Sigrid Sohn, Aharon Appelfeld: uno scrittore yiddish scrive in ebraico

"Free Ebrei", VII, 1, febbraio 2018

Aharon Appelfeld: uno scrittore yiddish scrive in ebraico[1]

a cura di Sigrid Sohn

In memoria di Aharon Appelfed e di Alessandra Cambutzu, che amavo tanto lo yiddish e lo parlava anche molto bene

Rechov Alharizi a Gerusalemme è una specie di strada senza uscita. In mezzo a quella grande, affollata città si trova proprio quella stradina silenziosa. Quasi nessuna macchina la percorre, si sentono gli uccelli cantare e si vedono le vecchie case gerosolimitane di Rehavya.

Un tempo, di solito qui viveva la vecchia élite: professori, ministri etc. I tempi cambiano e oggi ci vivono anche nuovi ricchi, ma ciò nonostante vi è rimasta una sorta di piacere, gioia. La strada Alharizi, con i suoi alberi, fiori, piante e uccellini, ha un aspetto quasi di campagna. Forse non è un caso che lo scrittore Aharon Appelfeld abiti qui. La sua casa è proprio coperta da alberi e piante e mi ha ricordato per un po’ la sua vecchia abitazione nella Bucovina, dove nacque nel 1932.

Quella stradina silenziosa nel mezzo della rumorosa città di Gerusalemme è adatta allo scrittore anche per un altro verso: la sua silenziosità da noi in Israele è sinonimo di eccentricità; è difficile seguire i suoi nobili discorsi tra i fischi – anche in un ambiente letterario. E ancora: quando si vede lo scrittore sembra che la sua silenziosità copra molto rumore. Proprio come la strada a Gerusalemme. Perché raramente s’incontra un’infanzia così difficile.

La madre di Appelfeld fu fucilata quando lui aveva solo otto anni. Dopodiché, assieme a suo padre fu cacciato dalla casa a Černivci in Transnistria, dove presto fu separato dal padre. Da solo, ancora un bambino, vagò nei boschi con dei criminali ucraini. Di queste terrificanti vicende non si nota traccia alcuna sul suo volto e l’eco non è udibile nei suoi discorsi. Il tutto è trasformato alla sua maniera: silenzioso, puro e chiaro. Come non fosse mai avvenuto, Rechov Alharizi è il luogo giusto per scrivere un altro libro, in aggiunta a suoi 45 libri scritti in passato.

 

In uno dei suoi libri “Sipur khaim” (Storia di una vita, scritto nel 1999) scrive che dopo la visita dei nonni da bambino, a otto anni, ha capito “di essere muto. Non tenterò mai di parlare con Dio, perché non conosco la sua lingua.” Qual è invece la sua lingua infantile?

 

Quando visitavo il nonno nei Carpazi, ero solito andare insieme a lui nella sinagoga. Con loro, i nonni, di solito parlavo yiddish. Ma con i miei genitori parlavo tedesco. Per me, bambino, la divisione era chiara. Anzi, i genitori parlavano con me in un tedesco purissimo senza influssi affinché, e Dio non voglia, lo yiddish non influisse sul mio tedesco. A loro parere tedesco era il mondo moderno – cultura, musica, letteratura – yiddish le cose vecchie, superate. Non hanno negato la loro natura yiddish ma non la coltivavano affatto.

 

Questo significa che avevo radici sia nello yiddish sia nel tedesco. Ma durante gli anni della guerra ho perso tutto. Sono arrivato in Israele nel 1946, un ragazzo di 13 anni senza alcuna lingua. Parlavo l’ucraino e il russo, ma insieme erano niente di niente. Dovevo imparare l’ebraico, non avevo scelta. A quel tempo stavo nell’azienda agricola di Rachel Init Ben Zvi. Più tardi abitai in diversi kibuzzim e lì ho imparato un vocabolario minimo in ivrit.

 

Quando sono entrato nell’esercito, nel 1950, l’ufficiale mi correggeva gli errori. E quando, due anni più tardi, sono uscito, ero ancora confuso: non qui e non là, niente yiddish e niente ivrit. Un po’ alla volta ho capito che se volevo diventare uno scrittore yiddish dovevo imparare lo yiddish nuovamente da zero. Così mi sono iscritto all’università, alla facoltà di yiddish. 

 

 

Va inteso come un’opposizione all’essere Sabrah?

 

Non era una questione di opposizione. Avevo capito che si trattava di un’altra sorte e di un altro carattere. L’essere Sabrah non mi appartiene. Non era nel Palmach o nella resistenza. Niente da fare. Avevo invece il privilegio che il mio professore, il prof. Dov Stan (Shtock = bastone), era il fondatore degli studi yiddish all’università ebraica. Per fortuna non molti studenti studiavano con noi, era quasi come una lezione privata. La maggior parte degli studi li abbiamo fatti andando a spasso. La lezione di Stan era associativa: mi ha fatto conoscere Perez, Mendele e Sholem Aleichem. Ma ho imparato lo yiddish non solo all’università, ero solito anche andare da solo a Meah Shearim – sentire lo yiddish e in più prendere parte a qualche lezione di Talmud: halachah o chassidut, oppure comprare un libro di preghiera.

 

Lei racconta e scrive che i suoi genitori erano ebrei assimilati. Forse lo yiddish è stato per lei come una risposta alla loro educazione, cioè come tornare alla lingua del nonno?

 

I miei nonni erano proprio chassidim, Sandeger chassidim. Ma sono stato con loro non più di otto anni. Il mio interesse per lo yiddish non deriva solo dall’ambiente in cui sono vissuto. A prescindere dal fatto che lo yiddish è un bella lingua, esso è anche parte della creazione spirituale del popolo ebraico negli ultimi mille anni. Se si vuole avere contatto con il mondo ebraico, si deve conoscere lo yiddish. È un mezzo per collegarsi alle correnti profane come i Bundisti e i comunisti, ma anche con i chassidim di allora, prima della shoah. Per questo motivo lo yiddish è diventato per me un simbolo dell’ebraismo. Ho capito inoltre che senza lo yiddish non è possibile diventare uno scrittore ebraico.

 

Cioè, lo yiddish è stato un mezzo per tornare indietro, una specie tshuve?

 

Non tornare indietro all’ebraismo, solo imparare cos’è l’ebraismo. Allora, negli anni cinquanta, devo ringraziare di avere conosciuto Dov Sdan e i suoi amici, i professori Gershom Sholem e Martin Buber. Erano incantati dai testi yiddish a prescindere dalle loro origini: cabala oppure Sabbatai Sevi. Lo yiddish faceva anche parte dei testi ebraici nei quali loro hanno trovato piacere. Una volta Buber mi ha detto che uno chassid grida nella sua preghiera “tate siser” (papà dolcissimo) e lui, Buber, aveva mai aveva sentito prima un tale appellativo. In nessuna cultura ci si rivolge a Dio con l’appellativo “dolcissimo”.

 

Quella volta ha iniziato a scrivere in ebraico?

 

Quella volta ho iniziato a cristallizzarmi come scrittore ebraico in ivrit. Non sono diventato uno scrittore di Tel Aviv come Nathan Altmann e Abraham Slonski per esempio, che hanno creato persino una cultura profana. A Gerusalemme era diverso, lì degli ebrei assimilati come Buber e Sholem volevano proprio avvicinarsi all’ebraismo. Questo mi piaceva e mi ha incantato. Loro hanno letto i miei primi racconti in ivrit e mi hanno incoraggiato.

 

È mai stato in un ambiente yiddish?

 

Ho avuto molta fortuna di conoscere, quando era un ragazzo di 26 anni, lo scrittore Leib Rochman. Da lui usavano venire scrittori yiddish di Israele e di tutto il mondo. Lì ho conosciuto Sutskever, Leivik, Opatoshu e altri scrittori di poemi.

 

Non sono riusciti a convincerla a scrivere in yiddish?

 

Sono stati contenti di vedere il mio interesse, ma hanno anche capito che non possiedo gli strumenti adeguati. Loro, gli scrittori yiddish di quel tempo, hanno imparato in uno cheder oppure in una scuola ebraica o anche in una yeshivah. E io non provengo dall’idioma yiddish. Io ho sentito lo yiddish durante la mia infanzia, ma lo yiddish non è la mia madrelingua, è una lingua che ho imparato.

 

Forse è possibile non scrivere nella propria lingua madre?

 

È possibile, ma solo se non si ha un’altra lingua dalla quale si è sradicati.

 

Dunque, perché ivrit e non yiddish?

 

Se mai posso parlare di madrelingua, la mia sarebbe il tedesco. L’ivrit invece è diventata la mia lingua di cultura. Ho faticato molto per imparare questa lingua, letto molto nella Bibbia, nella mishnah, nel midrash, ho letto poesie, la cabala e dello chassidismo. Ma a dire la verità, la lingua sola, il parlare non è la cosa principale nelle mie creazioni. Per me la lingua è solo un mezzo per esprimere sentimenti. Al contrario di molti scrittori ebraici, come Agnon, S. Izhar etc., da me non troverà alcuna forma complicata della lingua. Io scrivo chiaro e semplice.

 

Sarebbe comunque possibile per lei oggi scrivere in yiddish?

 

Lo Stato sionista ha fatto un enorme sbaglio dopo la Shoah, quando non ha scelto lo yiddish. Avevano paura che lo yiddish potesse diventare la lingua del popolo invece dell’ivrit. Lo yiddish è un legame non solo con le vittime, ma anche con i mille anni in cui si parlava yiddish, si insegnava lo yiddish e si amava questa lingua. Allora, poco dopo la guerra, forse era ancora possibile, ma oggi, ahimè, è troppo tardi.

 

Nonostante oggi ci siano degli ambienti yiddish?

 

Nelle generazioni passate lo yiddish era un organo vivo del popolo. I grandi scrittori – Leieles, Grade, Glatshtein e altri – si sono impegnati a fondo per prendere una vecchia lingua e cambiarla in una moderna. Oggi, come è noto, ci mancano le condizioni necessarie.

 

Cosa ne pensa degli yiddishisti di oggi?

 

Si capisce che apprezzo ogni sforzo che si fa affinché lo yiddish non vada perso. Chi avrebbe detto 150 anni fa che l’ivrit sarebbe diventato una lingua parlata? Quando ero bambino ho visto il nonno pregare nella lingua sacra. Allora sapevo che nonostante conoscessi lo yiddish non avrei mai conosciuto la lingua sacra. Va, sii un profeta.

 

Note

[1] Intervista di Bnei Mer del 21 giugno 2016, pubblicato nella rivista "Forverts" il 25 giugno 2016.

Casella di testo

Citazione:

Sigrid Sohn, Aharon Appelfeld: uno scrittore yiddish scrive in ebraico, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VII, 1, febbraio 2018

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