Claudia De Martino, I mizrahim in Israele

di Susanna Sinigaglia

Abstract

Susanna Sinigaglia reviews Claudia De Martino's essay on the "Mizrahim" in Israel and tries to uncover the reasons why the public opinion in Western countries disregards the question of the forced exodus.

Il tema del libro si svolge attorno allo svuotamento di popolazioni ebraiche, avvenuto nell’area mediorientale/nordafricana in seguito alla nascita d’Israele, alla loro emigrazione verso il neonato paese ed alla metamorfosi d’identità e status che le ha investite nella nuova patria. Terzo episodio grave che coinvolge gli ebrei in età moderna e contemporanea – dopo la cacciata dalla Spagna e la Shoah –, per quali motivi è ancor oggi tanto trascurato?

Ormai da vari anni le aree suddette sono sconquassate da sommovimenti e guerre che costituiscono un ulteriore ostacolo all’analisi di eventi che appaiono “datati”, lontani nel tempo; eppure quegli eventi continuano a rimandarci la loro eco. Grande merito di Claudia De Martino è averla ascoltata e avervi dedicato molta parte dei suoi studi di cui questo libro rappresenta l’esito più importante, basato sulla metodica ricerca di dati d’archivio e sulla consultazione delle opere di altri autori, soprattutto israeliani.

Claudia ha conseguito il dottorato in Storia sociale del Mediterraneo con una tesi sugli ebrei mizrahim (ossia originari dei paesi arabo-islamici) all’Università Ca’ Foscari di Venezia, istituzione che, assieme all’Unimed di Roma di cui Claudia De Martino è ricercatrice[1], ha sostenuto il progetto che ha dato vita al presente lavoro.

L’esodo in questione avvenne soprattutto nel giro di una manciata d’anni, ossia dal ’48 al ’52 con strascichi dal ’54 al ’56, nel ’67 e nel ’73: ovvero in coincidenza con le maggiori crisi fra stato israeliano e paesi circostanti.

Il libro ci mostra tuttavia che il processo di erosione culturale/crescente disagio di queste popolazioni aveva avuto inizio sin dal crollo dell’Impero ottomano. Poi l’arrivo sempre più consistente di ebrei sionisti in Palestina[2] e nelle maggiori città arabe, per attività sociopolitiche di proselitismo fra le comunità ebraiche locali già negli anni ’30 ma soprattutto all’inizio degli anni ’40, aveva innestato sentimenti di crescente nazionalismo-rivalsa nei leader e popolazioni arabe verso tali comunità, considerate sempre più spesso agenti fiancheggiatori dei sionisti; perciò, nemiche. Simili tensioni generarono vari episodi di violenza – con razzie e uccisioni in alcuni quartieri ebraici – che soprattutto alla fine della guerra, quando cominciò a trapelare la notizia dello sterminio degli ebrei d’Europa, ebbero grande impatto emotivo e crearono allarme. A completare il quadro delle forze che sospinsero queste popolazioni ad abbandonare i luoghi di origine, il bisogno del neonato Israele di ripopolare i territori conquistati nel ’48 e svuotati dei palestinesi. Oltretutto, si sospetta che i servizi segreti israeliani, già allora esistenti, si siano resi responsabili di attentati a sinagoghe in Iraq e di accordi sottobanco con i vari governi arabi per convincerli a lasciar partire i cittadini ebrei in cambio delle loro ricchezze e senza possibilità di ritorno.

Il libro analizza quindi la metamorfosi dell’identità culturale delle popolazioni in oggetto, da un “prima” dell’arrivo in Israele al “dopo”. Claudia De Martino indica un’interessante distinzione fra popolazioni ebraiche che abitavano le regioni costiere, di cultura sefardita levantina (che si era sviluppata in Spagna dal basso medioevo e poi si era diffusa nei paesi che si affacciavano sul Mediterraneo), e quelle che abitavano il retroterra continentale, con caratteristiche più arabo-islamiche. I leader sionisti, in maggioranza originari dell’Europa centrorientale (e perciò appartenenti all’ebraismo ashkenazita), poco sapendo delle differenze fra le varie comunità ebraiche mediorientali e nordafricane, le assimilarono in un unico cliché costringendole nello stesso tempo ad abbandonare i loro tratti caratteristici, a cambiare nome e lingua, anche perché tutto ciò che sapeva di “arabo” era considerato appartenente al campo nemico. Gli iracheni, gli yemeniti, gli egiziani, i siriani, i marocchini divennero così tutti indistintamente “mizrahi”, ossia ebrei provenienti da “Oriente”. Un cliché che, peraltro in aperta contraddizione con l'obiettivo cardine del sionismo teso al superamento della cultura diasporica e “all'assimilazione” delle varie popolazioni in un’unica identità – quella israelosionista –, si concretizzò nelle discriminazioni cui furono sottoposti fin dal loro arrivo in Israele gli ebrei “orientali”: dalla molto maggiore permanenza nei campi di transito rispetto agli omologhi di origine europea, alla loro collocazione definitiva in zone già abitate dai palestinesi e perciò esposte alle rappresaglie o in zone desertiche come il Negev, agli stessi programmi sanitari e percorsi scolastici resi complicati dall'obbligo della lingua ebraica. Il testo ci guida lungo il percorso accidentato dei mizrahim (plurale di mizrahi), da una condizione di completa passività e dipendenza ai tentativi di emancipazione attraverso le prime ribellioni e lotte per condizioni di vita migliori, con momenti addirittura rivoluzionari quando scesero in campo le Pantere nere israeliane, che si schierarono apertamente a favore dei palestinesi, fino alla vittoria del Likud nel 1977 che per la prima volta scalzò il Partito laburista dal governo. Da tale percorso accidentato, si può rilevare come possa essere mutevole l’identità mizrahi, la cui unica caratteristica peculiare e costante è l’intrappolamento – dal quale non riesce a districarsi – fra culture e ideologie di segno opposto.

Arriviamo così alla domanda cruciale con cui si era aperto questo breve saggio: come mai un fenomeno di simili proporzioni e risvolti drammatici (e che riguarda oggi più d’un terzo della popolazione israeliana) è stato tanto a lungo trascurato dall’Occidente? Il libro non ci propone una risposta univoca ma ci offre varie argomentazioni.

-      La presenza imprescindibile e incombente della Shoah ha monopolizzato per tanti anni l’attenzione dei paesi occidentali (e in ragione della quale anche la Nakba palestinese è stata a lungo ignorata).

-      La promulgazione nel ’50 della “Legge del ritorno” ha reso gioco facile a chi voleva presentare quella che è stata in molti casi una vera e propria fuga come il “ritorno” nella patria biblica.

-      Le responsabilità d’Israele, che legano la Nakba a quest’esodo stesso, che nessun leader israeliano vorrebbe mai far venire alla luce.

Per quanto mi riguarda vorrei aggiungere la complicità per lo meno di alcuni dei paesi arabi in tali vicende, che tuttora nemmeno i palestinesi nel discorso pubblico vogliono ammettere.

Oggi resta il ruolo che agli ebrei mizrahi è toccato nella costruzione del regime israeliano, un sistema etnocratico di apartheid in cui i vari strati della popolazione vivono in condizioni di diritto diverse secondo la loro collocazione geografica, appartenenza etnica, nazionale e di classe. E anche se una parte degli ebrei mizrahi ormai è ben integrata nella società e in qualche modo l’ha condizionata, come osserva l’autrice, costringendola ad accettare nel suo seno alcuni elementi della cultura del “nemico”, tuttavia non sarei così ottimista: la rimozione delle cause dell’esodo e i conflitti irrisolti con le proprie origini alimentano l’ostilità verso gli arabi (ovviamente identificati soprattutto con i palestinesi) che sembra infatti esponenzialmente aumentata in Israele negli ultimi anni. Perciò nonostante certe abitudini alimentari e musiche popolari arabe siano ampiamente diffuse nel paese, ho il sospetto che questa sia l’ennesima operazione di esproprio da parte israeliana, più che d’integrazione.

Note

[1] Attualmente collabora anche al progetto Euspring all’Università Orientale di Napoli.

[2] Bisogna tenere conto che il sionismo è un movimento nato in Europa a seguito dei tanti eventi che vi si succedettero a partire dalla Rivoluzione francese a quella bolscevica, passando per la nascita degli stati nazionali e l’avvento delle prime forme di società democratiche. Ovviamente, gli ebrei dei paesi arabi erano rimasti piuttosto estranei a tali eventi, e perciò non avevano la percezione che quello sionista fosse un progetto che li riguardasse. Anzi, vi vedevano – e giustamente – un pericolo per la propria convivenza in seno alle loro società.

Casella di testo

Citazione:

Claudia De Martino, I mizrahim in Israele (Recensione di Susanna Sinigaglia), "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", V, 1, maggio 2016

url: http://www.freeebrei.com/anno-v-numero-1-gennaio-giugno-2016/claudia-de-martino-i-mizraim-in-israele