Una voce ebraica ed araba che ancora oggi disturba
Abraham Serfaty è stato un grande
intellettuale ebraico marocchino, poco apprezzato e considerato nel tempio
degli intellettuali contemporanei israeliani e della diaspora. Definirlo un
ebreo mizrahi è erroneo, perché
quello fu l’appellativo che tutti gli ebrei dei Paesi arabi ed islamici
ricevettero una volta immigrati in Israele e Serfaty non fece mai ‘aliyah, anzi, si tenne molto lontano dal
Paese ebraico e dal sionismo, che vide già in luce come due azioni politiche
controverse e dalle derive coloniali. Tuttavia è corretto riconoscere che
Serfaty fece della difesa degli ebrei mizrahi,
in particolare marocchini, una delle sue più importanti lotte.
Rileggere oggi Abraham Serfaty,
così come altri autori ebrei dei Paesi arabi, quali Edmond Amran el-Maleh e Simon
Levy, che non emigrarono mai dal loro Paese d’origine, o come Shimon Ballas,
ebreo-iracheno, che lo fece ma con grandi rimpianti, insegna che la storia non
è mai lineare come certi poteri forti e certi intellettuali al soldo degli
stessi vorrebbero descriverla. Il grande mito della sofferenza ebraica in terra
di Islam e dell’obbligatoria fuga verso l’unico Paese disposto ad accogliere
profughi ebrei alla ricerca di una patria (Israele), è, infatti, una narrativa attivamente
incoraggiata dallo Stato di Israele attraverso altre istituzioni, quali l’Agenzia Ebraica, il Mossad le Aliyah Bet, i Bnei Akiva e tante altre realtà
direttamente o indirettamente finanziate dallo Stato e sostenitrici di una
visione deterministica della storia ebraica, il cui fulcro è rappresentato dal ritorno
a Sion e, dunque, dall’immigrazione in Israele.
Tuttavia la critica di Serfaty
non riguarda solo Israele, ma anche il Marocco, combattendo su due fronti allo
stesso tempo: la sua opera sarà infatti tesa a contestare la definizione del
regime marocchino come “moderato” e l’immagine positiva e bonaria della
monarchia promossa all’estero. Un’eredità politica, dunque, che sfugge a
qualsiasi definizione in bianco e nero, a qualsiasi lettura binaria ed
appiattimento geopolitico, perché Serfaty riuscì a essere un intellettuale
libero, ugualmente critico dell’una e dell’altra parte, completamente senza
padroni, nemmeno nell’Unione Sovietica.
Biografia
di un resistente
Serfaty spicca in mezzo a questo
coro di iniziative unilaterali e deterministiche per aver sempre contraddetto e
smentito con i suoi scritti e le sue riflessioni politiche la narrativa sionista
dominante, per averlo fatto in un’epoca in cui era difficile esprimersi, sia in
patria che a livello mondiale, su Israele e in cui non esistevano sfumature
politiche, appiattite sui due blocchi. In questo clima politico mondiale rigido
e settario, Serfaty seppe concepire e proporre un’alternativa attraverso
l’esempio dettato dalla sua stessa vita.
Nato a Casablanca nel 1926 da una
famiglia ebraica di Tangeri, si laureò in ingegneria a Parigi, dove si avvicinò
al partito comunista francese e, una volta rientrato in patria, a quello
marocchino. Inizialmente allontanato dalla sua patria per ragioni politiche
- Hassan II non poteva soffrire i comunisti- vi fece rientro dopo un primo
esilio di sei anni in Francia per diventare direttore dell’Ufficio minerario,
l’industria più strategica del Marocco, che è secondo solo alla Cina nella
produzione di fosfati (il Marocco ha più della metà di tutte le riserve
mondiali di fosfati e ne produce annualmente 30 milioni di tonnellate). Serfaty
non riesce, però, a ad accettare le condizioni di sfruttamento vigenti nelle
miniere del Regno, di cui è a capo, e solidarizza con gli operai in sciopero
negli “anni caldi” delle contestazioni, fino al 1968, in cui è dimesso dalle
sue funzioni per decreto reale. Non si perde d’animo e decide di dedicarsi
all’insegnamento nella scuola di ingegneria di Mohammedia, per formare la nuova
classe dirigente, ma anche per intraprendere una carriera che lo lasci più
libero di esprimersi sui temi che gli sono cari, in primis il futuro del Marocco e la questione operaia.
Nel 1970, disilluso dalla
rigidità dottrinaria del partito comunista, fonda con alcuni compagni un’organizzazione
marixista-leninista a cui daranno il nome di "al Ila-Amam" (“in
avanti”), ma poco dopo viene arrestato e torturato da un regime che sta
diventando sempre più feroce: nei primi anni ’70, il Re Hassan II sfugge almeno
a due attentati volti a eliminarlo, mentre i servizi segreti uccidono
all’estero dissidenti influenti. L’accusa rivolta a Serfaty è quella di
attentare alla “sicurezza dello Stato”: un leitmotiv che le dittature e le
autocrazie dei Paesi arabi utilizzeranno spesso contro i dissidenti politici negli
anni ’60 e’70. Poco dopo l’arresto di Serfaty, il regime marocchino organizzerà
la famosa “Marcia Verde” (novembre 1975), ovvero la marcia di circa 350.000
civili scortati da 25.000 soldati per rivendicare la sovranità marocchina sul Sahara
occidentale e, sostanzialmente, occuparlo.
Nel frattempo ‘Ila al ‘Amam
verrà combattuta e sradicata come un temibile covo di resistenza. Un compagno
di partito e di prigionia di Serfaty, Zeroual, verrà barbaramente ucciso sotto
tortura e Serfaty rimarrà in prigione a Kenitra per oltre diciassette anni. Una
vita distrutta, sembrerebbe, dato che non gli fu più possibile partecipare alle
lotte politiche del suo Paese, ma solo di continuare a seguirle dalla prigionia.
E che non gli avrebbe impedito di scrivere, visto che tra il 1980 e il 1991,
anno della sua liberazione - a seguito delle pressioni effettuate sul regime
dalla comunità internazionale in nome dei diritti umani e dal cambiamento
generale impresso agli equilibri internazionali dalla fine della Guerra Fredda -
egli comporrà numerosi scritti, oggi raccolti nell’antologia “Dans le prison du Roi, Ecrits de Kenitra sur
le Maroc” (Messidor, Edition sociales, Paris, 1992). Esiliato nuovamente in
Francia tra il 1991 e il 1999, rientrerà in Marocco per spegnersi sul suo suolo
natio a Marrakesh nel 2010.
La critica a Israele: sionismo,
colonialismo e discriminazione degli ebrei mizrahi
Rispetto a Israele, gli scritti
di Serfaty rivelano l’incredibile intuito di un uomo che non ebbe mai bisogno
dell’esperienza diretta per carpire verità profonde dei processi in corso e sulle
dinamiche intrinseche ai rapporti di potere in atto in Paesi tanto diversi come
Marocco ed Israele.
Da sempre scettico sulla capacità
del sionismo di ottenere i due obiettivi utopici che aveva promesso agli ebrei
di tutto il mondo -salvarli dall’oppressione e farne dei cittadini liberi-,
scrisse che il sionismo non poteva portare alla liberazione del popolo ebraico
perché fin dall’inizio si fondava su una “cultura
tribale ed organica non accettabile per la costruzione di una democrazia, né
per i Palestinesi che ne avrebbero fatto le spese” (L’Insoumis. Juifs, marocains et rebelles, Serfaty-Elbaz, Desclée de Brouwer,
Paris, 2001: 223).
Gli ebrei marocchini che si
lasciarono affascinare da questa promessa vacua o propaganda di Stato,
partirono per Israele come ebrei per riscoprirsi una volta giunti lì “marocchini”
e si chiusero nella “vergogna e nel rifiuto di sé stessi”. Trent’anni dopo la
loro silente immigrazione nel Paese che doveva accoglierli a braccia parte,
Serfaty era consapevole che gli ebreo-marocchini si erano piuttosto lanciati
verso una nuova esperienza di diaspora - da lui definita rediasporisation - per andare a
costituire la grande massa dei poveri, o del sottoproletariato, in un nuovo
Paese chiamato Israele (671.000 mizrahim
versavano in povertà nel 1994).
Serfaty dichiara che furono solo i
poveri, all’interno della comunità ebreo-marocchina, a partire, incoraggiati
maliziosamente dalle loro classi dirigenti, che però restarono in Marocco.
Molti di questi poveri partirono alla volta di un Paese, Israele, di cui non
sapevano nulla e ignoravano perfino la lotta per l’indipendenza, convinti da
emissari sionisti appositamente inviati in “loro soccorso”. Peccato che in
Marocco non rischiassero nulla e non fossero mai stati sistematicamente vittime
di pogrom, cosa che non aveva impedito, però, a quegli ebrei poveri di sentirsi
orfani di una Francia che non li aveva mai tutelati e protetti, ma che anzi li
aveva esposti al razzismo del regime di Vichy.
Essi sparirono lentamente sotto
gli occhi dei loro vicini musulmani attoniti, che non sapevano dove erano
diretti. Dal Marocco, nell’arco dei tre anni della Grande Immigrazione
(1949-52) e in quelli immediatamente successivi all’indipendenza del Marocco
(1956-59), partirono circa 250.000 persone, ma del loro silente esodo verso
Israele si occupò un solo articolo apparso sulla stampa marocchina nel 1958,
sul settimanale dell’Unione marocchina del lavoro, l’Avant Garde, a firma di un certo Aflalo. Come se non fossero
rimasti in quel Paese, scolpendone ed influenzandone la storia per quasi
duemila anni, gli ebrei abbandonarono in massa il Marocco, dove pure
testimoniavano di aver vissuto bene sotto la protezione del Re.
Serfaty, però, non si dà pace su
questa partenza. Sa che furono gli agenti sionisti a sradicare queste persone
dalle loro terre e dalle loro vite, riconosce che in lui, come in molti altri
ebrei che restarono, la partenza della grande maggioranza delle comunità
ebraica lasciò un vuoto ed operò una rottura profonda, ma anche che nessuno di
loro fu veramente in grado di opporre al sionismo una visione politica
alternativa in grado di lottare per farli restare. La sua risposta fu il
comunismo, ma il comunismo marocchino di quegli anni agiva al rimorchio
dell’URSS e della Francia, senza rendersi conto e farsi carico della specificità
del contesto nazionale e della necessità di coniugare la lotta di liberazione
dei popoli con le credenze di quegli stessi popoli. Il risultato fu l’adozione
di una linea politica e di un linguaggio che non parlavano al popolo, nemmeno a
quello ebraico, e che lo abbandonarono a manipolazioni politiche come quella
sionista e del Re Hassan II, che, nell’agosto del 1955, a margine dei negoziati
di Aix les Bains sulla decolonizzazione del Paese, raggiunse un accordo con
alcuni rappresentanti sionisti per “vendere” circa 45.000 ebrei dell’Atlante e
del Sud in cambio di dollari americani. (Serfaty, Dans le prison du Roi, cit.:148)
Dopo aver auspicato per anni,
secondo la visione comunista ortodossa, la creazione di uno Stato unitario
binazionale in Palestina -che, almeno dal 1964 al 1988, fu anche la visione
sposata dall’OLP a guida Arafat -, nel 1990, poco dopo la sua liberazione,
Serfaty assistette alle prime prove di negoziato israelo-palestinese che
condussero agli Accordi di Oslo, sposandoli con entusiasmo come un passo
decisivo verso la risoluzione del conflitto e il ripristino della dignità
palestinese, alla quale credette sempre così tenacemente da non volersi mai
recare in Israele.
Tuttavia, forse il suo fine
intuito politico era un po’ scemato o forse la lunga prigionia aveva annebbiato
la sua vista quando si diceva convinto che da Oslo avrebbe potuto nascere uno
stato democratico palestinese affiancato da uno Stato post-sionista in Israele.
Credeva utopicamente in una possibilità integrale di riforma della società israeliana
e vedeva nel periodo che si sarebbe aperto dopo Oslo uno spazio d’azione per
gli ebrei mizrahi, perché finalmente
dessero un contributo in direzione della pace in quanto arabi ed ebrei al
contempo, partendo dalla riscoperta della loro profonda cultura umanistica e
dalla loro tradizione tollerante in materia di religione e costumi sociali.
Questa rimane una grande utopia
di Serfaty così come di tanti altri ebrei originari dei Paesi arabi - penso a Ella Shohat, Ammiel Alcalay, Yehouda Shenhav e molti altri- che non riuscirono
mai a scendere a patti con l’esistente, ovvero con il fatto, più volte definito
negli scritti di un altro lucido osservatore della realtà sefardita come David Shasha,
dell’“odio di sé” e dell’inclinazione nazionalista e razzista che
contraddistingue questi ebrei, discriminati in Israele ma non per questo meno
devoti alla causa sionista (si veda, per esempio, David Shasha, Israeli Sephardim as Tea Partiers, 17
Maggio, 2010, Huffington Post,
http://www.huffingtonpost.com/david-shasha/israeli-sephardim-as-tea_b_502416.html?)
È commovente e resta una delle
pagine migliori che Serfaty lascia alle nuove generazioni ebraiche, e
soprattutto ai giovani ebrei mizrahi israeliani,
le parole con le quali conclude la sua conversazione sul sionismo ed Israele,
scrivendo “credo che le masse orientali
giocheranno un ruolo nella trasformazione di Israele in spazio mediterraneo.
Quando parlo di spazio, non m’immagino affatto muri e separazioni, ma degli
scambi tanto con gli ebrei aschenaziti che con i Palestinesi. Immagino che
faremo nostra la filosofia di Spinoza e di Leibowitz che invocano, ciascuno a
modo suo, la libertà di pensiero e il rispetto delle differenze. In futuro,
Israele potrà veder nascere dei nuovi Spinoza in un contesto di pluralismo e di
tolleranza. L’Oriente e l’Occidente si compenetrano l’uno l’altro, questa è la
via per il futuro. Si creeranno così due poli complementari e fraterni di una
modernità aperta sul mondo: in Medio Oriente, avranno il nome di un Israele
post-sionista e di una Palestina democratica.” (L’insoumis, cit.: 241)
Lo sguardo critico sul suo Marocco: un’autocrazia fortemente illiberale
Serfaty combatté tutta la propria
vita per il Marocco, identificando, però, l’anima del suo Paese con la classe
popolare, come una grande maggioranza priva di voce e diritti sfruttata da una
piccola élite di borghesi che storicamente non avevano esitato ad allearsi con
il colonialismo francese e spagnolo per poi sostenere, dopo l’indipendenza, la
restaurazione di un potere semifeudale riunito intorno al Makhzen (come viene definito il “sistema” di potere marocchino che
ruota intorno alla monarchia).
Subito dopo l’indipendenza e
sulla scia della sua euforia, tuttavia, grazie all’alleanza tra questo ampio
strato proletario e rurale ed una piccola parte della borghesia urbana, si
vennero a creare delle forze politiche che esprimevano una visione alternativa
sullo sviluppo nazionale. Il partito di sinistra dell’Unione nazionale delle
forze popolari (UNFP) si batteva, per esempio, per uno sviluppo democratico del
Paese sulla falsariga e modello dei Paesi europei, concentrandosi sulla
costruzione di un sindacato e di un sistema istituzionale democratico. Dal 1956
al 1959 il Marocco visse la sua “stagione d’oro”, ovvero il periodo in cui si
ebbero le maggiori conquiste sociali: l’estensione dei diritti di cui avevano
fruito fino a quel momento solo i lavoratori europei ai lavoratori marocchini delle
industrie dei fosfati, delle ferrovie e delle grandi imprese pubbliche, il
lancio di programmi scolastici gratuiti ed alcune importanti acquisizioni
giuridiche, come il Codice delle libertà pubbliche, quello sulla libertà di
stampa e un codice penale più liberale.
Si trattò di una stagione breve
che si richiuse già a partire dagli anni 1962-63, quando molte di queste riforme
vennero svuotate di senso e il Makhzen
dell’allora sovrano Maometto V mise all’indice il Partito Comunista Marocchino
e fece assassinare a Parigi Mehdi Ben Bella, storico dirigente USFP. Già nel
1963, il vecchio sistema politico marocchino si era ricostituito sulla
falsariga di quello coloniale che lo aveva preceduto, pur in assenza dei coloni
francesi, con i quali l’alta borghesia nazionalista continuò a mantenere ottimi
rapporti commerciali e strette relazioni culturali. Il passaggio formale tra il
sistema coloniale francese a quello neocoloniale dell’élite marocchine si operò
attraverso la vendita diretta delle terre agricole che erano appartenute ai
coloni alla Monarchia, che ne fece dono a una piccola parte dell’élite
terriere altoborghesi tenendone una consistente parte per sé. Altre misure a essa complementari sarebbero state il piano industriale per il Marocco, che
avrebbe puntato esclusivamente sulla creazione di industrie di sostituzione di
prodotti importati dall’Europa, e la “maroccanizzazione” di facciata dei
maggiori servizi pubblici, che avrebbero integrato tra i dirigenti nei loro
consigli di amministrazione molti ex coloniali.
Dal 1963 in poi, sotto il nuovo
ed energico sovrano Hassan II, iniziò anche la politica del terrore, che portò
tanti dissidenti ed oppositori marocchini nelle temibili prigioni di Tazmamart,
dove per anni venne praticata sistematicamente la tortura. Dopo il tracollo
delle forze politiche che sole erano riuscite a opporsi allo strapotere del Makhzen, il testimone della resistenza
passò a forze nuove e maggiormente popolari. Nel 1968 si ebbero le prime manifestazioni
dei lavoratori delle miniere: 7000 minatori entrarono in sciopero a Khouribga
per due mesi, poi seguite da una serie di manifestazioni degli operai di
Casablanca ed altre città. Da buon osservatore politico, però, Serfaty si pose
crescentemente il problema di quella massa di giovani ed emarginati che non era
nemmeno inquadrata nel proletariato ma costretta a sopravvivere attraverso
mille lavori informali, che spaziavano fino al traffico di droga ed alla
prostituzione: una massa informe di persone alienate dalla società di cui la
sinistra avrebbe dovuto occuparsi, ma a cui il Partico comunista marocchino, al
quale Serfaty apparteneva, non si rivolgeva. Da qui i suoi appelli per una
modernizzazione dell’ideologia comunista che non fosse più dottrinariamente
incardinata sul proletariato organizzato riconosciuto come unica forza autenticamente
popolare, ma che sapesse guardare all’insieme della società per includere e
rappresentare tutte le classi svantaggiate. Per non parlare del desiderio di fondare
una forza politica che guardasse con più attenzione ai problemi concreti del
Marocco e meno a un’artificiale e astratta classe operaia mondiale, da cui nascerà
il progetto di fondare il partito ‘Ila al Amam nel 1970.
Nonostante l’effervescenza
politica registratasi in Marocco a partire dagli anni ’70, Hassan II non si
piegò e non modificò minimamente la sua linea politica, orientata a soddisfare
le esigenze del capitalismo francese ed europeo con beneplacito e guadagno
dell’alta borghesia marocchina, a sviluppare le industrie strategiche nazionali
senza prendere in carico alcuna richiesta dei lavoratori, a mantenere la
maggioranza della popolazione incolta in modo che non potesse politicizzarsi, a espropriare le terre ai contadini in nome dell’efficienza economica e condurre
una spregiudicata politica estera filo-Israeliana e filo-francese che andava contro
il sentimento popolare delle masse.
È contro questo despota
nient’affatto illuminato e per il bene del suo Paese che Serfaty, a capo
dell’OCP (industria dei fosfati) decise di appoggiare le rivolte dei minatori
ed ergersi rischiosamente contro il potere. Scelta che, dalle iniziali lotte
operaie, lo portò a criticare altre scelte politiche operate dal sovrano,
avvicinandosi a temi sensibili di “interesse nazionale” che nel Marocco di
quegli anni, ed ancora oggi, non è possibile dibattere in pubblico e nemmeno
menzionare (Hassan II amava dichiarare: “Non
posso liberare coloro che rimettono in discussione quattordici secoli di storia
marocchina”). Tra questi figurano due grandi temi, di cui uno di politica
estera, la “questione sahrawi”, che già dal 1963 e a più riprese ha portato
Marocco ed Algeria sull’orlo di una guerra, e uno di politica interna, ovvero
la repressione della cosiddetta rivolta del Rif, ovvero delle tribù berbere ed
estremamente povere del nord del Marocco, che lasciò sul terreno tra i 2000 e
gli 8000 morti tra il 1958 e il 1959.
Sarà soprattutto la questione
sahrawi a condurre, però, Serfaty nelle liste degli oppositori più pericolosi
del regime, ovvero di coloro che vogliono rimettere in discussione l’integrità
territoriale del Marocco.
Serfaty e il suo piccolo partito
contestavano la sovranità marocchina sul Sahrawi, dimostrando come le
tradizioni storiche a cui fa riferimento la monarchia alawita -la cosiddetta
“beϊa” o giuramento di fedeltà delle popolazioni sahrawi al monarca del
Marocco - non avesse natura politica, ma solo religiosa, attestata anche
dall’appellativo conferito al Re da tutte le tribù e i gruppi che gli
riconoscono questo ruolo: Amir
al-Mouminin, emiro dei credenti. L’alleanza tra popolo sahrawi e
marocchino, a cui il Makhzen
attribuisce carattere politico, non sarebbe altro che una reinterpretazione in
chiave moderna di un rito antico di origine religiosa di riconoscimento di
tutte le popolazioni della regione nella 'umma
islamica. Tuttavia, dato che sono stati scoperti importanti giacimenti di fosfati proprio nel Sahara occidentale, la riesumazione del rito tradizionale di legame
tra i popoli della regione e il sovrano alawita è successivamente servito per
affermare un controllo diretto su un territorio ricco di ricorse naturali,
dallo sfruttamento delle quali le popolazioni locali sono state estromesse.
La critica sempre ribadita dal
sovrano marocchino, che non esista una nazione sahrawi che possa aspirare
all’indipendenza, riecheggia anche troppo da vicino quella israeliana al
nazionalismo palestinese. Se è vero che non esiste un nazionalismo sahrawi
atavico - così come non ne esiste nessun altro, sulla falsariga della creazione
di tutte le identità nazionali ben illustrata da Benedict Anderson - è
indiscusso che a partire dagli anni ’73, con la creazione del Fronte Polisario si
viene a creare una nuova consapevolezza collettiva nel popolo sahrawi,
riconosciuta loro anche dalla Commissione delle Nazioni Unite in visita nella
regione nel 1975. Al cuore della questione sahrawi si gioca, per i marocchini
progressisti, tra cui Serfaty, la contraddizione tra nazionalismo buono e
cattivo, tra lotta per l’indipendenza nazionale (dalla Francia, appena una
generazione prima) e complicità nell’oppressione di un altro popolo in nome di
quegli stessi principi. La lotta viene repressa nel sangue e tra il 1973 e il
1975, prima della Marcia Verde, e moltissimi attivisti comunisti e di
formazione marxista-leninista furono condannati a lunghe pene (fino a quindici
anni) di detenzione nel carcere di Kenitra.
Serfaty rimase un radicale durante
tutti i lunghi anni di prigionia ed oltre, per tutta quanta la sua vita. Nel
1991, ancora fedele al suo partito ‘Ila al Amam, è tra i firmatari del suo
nuovo programma politico, che chiedeva chiaramente l’abolizione della monarchia
e l’instaurazione di una repubblica. Radicale anch’esso, il partito chiedeva la
dissoluzione di tutti gli organi forti dello Stato -la polizia, il Ministero
dell’Interno, l’esercito e l’apparato giudiziario - perché non suscettibili di
riforma, essendo da sempre collusi e specchio del Makhzen. Invocava anche
l’amnistia per tutti i detenuti politici che marcivano ancora nelle carceri di Hassan
II, l’abolizione della pena di morte e la costituzione di uno Stato laico
fondato su un’effettiva divisione tra i poteri giudiziario, legislativo e esecutivo
che in Marocco non si era mai data. Soprattutto chiedeva alcune delle riforme
che sarebbero poi state incorporate, venti anni dopo, a seguito delle Primavere
arabe e del Movimento 20 febbraio, dal Partito islamico Giustizia e Sviluppo
(PJD) e dalla lega berbera. Tra queste, l’introduzione dell’arabo nella scuola
secondaria e all’università, il cui insegnamento oggi avviene ancora
prevalentemente in francese, e quella della lingua amazigh (o meglio sarebbe
dire delle lingue amazigh) nelle scuole di ogni ordine e grado: un
riconoscimento ufficiale che la lingua berbera ha ricevuto nella nuova Costituzione
octroyée del 2011, poi restato
lettera morta. Tutte proposte che devono ancora trovare in Marocco accoglienza
da parte di una grande forza politica che voglia farsene paladina, cosciente
del ritardo culturale e sociale che il Paese continua a soffrire proprio a
causa dell’assenza di libertà politica.
Conclusioni: Serfaty, precursore delle lotte del XXI secolo?
Serfaty è stato un precursore
delle lotte del XXI secolo? La risposta in merito non può essere univoca.
Nel 1999, conquistato
dall’offerta generosa del nuovo sovrano Mohammed VI appena succeduto al padre
di farlo rientrare, il vecchio Serfaty scrisse un panegirico del nuovo Re, che
si presentava come il “Re dei poveri” e sembrava annunciare una nuova stagione
di democrazia per il Marocco. “Mohammed VI” scrisse “vuole costruire un Marocco moderno e democratico e fa assegnamento su
una grande società civile che sta vivendo un forte risveglio. (…) Il nuovo Re
si fonda su un governo che rappresenta le forze democratiche del Paese ed
esprime, almeno per quanto riguarda il suo nucleo principale, costituito da
socialisti ed ex-comunisti, la volontà del suffragio universale.” (Alberto
Castelvecchi (a cura di), Al Qa'ida:
dall'Afghanistan a Madrid, Castelvecchi Editore, Roma, 2004:54). Un elogio
del nuovo sovrano, che si riproponeva di chiudere il centro di torture e la
rete di prigioni in cui Serfaty e i suoi compagni erano stati tanto a lungo
detenuti, dando loro finalmente la possibilità di partecipare alla vita
politica del Paese e al suo governo nel 2002. Un elogio tributato al giovane
sovrano sulla base di speranze e proiezioni che si riveleranno presto infondate
e che inviò un segnale sbagliato ai militanti che guardavano a Serfaty come un
riferimento intellettuale.
Molte altre delle direzioni ve delle
piste da lui indicate in politica interne ed internazionale non sono state
seguite dalle generazioni di attivisti più giovani, non hanno germogliato e non
hanno trovato gruppi politici e sociali progressisti orientati ad accoglierle,
nonostante il loro carattere innovativo e fecondo. Tra le sue tracce più
feconde, lasciate alle nuove generazioni, rimane il suo opuscolo su “Marxismo e
religione” del 1983, in cui Serfaty espresse la possibilità e propose
l’opportunità di operare una convergenza tra marxisti e credenti (islamisti),
sostenendo che i due gruppi, da sempre antagonisti ed opposti su una questione
extrapolitica (l’esistenza di Dio), avrebbero benissimo potuto cooperare su
questioni tattiche e strettamente politiche che attengono a questo mondo.
Nel 1989, il piccolo partito ‘Ila
al Amam pubblicò un breve testo in cui riconosceva l’Islam come una delle
componenti fondamentali della futura repubblica marocchina. Qualche anno prima,
nel 1985, lo sceicco Yassine, un oscuro maestro di scuola, aveva fondato una
nuova forza politica islamista antimonarchica destinata a un grande seguito
nel Paese, l’’Adl wa al Ihsane (Giustizia e Benevolenza). ‘Ila al Aman desiderava
forse aprire a queste nuove tendenze profonde del popolo, che non potevano prescindere
dal concepire la giustizia all’infuori della religione. Recuperava, dunque, una
nozione di Islam, ma con un’accezione limitata: “L’Islam per il popolo marocchino si riassume in un’aspirazione alla
giustizia ed al diritto. Anche noi operiamo per questi principi, perché
diventino il fondamento dello Stato marocchino. Noi speriamo che dall’Islam
marocchino emerga una tendenza progressista che si ispiri alla teologia della
liberazione cattolica in America Latina. Non possiamo, però, accettare né la
shari’a, né l’oppressione delle donne” (Serfaty, Dans les prisons du Roi, cit.:245)
La via di convergenza è indicata,
ma resta un lungo cammino da percorrere perché la sinistra laica e europeizzata
di ‘Ila al Amam - oggi confluita nel minuscolo e pressoché ininfluente partito An-Nahj ad-dimocrati (La voce
democratica) -, i cui riferimenti restano prevalentemente occidentali, e la
sinistra popolare islamica, si possano incontrare e riconoscere come alleate in
una lotta politica contingente che ha lo stesso fine, ovvero fare del Marocco
una vera democrazia. Eppure questa resta una delle piste più feconde esplorate
da Serfaty e lasciata ancora tutta da esplorare: come coniugare l’identità
profonda dei popoli, tenendo conto degli elementi storici e di particolarismo
che li definiscono in quanto tali, con le lotte universali per la democrazia e
la giustizia, nella consapevolezza che l’aspirazione profonda di tutti i popoli sia, in fondo, quella di maggiore uguaglianza, libertà e benessere. Una sfida
difficile per la Sinistra e la sua rifondazione nel XXI secolo, che attende
ancora al varco anche l’Europa.
Casella di testo
Citazione:
Claudia De Martino, Rileggere l'opera di Abraham Serfaty, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", V, 2, dicembre 2016
url: http://www.freeebrei.com/anno-v-numero-2-luglio-dicembre-2016/claudia-de-martino-rileggere-l-opera-di-abraham-serfaty
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