Giuseppe Veltri, Lezioni talmudiche (2)

Free Ebrei, V, 1, aprile 2016

Lezioni Talmudiche

2. Il silenzio

 

di Giuseppe Veltri

Riflettere sul silenzio è una necessità linguistica e filosofica. Il silenzio assolve linguisticamente una funzione simile a quella delle pause tra le note musicali, senza le quali non sarebbe possibile percepire chiaramente l’armonia dei suoni; allo stesso modo la condizione d’essere della parola è il silenzio potenziale che la circonda, la avvolge.

Ciò che segue non deve essere interpretato come una nota di letteratura e speculazione mistica, ma come un saggio di filosofia scettico-pragmatica. Attraverso questa espressione s’intende la filosofia del dubbio metodico, ovvero quella speculazione volta a cogliere le domande del reale, senza per questo avere la pretesa di offrire risposte definitive. Il valore assiomatico di ogni risposta definitiva rende tale risposta indimostrabile e in quanto tale dogmatica. La non dimostrabilità di una tesi può aver come conseguenza logica la falsificazione tramite negazione, nel momento in cui la si esprima come tale: ad esempio l’affermazione “Dio esiste” è assiomaticamente vera, come vero è anche il suo contrario, essendo entrambe empiricamente e metafisicamente non dimostrabili o logicamente deducibili al di là del dubbio.

È importante parlare del silenzio poiché esso è ampiamente presente nella letteratura, nel pensiero filosofico, ma anche nelle altre discipline come la psicologia e la pedagogia; esso ha un ruolo di primo piano specialmente nella logopedia, scienza che si occupa della cura dei disturbi del linguaggio, come per esempio il mutismo, l’assenza della lingua e la presenza del silenzio. Secondo questa disciplina medica il silenzio non può essere definito semplicemente come una condizione di assenza della parola, ma di incapacità di comunicare con il mondo circostante. Si tratta di un’insufficienza che porta ad una patologia reale, l’autismo, caratterizzato dalla perdita di un contatto immediato con l’ambiente esterno.

Al silenzio appartiene anche una dimensione giuridica, del resto come le parole producono determinati effetti nella sfera della giurisprudenza, così anche l’assenza di esse, ovvero il silenzio, assume in questo ambito un suo specifico significato. È noto a tutti l’adagio “chi tace acconsente”, nato probabilmente nella prassi legale nei casi in cui non si poteva o non si voleva dare l’assenso. Anche il Talmud nel trattato Voti (Talmud di Babilonia, Nedarim 72a) discute l’ipotesi di considerare il silenzio come un atto di consenso dal punto di vista legale. La moderna legislazione, per esempio quella italiana, vanta casi in cui il silenzio è stato accolto come assenso, tuttavia per evitare abusi che conducessero a un’appropriazione o ad un esercizio indebito dell’autorità, le disposizioni in materia sono state ben definite e severamente applicate.

Nella musica il silenzio è condizione d’essere dell’armonia dei suoni, come si è già accennato nelle prime righe di questo studio, ma può anche essere rivelatore di altro. Al compositore statunitense John Cage si deve il concepimento di un brano sperimentale di ininterrotto silenzio, valido per qualunque strumento musicale. Lo spartito dettava ai musicisti di non suonare i loro strumenti per quattro minuti e trenta tre secondi (il nome del brano rimase noto come 4’33’). Questo esperimento sonoro ha svelato la varietà della materia acustica sotterranea alla musica stessa: il volontario tacere della musica prima dell’esecuzione ha lasciato spazio ai rumori prodotti dall’ambiente, così da mostrare che il silenzio non è mai un puro vuoto, un puro nulla, ma è sempre una forma di pieno d’essere. Attraverso il brano composto da John Cage la diversità dei suoni che in segreto accompagna abitualmente ogni esibizione musicale assume quasi il valore di una “voce silente” che non cessa mai di parlare.

  Il silenzio costituisce una questione di primaria importanza nell’ambito della teologia, esso alloggia nei misteri della teodicea, quali sono i momenti afasici di Dio, il silenzio del divino sulla storia e sull’individuo. Sebbene la parola greca ἀφασία (afasìa) indichi l’assenza di espressione verbale, tuttavia la teologia classica e quella contemporanea hanno interpretato questo termine come “decisione” divina di non parlare, di non intervenire. Si crede comunemente che il silenzio di Dio sia motivato da qualcosa, oppure che sia semplice espressione del suo disinteresse per la storia umana. Si è pensato anche che sia conseguenza del libero arbitrio che egli ha concesso all’uomo, oppure ancora che Dio come presupposto, sia solo un assioma, baluardo di alcune religioni nella lotta per il potere. O forse, come si accennerà brevemente più avanti, non esiste a ciò una risposta.

Ma parlare del silenzio divino equivale a una forma di “blasfemia” per l’uomo religioso che pratica ogni giorno un intimo dialogo con Dio. Lo studioso Oliver Leaman invita a riflettere proprio su questo aspetto presente in molte tradizioni religiose: l’idea di un Dio che può essere invocato nel momento del bisogno e che assiste costantemente l’uomo nella sua vita[1]. La possibilità di assidue domande e risposte attraverso cui si costruisce la relazione con il divino, è lontana da quella vissuta dall’Ebraismo: Dio nella religione ebraica è un Dio che osserva silente la storia umana, poiché fiducioso di aver condensato tutte le sue parole nella legge donata al suo popolo[2]. L’elemento della distanza di Dio dal mondo congiunto con quello dell’osservanza rigorosa delle leggi, ha prodotto nell’immaginario di critici e commentatori il concetto di un Dio freddo e indifferente alla vicenda umana. Il dramma di un Dio irraggiungibile, con il quale non è possibile istaurare alcuna forma di comunicazione, e che si esprime solo nei suoi comandamenti, è quanto per esempio Hegel, nelle lezioni berlinesi di filosofia della religione, rimproverava alla tradizione ebraica: «questo ordinare, al suo culmine estremo, è però estrema durezza e può diventare irreligioso»[3]. Il filosofo tedesco attraverso un’analisi speculativa del fenomeno storico della religione sosteneva che solo il Cristianesimo, attraverso la figura di Gesù, ricomponeva il dialogo tra i due mondi.

La tradizione cabalistica fa del silenzio una dimensione puramente divina: l’atto della creazione è stato descritto nello Zohar (I, 16a-17a) come il passaggio dal silenzio della mente di Dio all’esistenza. Il silenzio originario in cui si svolge la creazione è un silenzio assoluto, che raccoglie Dio in se stesso e in cui solo Dio è. Il valore sacro delle lettere della lingua ebraica consiste proprio nell’interrompere il silenzio divino per completare la creazione permettendo all’esistenza di emergere. Con il silenzio l’uomo religioso ha iniziato a rispondere a Dio, entrando quasi in una sfera mediana tra i due mondi: è la decisione di accogliere la presenza di Dio, rinunciando momentaneamente alla possibilità di dare voce ai propri pensieri. Si parla in questo caso di silentium sacrum, il silenzio che esprime l’assenza di una decisione, ovvero la rinuncia a pronunciarsi. La pratica del silenzio nella storia delle religioni ha assunto un profondo significato mistico: il silenzio in questo caso contribuisce alla realizzazione dell’esperienza dell’uomo in Dio, ovvero la sua assimilazione con la divinità. L’unione mistica con Dio si attua nell’intelligenza umana attraverso un’astrazione dal mondo esteriore che il silenzio aiuta a compiere: prima nell’atto di tacere al cospetto della divinità, poi attraverso la partecipazione ad essa, al suo essere inesprimibile.

Il silenzio accompagna l’entrata nella sfera del sacro. Per la mente religiosa una serie di circostanze sono considerate manifestazione del sacro e perciò fondanti del suo essere. Nella terminologia odierna e nella storia delle religioni il sacro è:

 

un elemento della struttura della coscienza e non un momento della storia della coscienza. L’esperienza del sacro è indissolubilmente legata allo sforzo compiuto dall’uomo per costruire un mondo che abbia un significato. Le ierofanie e i simboli religiosi costituiscono un linguaggio preriflessivo. Trattandosi di un linguaggio specifico, sui generis, esso necessita di un’ermeneutica propria[4].

 

Questo concetto, espresso da Mircea Eliade, non è del tutto applicabile alla storia della religione ebraica, secondo la quale il sacro non è altro che un aspetto dell’essere santo, e come tale sta a significare l’appartenenza al Dio d’Israele che ha riscattato il suo popolo dalla schiavitù d’Egitto per renderlo un popolo libero e a lui soltanto consacrato. La nozione di sacro/santo porta con sé l’idea della separazione e inaccessibilità del divino, concezione che insieme all’idea di obbedienza, qualificano la peculiarità della storia ebraica. Il popolo ebraico accetta i comandi divini non perché sono moralmente veri, comprensibili o ragionevoli, ma perché divini: il valore di essi ha fondamento nel loro status di precetti. Nonostante tali azioni, comandi, precetti oppure decisioni, siano talvolta assolutamente incomprensibili, essi vengono accettati incondizionatamente dal popolo. Nel silenzio sacro si rinnovano dunque le condizioni della santità del Dio d’Israele, la separazione e l’obbedienza. Non a caso la tradizione rabbinica si sofferma sul tema del silenzio commentando l’episodio, divenuto emblematico, di Aronne che assiste alla morte dei suoi figli. Nella tradizione rabbinica Aronne non è solo il sacerdote, ma anche l’interprete, la bocca di Mosè[5], presentato nella Bibbia come colui che non sa parlare. Più precisamente il primo è un rabbi e il secondo un meturgeman, traduttore della dottrina del suo maestro. In Levitico 10,1-2 viene trasmesso l’episodio, orrendo per un padre, della morte dei figli di Aronne, inceneriti dal fuoco divino davanti ai suoi occhi:

 

I figli di Aronne Nadav e Avihu presero ognuno il proprio braciere, vi posero il fuoco e sopra vi gettarono l’incenso. Si avvicinarono offrendo a Dio un fuoco strano che non era stato ordinato loro. Un fuoco uscì dalla presenza di Dio e li divorò e morirono davanti a Dio. Mosè disse ad Aronne: “Questo è ciò che Dio mi ha riferito dicendo: Io sarò santificato da coloro che mi si avvicinano e di fronte a tutto il popolo sarò glorificato”. Ed Arone rimase silenzioso.

 

        Come emerge da questa vicenda il silenzio sacro è il silenzio che garantisce i confini tra le due realtà, quella del divino, ineffabile, incontrollabile e quella dell’umano. Rompere questo silenzio significa mettere in discussione tutta la costruzione del passato e del presente. I figli di Aronne hanno preso l’iniziativa di eseguire non un atto semplice, ma un atto tradizionalmente sacerdotale: l’offerta dell’incenso, che avvicina il mondo umano a quello divino. L’azione da loro compiuta era indicativa della loro carica e la pena divina diviene dunque proporzionale all’atto: come hanno bruciato l’incenso, così sono bruciati dal fuoco divino. L’eventuale protesta di Aronne, avrebbe implicato la messa in discussione della distanza tra il popolo che santifica e colui che è santificato, ovvero di quell’ordine sacro e sociale che separa le sfere.

 Il silenzio sacro è una componente significativa anche nella liturgia. Nel silenzio veniva custodito il segreto della pratica religiosa, come era il caso delle antiche religione misteriche, le quali esigevano che le modalità delle cerimonie sacre non venissero diffuse al di là della cerchia degli iniziati. Nel silenzio si svolgeva la liturgia ebraica antica: non è storicamente chiaro se i Salmi fossero proclamati entrando o uscendo dal tempio (come riferiscono i titoli stessi dei Salmi), in ogni caso non esistono Salmi che sarebbero stati cantati nel Tempio e durante l’offerta. Lo stesso vale anche per la celebrazione dello Yom Kippur, priva di parole fino alla benedizione finale del popolo. Le offerte, che nel Tempio venivano eseguite regolarmente e nei giorni speciali, si svolgevano in un rigoroso silenzio. La scena del fariseo e del pubblicano fa ampia mostra di questo elemento della liturgia ebraica. Questo aspetto non è stato sufficientemente posto in evidenza, poiché prevaricato dal più noto stereotipo consolidato dalla chiesa cristiana a partire da queste due figure: il fariseo nel Tempio si gloria dell’osservanza meticolosa dei precetti, il pubblicano tace, consapevole di non corrispondere alle prerogative della legge. Contrariamente al primo, il secondo riceve la giustificazione divina. La critica, che da due mila anni investe l’ebraismo, ha avuto quasi sempre di mira il Tempio con i suoi culti e i farisei con le loro leggi. Si dimentica spesso che Gesù voleva rimanere ebreo e, come afferma nel suo programma, non aveva intenzione di eliminare nessuna componente della legge. La scena del fariseo e del pubblicano non è da interpretare nei termini di un attacco contro la religione ebraica, ma contro la presunzione e l’orgoglio dell’uomo colto che crede di essere differente e superiore all’altro.                                                                                                                                                                                                     

Il tacere dinnanzi a Dio è ricorrente nella tradizione ebraica biblica: non c’è da meravigliarsi che il Salmo (65,2) reciti: «Per te il silenzio è lode». Il valore di questo tacere, di questo silenzio invocato nel salmo sopracitato, è stato interpretato dalla letteratura rabbinica in chiave prettamente scettica: dalla realtà silente del culto e della preghiera ha origine e si è sviluppata la teologia negativa, cioè “l’impossibilità” di descrivere il divino. Secondo Rabbi Chanina risulta impossibile enumerare tutti gli attributi del divino, poiché ci si limita sempre ai soli elementi noti, dimenticando gli altri: il rabbino affermava che è come se si inneggiasse ad un re per il suo tesoro d’argento, dimenticando l’oro che possiede (Talmud Bavli, Berakhot 33b).

(da: Alcune considerazioni sulla sospensione del giudizio e il silenzio nella tradizione ebraica scettica [together with  Michela Torbidoni]. In Seconda navigazione, Omaggio a Giovanni Reale. Edited by  Roberto Radice e Glauco Tiengo [Milan: Bompiani, 2015): 745-757).

Note

[1] Cfr. O. Leaman, Silence and its significance in Jewish thought, «Materia Giudaica», XIII 1-2 (2008), pp. 91-96, p. 93.

[2] Ivi, p. 94.

[3] G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia della religione, A. Guida Editore, Napoli, 2008, vol. I, pp. 285-286.

[4] Mircea Eliade, Discorso pronunciato al Congresso di Storia delle religioni di Boston il 24 giugno 1968; secondo Wikipedia:  http://it.wikipedia.org/wiki/Sacro

[5] Cfr. G. Veltri, Eine Tora für den König Talmai, Mohr, Tübingen, 1994, p. 205.

Casella di testo

Citazione:

Giuseppe Veltri, Acini d'uva. Lezioni talmudiche (2), "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", V, 1, aprile 2016

url: http://www.freeebrei.com/anno-v-numero-1-gennaio-giugno-2016/giuseppe-veltri-lezioni-talmudiche-2