Claudio Vercelli, Il negazionismo

"Free Ebrei", III, 2, ottobre 2014

Abstract

Claudio Vercelli's essay is a successful attempt to reassess the problem of negationism in front of the Jewish Holocaust (Shoah) through the analysis of the personal and political paths taken by the most important Negationists.

Un nuovo saggio dello storico-pubblicista piemontese Claudio Vercelli ricostruisce la storia del negazionismo storiografico e tenta di fornire alcune chiavi di lettura sulla sua genesi e sul suo rapporto con il revisionismo storiografico. L'A., studioso ormai noto agli addetti ai lavori di storia dell'identità ebraica contemporanea, autore di importanti saggi per Giuntina, Carocci e Laterza, ha chiuso in qualche modo il cerchio fra i suoi interessi legati alla storia della Shoah e quelli legati alla storia del conflitto israelo-palestinese attraverso il fenomeno del "negazionismo", forma suprema (e ultima?) dell'antisemitismo contemporaneo. Rispetto agli ultimi lavori dedicati alla persecuzione delle minoranze (come il saggio Triangoli viola presso Carocci), è riscontrabile un deciso e felice miglioramento nello stile e nella prosa dello storico piemontese, più fluida e più leggibile, in direzione della migliore divulgazione anglosassone.

La tesi di questo volume divulgativo è contenuta nel sottotitolo stesso: storia di una menzogna. L'A. non usa mezzi termini per esprime qual è la sua posizione nel dibattito storiografico e politico sorto e sviluppatosi intorno al negazionismo: si tratta di una teorema politico dichiaratamente antiebraico, antisemita, antisionista e antisraeliano. Nell'introduzione l'A. ha dichiarato di aver utilizzato un approccio sociologico durkheimiano, vale a dire di aver voluto studiare il negazionismo come fatto sociale, cioè "nella sua chosité, nel suo insieme di autori, pensieri ed eventi che si impongono agli interlocutori e al grande pubblico, per poi letteralmente smascherarlo, obbligandolo a scendere al piano più concreto degli accadimenti storici la cui oggettività è l'obiettivo del suo attacco" (p. VIII). Riprendendo le parole dei suoi due numi tutelari (Pierre Vidal-Naquet e Georges Bensoussan), l'A. non ha voluto confutare una menzogna (non spiega, infatti, le “ragioni” dell'”affermazionismo” olocaustico) ma la connessione fra diverse verità (o pseudo-tali) che, nella narrazione negazionistica, hanno formato la menzogna della negazione. La narrazione controfattuale negazionista è "l'apoteosi della mitografia", una "storia" doppiamente traditrice" perché sostituisce al vero il finto e perché celebra la "morte" invece della vita (p. XI).

Il saggio di Vercelli è suddiviso in sei parti: definizione del negazionismo; il negazionismo nella Francia postbellica; il negazionismo negli Stati Uniti postbellici; il negazionismo in Italia; il negazionismo nel mondo arabo; il rapporto fra negazionismo e revisionismo. Il primo capitolo tenta di definire le linee guida della narrazione negazionista. Il negazionismo - osserva l'A. - "è il tentativo di negare recisamente che la Shoah, lo sterminio sistematico degli ebrei per opera dei nazisti, abbia mai avuto corso" (p. 7). Le stagioni del negazionismo sono almeno quattro: la prima (neonazista), volta a occultare i crimini del regime hitleriano (1945-1965); la seconda (economicistica), che ha introdotto le suggestioni neonaziste in un apparato concettuale marxista (1965-1978); la terza (tecnica), che fonda i suoi giudizi di valore sull'analisi e la rilettura polemica delle fonti (1978-1990); la quarta (islamista), che si basa sull'uso dello strumento informatico per delegittimare lo Stato di Israele. I negazionisti non negano l'antisemitismo nazista, ma ne rifiutano l'esito criminale discutendo il ricorso alle camere a gas e ai forni crematori, la dimensione quantitativa e l'intenzionalità e la progettualità. In questo modo sostengono questi assiomi: la maggior parte degli ebrei morì di inedia e malattie; gli ebrei costituivano una comunità "nemica" e come tale fu trattata in tempo di guerra; gli ebrei morti nel Lager furono poche centinaia di migliaia; non esistette una politica nazista di sterminio (quindi niente “soluzione finale della questione ebraica”). A sostegno della loro tesi affermano che i resoconti sulla Shoah sono un falso a fini propagandistici e che le testimonianze dei sopravvissuti o dei prigionieri di guerra sono inattendibili.

Vercelli dedica ampio spazio alla "patria" del negazionismo, cioè la Francia postbellica. Dopo aver accennato alla nascita del revisionismo isolazionista nel mondo anglosassone, che tendeva ad assolvere gli Imperi centrali dalle accuse di aver causato la Prima guerra mondiale, l'A. si sofferma sul caso francese, vero laboratorio dell'ideologia fascista, fucina di organizzazioni eversive antidemocratiche e terreno di scambio tra destra e sinistra, nazionalismo e socialismo negli ultimi due secoli. Le figure di spicco del negazionismo francese sono quelle di Paul Rassinier e Robert Faurisson. Il primo, ex partigiano deportato, anarchico e fervente anticomunista, inizia la sua attività pubblicistica alla fine degli anni Quaranta, partendo da un generale assolvimento delle responsabilità nazista per poi rivolgersi, nei primi anni Sessanta, al tema dello sterminio degli ebrei. Il secondo, docente di storia all'Università di Lione, compie un deciso passo in avanti: adotta un criterio "obiettivo" e pseudoscientifico per dimostrare l'inesistenza delle camere a gas. Il metodo di Faurisson - secondo l'A. - consiste nel legare l'esistenza delle camere a gas, nello svincolare il negazionismo dalla sua origine fascista e nell'offrire un discorso "scientifico" sull'impossibilità dello sterminio, concentrandosi sulla presunta impraticabilità materiale. La ricezione dell'opera di Faurisson ha avuto successo nella sinistra antistalinista di Pierre Guillaume, Serghe Thion e Roger Garaudy, sostenitrice di un'equazione fra fascismo e antifascismo sotto l'usbergo del capitalismo e inauguratrice dell'uso politico della Shoah in chiave antisionista. Lo spostamento dal neonazismo all'islamismo radicale di fine millennio si deve a tre processi: la persecuzione giudiziaria del negazionismo sul suolo europeo, la sovraesposizione mediatica e la ricerca di un puntello antisionista nel mondo arabo e islamico.

Dopo aver analizzato il laboratorio francese, Vercelli si sposta sul mondo anglosassone. Partendo dall'opera The Hoax of the Twentieth Century di Arthur Butz (1976), l'A. ripercorre le tappe dello sviluppo del negazionismo sul suolo americano. Contrariamente al mondo francese, qui il negazionismo è rimasto ancorato per lungo tempo alle sue radici di estrema destra. L'attività pubblicistica fu portata avanti dall'Institute for Historical Review di Torrance (California), grazie all'attività di Willis Allison Carto e David McCalden. All'attività di quest'istituto, spesso collaterale ad altre forme di negazionismo (vedi quello “nero” di Malcolm X e dei suoi eredi), si è affiancato negli anni Novanta il cosiddetto "negazionismo tecnico" di Ernest Zündel e Fred A. Leuchtener, volto a negare l'esistenza delle camere a gas attraverso l'uso disinfestatorio del Zyklon B. Accanto a questo negazionismo "scientifico" si pone l'attività storiografica di David Irving, autore di Hitler's War (1977), incline dapprima a deresponsabilizzare Hitler dalla "soluzione finale" poi a negare l'esistenza stessa dell'Olocausto.

Il negazionismo italiano, definito dall'A. una "dottrina senza padri", ha avuto una storia differente. Partendo da un iniziale disinteresse per il tema dello sterminio nazista e per l'enfasi sulla specificità italiana nella genesi del fascismo, fu solo negli anni Sessanta che iniziò ad affacciarsi la tesi dell'insostenibilità economica dello sterminio nella destra neofascista tramite il Gruppo di Ar di Franco Freda. Alla fine degli anni Settanta apparvero le opere di Cesare Saletta e Carlo Mottogno. Il primo, di formazione marxista bordighiana, inizia nei primi anni Ottanta a riflettere sulle posizioni di Rassinier. Saletta, pur condannando senza attenuanti il Terzo Reich, compiva analoga operazione per l'antifascismo: la negazione della Shoah diventava la "promessa indispensabile per la critica di un'ideologia, l'antifascismo, ritenuta reazionaria e antiproletaria" (p. 129). Dalla Nuova Destra di Marco Tarchi esce la figura di Carlo Mattogno, attivo nella pubblicistica neofascista italiana e poi collaboratore con l'Institute for Historical Review americano. L'opera principale di Mattogno (Il mito dello sterminio ebraico, 1985) sintetizza le migliori tesi negazioniste: confuta le testimonianze, nega l'esistenza dello sterminio attraverso il rinvio alla documentazione cartacea, banalizza gli aspetti peggiori del regime di terrore nazista e fascista, polemizza contro la "storiografia". Il sionismo appare come la ramificazione manifesta del "giudaismo internazionale" volto ad "americanizzare" il mondo.

La quarta stagione del negazionismo si apre negli anni Novanta con l'accusa contro lo Stato di Israele. L'accusa, non nuova, rinverdisce il mito del complotto ebraico traslandolo nel mondo dell'islamismo radicale. Il negazionismo nel mondo arabo si è sviluppato, però, quasi del tutto autonomamente rispetto a quello occidentale: nel secondo dopoguerra è solo un elemento di corredo nel rifiuto dell'esistenza dello Stato di Israele; negli anni Cinquanta e Sessanta si assimila il ruolo di Israele a quello di un'entità imperialista; negli Settanta si avvale delle analisi "obiettive" europee (Faurisson); dagli anni Ottanta diventa parte integrante della mitografia olocaustica antisraeliana. Molti autori arabi non sono negazionisti per razzismo, ma compiono una rilettura selettiva e ideologizzata della storia nelle fonti occidentali. Esempi emblematici sono il lavoro dottorale di Abu Mazen del 1982 (The Connection between the Nazis and the Leaders of the Zionist Movement) e il volume di Muhammad Nimr Madani del 1996 (Gli ebrei sono stati bruciati nelle camere a gas?). Il negazionismo arabo vanta un "buon insediamento nel giudizio di senso comune" (p. 155). Oltre alla libellistica e a web, echi di negazionismo si trovano nel cinema degli anni Ottanta e Novanta, dove l'Olocausto assume il ruolo di "icona occidentale". Il connubio tra i resti dell'antimperialismo occidentale e il terzomondismo arabo ha portato alla denuncia della globalizzazione come prodotto del "cosmopolitismo giudaico" (p. 167).

Dopo aver analizzato l'evoluzione del negazionismo nei vari contesti postbellici, l'A. si sofferma sul nesso fra negazionismo e revisionismo storiografico. I due discorsi, pur percorrendo strade parallele, appaiono spesso complementari: se il revisionismo appare come una corrente storiografica conservatrice, il negazionismo è la sua anima "movimentista"; mentre il revisionismo è la "faccia rispettabile" del mutamento di paradigma storiografico, il negazionismo è il suo "braccio armato"; mentre il revisionismo tenta di storicizzare e relativizzare il nazismo, il negazionismo tenta di giustificarlo e/o falsificarlo; mentre il revisionismo rilegge criticamente i dati storici aggregati e li reinterpreta con un'impostazione a tratti filosofica, il negazionismo mira allo scientismo tout court. L'A. difende a spada tratta la scientificità dei "veri" storici contro le versioni dei negazionisti, che, nella loro pretesa di "verità", finiscono per cadere nell'esatto contrario: falsificare e manipolare la realtà storica.

La conclusione dell'A. è una disamina del rapporto fra negazionismo e cospirazionismo nella rete degli ultimi anni. "L'ultima stagione del negazionismo sposa completamente il sodalizio tra potere e sapere. Contestare la 'menzogna di Auschwitz' vuol dire denunciare il potere ebraico; mettere a nudo l'egemonia sionista sul mondo implica lottare contro le ingiustizie di cui essa si alimenta; adoperarsi contro le ingiustizie, oltre ad essere di per sé nobilitante, è la premessa per costruire un nuovo mondo, ispirato a ideali spirituali e creativi" (p. 186). Obiettivo dei negazionisti è quello di assumere lo "statuto vittimario" ribaltando le accuse di razzismo agli ebrei, per due motivi: avanzare richieste di riconoscimento e risarcimento pubblico, delegittimare i destinatari delle proprie accusare, trasformandoli in carnefici. Un conto è contestare l'uso politico dell'Olocausto da parte del governo israeliano e degli ebrei di tutto il mondo, altro conto - conclude l'A. - è mettere in discussione la ragione storica dello Stato di Israele.

Il saggio di Vercelli dimostra una profonda consapevolezza del problema storiografico e identitario dell'essere ebrei, frutto di un lavoro introspettivo e documentario pluridecennale: partendo da un'anima socialista e libertaria, l'A. ha cercato di coniugare la sua ebraicità con l'esigenza di salvaguardare il patrimonio umano e umanistico della sua affiliazione comunitaria e culturale. Il volume contiene una documentata ricostruzione delle tesi negazioniste nei suoi diversi ambiti spaziali e nella sua evoluzione temporale. Fornisce utili strumenti di lettura per capire come il problema dell'antisemitismo non sia affatto sopito e come lo Stato di Israele non lo abbia affatto risolto. Restiamo perplessi sull'approccio sociologico avanzato dall'A., che ha risposto solo alla domanda qualitativa del fatto sociale ma non alla sua domanda quantitativa: quanto e come le teorie negazioniste circolano nei rispettivi contesti nazionali e linguistici? Pur essendo ai margini dai discorsi ufficiali o dalle cittadelle del potere, come sopravvivono? Chi li finanzia? Quali visioni politiche si nascondono? Perché tali visioni politiche hanno successo? In caso contrario, perché sopravvivono ancora? Perché la rete ha dato così tanto spazio al negazionismo e ha ridotto il peso della "storicità"?

Il confronto tra revisionismo e negazionismo appare un po' troppo schiacciato sulle posizioni di un'ortodossia storiografica "vera" contrapposta a una reinterpretazione mitopoietica del passato (eo ipso conservatrice). Reinterpretare i “fatti” del passato (ben altra cosa dagli eventi: i primi sottendono interpretazioni, i secondi assunzioni) è lecito e auspicabile, perché talora questi "fatti" non sono mai stati accertati oppure sono stati consapevolmente ignorati per ragioni politiche. La necessità di una "base comune" di eventi è il presupposto dell'analisi e dell'interpretazione storica. Il negazionismo "nega" l'esistenza di certi eventi, mentre fornisce un'interpretazione di alcuni (e solo alcuni) fatti, di per sé opinabili e discutibili. La narrazione negazionista è debole perché politicizzata, cioè rivolta a una battaglia ideologica e non alla scoperta della "verità" del passato. Sul termine “verità” l'A. mostra una certa reticenza, come se temesse che la storiografia scientifica (di cui è rappresentante) non debba puntare a ricostruire la verità ma solo a mostrare la problematicità e la complessità del passato. L'esplosione della rete ha imposto una nuova considerazione della storiografia e l'abbandono della via "pedagogica" alla conoscenza del passato: pur in tutta la sua complessità e contraddittorietà, il percorso dell'essere umano nel tempo va costruito partendo da certe "verità", da "eventi" e non da semplici "fatti".

Casella di testo

Citazione:

Claudio Vercelli, Il negazionismo (recensione di Vincenzo Pinto), "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", III, 2, ottobre 2014

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