Il 2017 è
stato un anno all’insegna dell’ebraismo nelle sale cinematografiche. Tre
pellicole in particolare si sono distinte per riferimenti impliciti o espliciti
a Israele, alla cultura ebraica o alla storia degli ebrei. Il più significativo
è “Libere, Disobbedienti e Innamorate”, ambientato a Tel Aviv. Un film
coraggioso, anche in considerazione del fatto che la regista è Maysaloun
Hamoud, araba palestinese alla sua prima esperienza. Le protagoniste sono tre
ragazze arabe che si trovano a condividere da coinquiline lo stesso
appartamento a Tel Aviv: una cristiana, una musulmana osservante e una
musulmana laica. Si intrecciano le vicende delle tre giovani, alle prese con le
loro contraddizioni e le tentazioni di una città viva e libertina come Tel
Aviv, in contrasto con le imposizioni dogmatiche della cultura delle
protagoniste, soprattutto le due religiose osservanti.
Certo, non sono mancate le velate critiche ad Israele, ampiamente previste
considerando la regia, ma la pellicola affronta senza alcuna remora il tema
delle donne arabe, le loro privazioni e l’emancipazione possibile solo in
Israele. Un paese che probabilmente nel film diretto dalla Hamoud appare meno
accogliente nei confronti delle minoranze di quanto effettivamente sia, ma di
fatto permette l’integrazione di tre ragazze la cui cultura sarebbe distante
anni luce da quella di una città come Tel Aviv.
Il film è interessante non solo perché denuncia con coraggio (anche se meno di
quel che servirebbe, ma ci possiamo accontentare) la condizione critica e
delicata della donna araba (musulmana, ma anche cristiana), ma anche perché
permette di conoscere Israele attraverso gli occhi di una regista palestinese.
Contraddizioni, certo, difficoltà di integrazione anche. Ma senza dubbio emerge
un paese libero in cui anche tre donne arabe possono scoprire una vita diversa
da quella imposta dai loro stessi condizionamenti sociali. E se ad ammetterlo è
una regista araba, non può che essere un fattore positivo.
Il tema della donna è ovviamente centrale anche in “Wonder Woman” della
regista “Patty” Jenkins, campione di incassi negli Usa. La supereroina semidea
dei fumetti Dc Comics è interpretata sul grande schermo dall’israeliana Gal
Gadot, ex soldatessa Idf. L’attrice ha espresso in passato idee e posizioni di
vicinanza e solidarietà nei confronti di Israele, condannando duramente Hamas e
il terrorismo palestinese. La sua Wonder Woman è un personaggio immaginario,
tuttavia non si può restare indifferenti ai continui riferimenti
all’emancipazione femminile proposti dalla pellicola. La Wonder Woman di Patty
Jenkins e Gal Gadot, per restando una semidea dai poteri pressoché smisurati, è
un personaggio che non perde mai la propria femminilità. Non è forse il
messaggio più importante del film, che si conclude con un appello a non
arrendersi mai e a credere sempre nell’amore (banale, forse, ma reso
particolarmente bene), tuttavia non può sfuggire allo spettatore: si può essere
donne e non rinunciare alla femminilità anche sconfiggendo pregiudizi e
imposizioni sociali sui ruoli di genere.
Una donna può essere forte, indipendente, bastare a se stessa rimanendo tale,
senza per questo assumere caratteristiche maschili. Non è certo necessario
possedere i superpoteri di Wonder Woman, che pure nel film deve avvalersi
dell’aiuto di persone (uomini e donne) tutt’altro che invincibili ma disposte a
fare tutto ciò che è nelle loro possibilità.
Il tema dell’emancipazione femminile e della parità tra sessi non è tabù in
Israele, che da questo punto di vista può dare lezioni persino a buona parte
dell’Europa: forse non è un caso che sia proprio un’attrice israeliana ad
interpretare il ruolo di Wonder Woman. E’ invece tabù in tanti, troppi, paesi
arabi, tra cui quelli che hanno vietato o provato a boicottare la pellicola
diretta da Patty Jenkins. Ufficialmente, il motivo è il “sionismo” dell’attrice
Gal Gadot, rea come detto di aver difeso con convinzione le ragioni di Israele.
Forse, però, è proprio il messaggio di emancipazione femminile a non convincere
paesi come Libano e Tunisia che si sono scagliati contro Wonder Woman.
Infine, “The
war – Il pianeta delle scimmie”, diretto da Matt Reeves, terzo capitolo di
una fortunata trilogia cinematografica, può essere visto come un omaggio
all’ebraismo e alla parabola degli ebrei. Specificando che le scimmie sono “i
buoni” e sgombrando ogni possibile equivoco su riferimenti con accezione
negativa, l’odio e i pregiudizi da parte degli umani nei confronti delle
scimmie ricordano drammaticamente la retorica antisemita. L’interpretazione del
film è piuttosto libera e lo spettatore può vederci riferimenti anche ai
migranti, tuttavia appaiono chiari almeno un paio di riferimenti: la parabola
di Mosè e soprattutto il richiamo alla Shoah, quando le scimmie vengono
rinchiuse dagli uomini in veri e propri campi di concentramento. Il finale,
poi, sembrerebbe persino eloquente: l’arrivo delle scimmie, perseguitate, in
una terra promessa nella quale poter vivere finalmente in pace. Eretz Israel?