserita un’intervista a Giuliano Pajetta, futuro deputato del Partito Comunista Italiano, ritornato dal campo di concentramento; “è tornato da noi Camen, Giuliano Pajetta, un vecchio garibaldino di Spagna e galeotto di Pétain e abbiamo voluto chiedergli ancora di Mauthausen. Ancora racconti di strage e di bieca ferocia, ma anche un raggio di vita. Là dove gli uomini hanno sofferto e son morti, la fede non è stata spenta del tutto, nessun aguzzino ha potuto impedire ai nostri fratelli di sentirsi degli uomini, dei compagni”[37]. Nonostante le torture inflitte, tra le quali a Mauthausen erano famosi i “193 gradini del supplizio”, “in questi campi da inferno è esistita un’organizzazione politica, si è lavorato, si è discusso, si sono reclutati nel nostro partito i migliori di quelli che tenevano duro”. Giuliano Pajetta descriveva, dunque, l’origine della sezione del Partito all’interno del lager; i primi a tesserne le trame furono i prigionieri cecoslovacchi, seguiti poi dalle altre nazionalità, fino a formare una sorta di Internazionale Comunista nel lager, poi allargatasi per accogliere anche internati di altra convinzione politica, come socialisti, cattolici e monarchici. Questo comitato allargato si occupava prima di tutto dell’assistenza agli internati, poiché “bisognava vivere e salvare delle vite. Sottrarre ai magazzini e distribuire, fare che i pacchi venissero distribuiti e nessuno ne fosse privo. Giunsero una sola volta dalla Croce Rossa e il comando decretò che ai russi non toccasse niente. Allora, affrontando la morte, si passò di baracca in baracca e da ognuno degli altri affamati si raccolse del cibo, perché i russi, i più affamati del campo, avessero la loro parte di cibo e di solidarietà”. Poi, il lavoro politico all’interno del lager, “il campo di Mauthausen ebbe le sue Gap e le sue Sap”.

Gli uomini della baracca venti non furono degli “spettri rassegnati”. “Che le vittime del terrore hitleriano non fossero degli spettri rassegnati lo dice la tragica storia degli uomini della baracca venti. Era un centro di eliminazione, lì si doveva morire, il trattamento infernale del campo sarebbe stato per quelli della baracca una liberazione. Erano ufficiali superiori e commissari russi, paracadutisti slovacchi, ufficiali tedeschi e francesi. Dovevano morire ma vollero combattere. Attaccarono il corpo di guardia a scarpate, che non avevano altro mezzo, accecarono le sentinelle con gli estintori degli incendi, poi passarono un muro di tre metri con una barriera elettrificata, uccisero ancora altre guardie. Cinquecento uomini fuori, liberi. Liberi fino a quando le mute delle SS si scagliarono all’inseguimento. Allora 400 furono catturati e trucidati. I superstiti disarmarono ancora una batteria antiaerea e si sparsero per il paese a piccoli gruppi. I partigiani più temerari fra quanti che in Europa si batterono per la libertà”. Essi rappresentavano, dunque, la prova che “la vicenda del lager non è solo di angoscia disperata, ma anche di fede in un mondo migliore, che ha dato agli uomini, nell’inferno, la forza di resistere e di combattere, che ce li ha restituiti minati nel fisico ma col desiderio di lottare ancora. È la fede che ha sostenuto i martiri di Mauthausen nelle segrete e nelle camere a gas. È una fede che nella vittoria e nella pace non possiamo tradire”.

Le uniche informazioni sulla Shoah furono fornite in modo scarno durante i processi di Lüneburg[38] e di Norimberga[39]. I titoli e i temi scelti dal giornale per descrivere le inaudite violenze perpetrate ai danni degli ebrei e degli altri perseguitati sembravano avere la funzione di impressionare, più che informare il lettore.

La tendenza della stampa antifascista, e della stampa in generale, ad equiparare le vittime della persecuzione razziale a quelle della persecuzione politica portò in secondo piano la specificità dell’Olocausto. È importante evidenziare che tale fenomeno fu molto articolato. Infatti, deve essere contestualizzato all’interno della più generale tendenza delle opinioni pubbliche europee a rimuovere la memoria di quella vicenda, e soprattutto, il consenso o la complicità di ampi settori delle società nazionali alle politiche di persecuzione e sterminio degli ebrei[40].

I primi tentativi di riflessione sulla Shoah si svilupparono all’interno e in coerenza con il cosiddetto “paradigma antifascista”, ossia con quella più generale rappresentazione, addolcita e rassicurante, dell’esperienza vissuta dagli italiani durante il fascismo e la guerra[41]. Gli stessi ebrei italiani, desiderosi di essere nuovamente accettati nella collettività, finirono spesso per accettare gli stereotipi proposti dalla retorica antifascista[42].

 

 

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Note

[1] L. Picciotto Fargion, La liberazione dai campi di concentramento e il rintraccio degli ebrei italiani dispersi, in M. Sarfatti (a cura di), Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, Giuntina, Firenze 1998.

[2] La citazione è tratta dalla relazione del 29 agosto 1943 di Padre Tacchi Venturi al Cardinale Maglione, Segretario di Stato Vaticano, in Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, vol. IX, Le Saint Siège et le victimes de la guerre, Città del Vaticano 1975, p. 459.

[3] G. Schwarz, Ritrovare se stessi. Gli ebrei nell’Italia post fascista, Laterza, Bari-Roma 2004, p. 8.

[4] Cfr. P. G. Zunino, La Repubblica e il suo passato. Il fascismo dopo il fascismo, il comunismo, la democrazia: le origini dell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2003, p. 215 e pp. 283 sgg.

[5] Cfr. G. Oliva, L’alibi della resistenza, Mondadori, Milano 2003, pp. 67-81.

[6] Attilio Graziani, Sette anni di razzismo, “Il Giornale di Vicenza”, 14 agosto 1945.

[7] Cfr. D. Franceschi, La politica della razza nelle colonie italiane negli anni del fascismo, http://www.storico.org/italia_fascista/politica_razzacolonie.html, gennaio 2012.

[8] Cfr. Benito Mussolini, Teutonica, “Il popolo d’Italia”, 26 maggio 1934.

[9] Cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità persecuzione, Einaudi, Torino 2000.

[10] Cfr. G. Rigano, Storia, memoria e bibliografia delle leggi razziste in Italia, in Leggi del 1938 e cultura del razzismo. Storia, memoria, rimozione, a cura di M. Beer, A. Foa, I. Iannuzzi, Viella, Roma 2010, pp. 205-208.

[11] G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Il Mulino, Bologna 1998; G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, Il Mulino, Bologna 2010; R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze 1999; F. Cassata, Molti, sani e forti: l’eugenetica in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2006.  

[12] Cfr. M. -A. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, Il Mulino, Bologna 2007.

[13] Il 30 novembre il Ministro dell’interno dispose con “l’ordine di polizia” N°5: a) l’arresto di tutti gli ebrei […] a qualunque nazionalità appartengano e il loro internamento in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati; b) il sequestro (misura avente carattere provvisorio) di tutti i loro beni, mobili ed immobili, in quali sarebbero stati successivamente confiscati (misura definitiva) e destinati a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni nemiche; c) l’adozione di una speciale vigilanza di polizia nei confronti di quei figli di matrimonio misto che nel quinquennio precedente erano stati classificati di razza ariana. Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale per la demografia e la razza, Divisione affari generali e riservati, Massime (parte non riordinata), R. 9, b. 80, fasc.19, ministro dell’interno a capi delle province, 30 novembre 1943.

[14] L. Picciotto Fargion, voce Deportazione degli ebrei dall’Italia, in W. Laqueur, A, Cavaglion (a cura di), Dizionario dell’Olocausto, Einaudi, Torino 2004, p. 207.

[15] Anonimo, Atrocità naziste. La risiera della morte. Nella pilatura di riso di san sabba, a Trieste, le SS eliminavano ebrei e partigiani e ne cremavano le salme nel forno, “Il Giornale di Vicenza”, data non reperibile per cattivo stato di conservazione della copia. 

[16] T. Catalan, voce Risiera di San Sabba, in Dizionario dell’Olocausto, op.cit., pp. 639-642.

[17] Cfr. Anonimo, I campi di concentramento progettati da Goering, “Il Giornale di Vicenza”, 27 giugno 1945; Anonimo, Le reliquie dei martiri del campo di Maidanek in un museo di Varsavia, “Il Giornale di Vicenza”, 31 luglio 1945; Anonimo, I reduci di Buchenwald affermano la responsabilità di Pétain, “Il Giornale di Vicenza”, 1 agosto 1945; Anonimo, I carnefici di Belsen furono giustiziati, “Il Giornale di Vicenza”, 15 dicembre 1945; Anonimo, Chiamata in causa di Horty nel processo di Budapest, “Il Giornale di Vicenza”, 21 dicembre 1945.   

[18] Anonimo, Milioni di ebrei furono uccisi ma Himmler non era soddisfatto, “Il Giornale di Vicenza”, 15 dicembre 1945.

[19] Cfr. G. Licata, Storia del Corriere della Sera, Rizzoli, Milano 1976, pp. 396-419.

[20] Per la figura di Mario Borsa si rinvia al profilo tracciato da Luigi Lotti, Mario Borsa, in Dizionario biografico degli italiani, vol. XIII, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1971, p. 109.

[21] Cfr. Mario Borsa, Sincerità, “Corriere d’Informazione”, 22 maggio 1945.

[22] Cfr. Mario Borsa, Postdam e l’Italia, “Corriere d’Informazione”, 17 luglio 1945.

[23] Cfr. Anonimo, Uno di Mauthausen: il regime di inumano lavoro, di fame, di brutalità cui erano sottoposti 2000 internati italiani, “Corriere d’Informazione”, 29 maggio 1945: Anonimo, Dai campi della morte. A colloquio con Padre Giannantonio, “Corriere d’Informazione”, 1 giugno 1945; Anonimo, Mauthausen nei ricordi di un medico, “Corriere d’Informazione”, 3 giugno 1945.  

[24] Cfr. Anonimo, Milano intorno ai martiri di Fossoli, “Corriere d’Informazione”, 25 maggio 1945; Anonimo, Himmler si è ucciso, “Corriere d’Informazione”, 25 maggio 1945; Anonimo, Gli ebrei tedeschi non vogliono tornare in Germania, “Corriere d’Informazione”, 19 giugno 1945; Anonimo, Carneficina di ebrei olandesi compiuta da criminali tedeschi, “Corriere d’Informazione”, 27 giugno 1945; Anonimo, Quisling accusato dai reduci dei campi tedeschi della morte, “Corriere d’Informazione”, 24 agosto 1945; Anonimo, Il carnefice Meisinger arrestato in Giappone, “Corriere d’Informazione”, 7 settembre 1945; Anonimo, I massacratori di Belsen davanti al tribunale, “Corriere d’Informazione”, 18 settembre 1945.

[25] A. Rossi-Doria, Memoria e storia: il caso della deportazione, Rubbettino, Catanzaro 1998, p. 38.

[26] Cfr. Anonimo, La punizione dei criminali nazisti. Una commissione internazionale presidierà all’opera di giustizia, “Corriere d’Informazione”, 29 maggio 1945; Anonimo, 5 milioni di polacchi periti nel campo di Oswieciem, “Corriere d’Informazione”, 5 giugno 1945; Anonimo, Gli aguzzini di Belsen, 18 novembre 1945.

[27] Cfr. Anonimo, I massacratori di Belsen davanti al tribunale, “Corriere d’Informazione”, 18 settembre 1945; Anonimo, Gli aguzzini di Belsen, 18 novembre 1945; Anonimo, Il carnefice Meisinger arrestato in Giappone, “Corriere d’Informazione”, 7 settembre 1945; Anonimo, La belva di Buchenwald catturata in Baviera, “Corriere d’Informazione”, 30 giugno 1945.

[28] Cfr. Mario Borsa, Ad redde rationem, “Corriere d’Informazione”, 30 maggio 1945.

[29] Cfr. Enrico Caprile, Il metodo Kugel per lo sterminio dei prigionieri, “Corriere d’Informazione”, 14 dicembre 1945.

[30] Cfr. Enrico Caprile, Come venne spianato il ghetto di Varsavia, “Corriere d’Informazione”, 15 dicembre 1945.  

[31] Cfr. G. Schwarz, Ritrovare se stessi, op. cit., p. 127.

[32] Cfr. Anonimo, Gli orrori di Buchenwald, “L’Unità”, 19 giugno 1945; Anonimo, Gli orrori di Buchenwald descritti da un reduce di Modena, “L’Unità”, 7 ottobre 1945.

[33] Cfr. Anonimo, Tornano in Italia 2500 internati di Dachau. I nostri fratelli devono ricevere una degna accoglienza, “L’Unità”, 1 giugno 1945; Anonimo, 2500 internati di Dachau in viaggio verso l’Italia, “L’Unità”, 2 giugno 1945; Anonimo, Dall’inferno di Dachau un reduce racconta, “L’Unità”, 4 giugno 1945; Anonimo, L’odissea degli italiani prigionieri dei tedeschi, “L’Unità”, 21 giugno 1945.

[34] Cfr. Anonimo, Siamo stati a Mauthausen, “L’Unità”, 26 maggio 1945; Anonimo, Uno di Mauthausen: il regime di inumano lavoro, di fame e di brutalità cui erano sottoposti 2000 internati italiani, “L’Unità”, 29 maggio 1945; Anonimo, IL penoso viaggio dei primi reduci da Mauthausen, “L’Unità”, 12 giugno 1945; Anonimo, I comunisti italiani di Mauthausen salutano il capo del P.C.I, “L’Unità”, 17 giugno 1945; Anonimo, Compagni nell’inferno di Mauthausen, “L’Unità”, 23 giugno 1945.

[35] Velio Spano, E i prigionieri?, “L’Unità”, 20 aprile 1945.

[36] Cfr. Anonimo, Quelli che tornano, “L’Unità”, 17 maggio 1945.

[37] Cfr. Anonimo, A Mauthausen la ferocia non ha spento nei compagni la fede, “L’Unità”, 30 maggio 1945.

[38] Cfr. Anonimo, Nel campo di Belsen c’erano mucchi di cadaveri, “L’Unità”, 20 settembre 1945.

[39] Cfr. Anonimo, Sei milioni di ebrei morti ma Himmler non era soddisfatto, “L’Unità”, 15 dicembre 1945.

[40] Cfr. E. Collotti, Il razzismo negato, in Id. (a cura di), Fascismo e antifascismo. Rimozioni, negazioni, revisioni, negazioni, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 355-375;

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[41] Cfr. F. Focardi, La guerra della memoria. La resistenza nel dibattito pubblico italiano dal 1945 ad oggi, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 4 ss.  

[42] Cfr. G. Schwarz, Identità ebraica e identità italiana nel ricordo dell’antisemitismo fascista, in La memoria della Legislazione e della persecuzione antiebraica nella storia dell’Italia repubblicana, Franco Angeli, Milano 1999, pp. 29-43; Id., Gli ebrei italiani e la memoria della persecuzione fascista, 1945-1955, “Passato e Presente”, n. 47, 1999, pp. 109-130; E. Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 28-31.

Casella di testo

Citazione:

Daniela Franceschi, La Shoah attraverso il “Corriere d’Informazione”, “L’Unità” e “Il Giornale di Vicenza” (1945), "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VI, 1, gennaio 2017

url: http://www.freeebrei.com/anno-vi-numero-1-gennaio-giugno-2017/daniela-franceschi-la-shoah-attraverso-il-corriere-dinformazione-lunite-il-giornale-di-vicenza-1945

        e avrebbero anche i barbari provato pietà.

       

        di Mario Luzi, Mondadori, Milano 1989.

 

 

 

La morte è un Mastro germanico.