Claudia De Martino, Rileggere l'opera di Abraham Serfaty

"Free Ebrei", V, 2, dicembre 2016

Rileggere l'opera di Abraham Serfaty

di Claudia De Martino

Abstract

Claudia De Martino offers an assesment on the character and work of Abraham Serfaty, a Jewish Maroccan dissident, militant and political activist, who struggled for democracy, human rights, and Mizrahi Jews.

Una voce ebraica ed araba che ancora oggi disturba

Abraham Serfaty è stato un grande intellettuale ebraico marocchino, poco apprezzato e considerato nel tempio degli intellettuali contemporanei israeliani e della diaspora. Definirlo un ebreo mizrahi è erroneo, perché quello fu l’appellativo che tutti gli ebrei dei Paesi arabi ed islamici ricevettero una volta immigrati in Israele e Serfaty non fece mai ‘aliyah, anzi, si tenne molto lontano dal Paese ebraico e dal sionismo, che vide già in luce come due azioni politiche controverse e dalle derive coloniali. Tuttavia è corretto riconoscere che Serfaty fece della difesa degli ebrei mizrahi, in particolare marocchini, una delle sue più importanti lotte.

Rileggere oggi Abraham Serfaty, così come altri autori ebrei dei Paesi arabi, quali Edmond Amran el-Maleh e Simon Levy, che non emigrarono mai dal loro Paese d’origine, o come Shimon Ballas, ebreo-iracheno, che lo fece ma con grandi rimpianti, insegna che la storia non è mai lineare come certi poteri forti e certi intellettuali al soldo degli stessi vorrebbero descriverla. Il grande mito della sofferenza ebraica in terra di Islam e dell’obbligatoria fuga verso l’unico Paese disposto ad accogliere profughi ebrei alla ricerca di una patria (Israele), è, infatti, una narrativa attivamente incoraggiata dallo Stato di Israele attraverso altre istituzioni, quali l’Agenzia Ebraica, il Mossad le Aliyah Bet, i Bnei Akiva e tante altre realtà direttamente o indirettamente finanziate dallo Stato e sostenitrici di una visione deterministica della storia ebraica, il cui fulcro è rappresentato dal ritorno a Sion e, dunque, dall’immigrazione in Israele.

Tuttavia la critica di Serfaty non riguarda solo Israele, ma anche il Marocco, combattendo su due fronti allo stesso tempo: la sua opera sarà infatti tesa a contestare la definizione del regime marocchino come “moderato” e l’immagine positiva e bonaria della monarchia promossa all’estero. Un’eredità politica, dunque, che sfugge a qualsiasi definizione in bianco e nero, a qualsiasi lettura binaria ed appiattimento geopolitico, perché Serfaty riuscì a essere un intellettuale libero, ugualmente critico dell’una e dell’altra parte, completamente senza padroni, nemmeno nell’Unione Sovietica.

Biografia di un resistente

Serfaty spicca in mezzo a questo coro di iniziative unilaterali e deterministiche per aver sempre contraddetto e smentito con i suoi scritti e le sue riflessioni politiche la narrativa sionista dominante, per averlo fatto in un’epoca in cui era difficile esprimersi, sia in patria che a livello mondiale, su Israele e in cui non esistevano sfumature politiche, appiattite sui due blocchi. In questo clima politico mondiale rigido e settario, Serfaty seppe concepire e proporre un’alternativa attraverso l’esempio dettato dalla sua stessa vita.

Nato a Casablanca nel 1926 da una famiglia ebraica di Tangeri, si laureò in ingegneria a Parigi, dove si avvicinò al partito comunista francese e, una volta rientrato in patria, a quello marocchino. Inizialmente allontanato dalla sua patria per ragioni politiche - Hassan II non poteva soffrire i comunisti- vi fece rientro dopo un primo esilio di sei anni in Francia per diventare direttore dell’Ufficio minerario, l’industria più strategica del Marocco, che è secondo solo alla Cina nella produzione di fosfati (il Marocco ha più della metà di tutte le riserve mondiali di fosfati e ne produce annualmente 30 milioni di tonnellate). Serfaty non riesce, però, a ad accettare le condizioni di sfruttamento vigenti nelle miniere del Regno, di cui è a capo, e solidarizza con gli operai in sciopero negli “anni caldi” delle contestazioni, fino al 1968, in cui è dimesso dalle sue funzioni per decreto reale. Non si perde d’animo e decide di dedicarsi all’insegnamento nella scuola di ingegneria di Mohammedia, per formare la nuova classe dirigente, ma anche per intraprendere una carriera che lo lasci più libero di esprimersi sui temi che gli sono cari, in primis il futuro del Marocco e la questione operaia.

Nel 1970, disilluso dalla rigidità dottrinaria del partito comunista, fonda con alcuni compagni un’organizzazione marixista-leninista a cui daranno il nome di "al Ila-Amam" (“in avanti”), ma poco dopo viene arrestato e torturato da un regime che sta diventando sempre più feroce: nei primi anni ’70, il Re Hassan II sfugge almeno a due attentati volti a eliminarlo, mentre i servizi segreti uccidono all’estero dissidenti influenti. L’accusa rivolta a Serfaty è quella di attentare alla “sicurezza dello Stato”: un leitmotiv che le dittature e le autocrazie dei Paesi arabi utilizzeranno spesso contro i dissidenti politici negli anni ’60 e’70. Poco dopo l’arresto di Serfaty, il regime marocchino organizzerà la famosa “Marcia Verde” (novembre 1975), ovvero la marcia di circa 350.000 civili scortati da 25.000 soldati per rivendicare la sovranità marocchina sul Sahara occidentale e, sostanzialmente, occuparlo.

Nel frattempo ‘Ila al ‘Amam verrà combattuta e sradicata come un temibile covo di resistenza. Un compagno di partito e di prigionia di Serfaty, Zeroual, verrà barbaramente ucciso sotto tortura e Serfaty rimarrà in prigione a Kenitra per oltre diciassette anni. Una vita distrutta, sembrerebbe, dato che non gli fu più possibile partecipare alle lotte politiche del suo Paese, ma solo di continuare a seguirle dalla prigionia. E che non gli avrebbe impedito di scrivere, visto che tra il 1980 e il 1991, anno della sua liberazione - a seguito delle pressioni effettuate sul regime dalla comunità internazionale in nome dei diritti umani e dal cambiamento generale impresso agli equilibri internazionali dalla fine della Guerra Fredda - egli comporrà numerosi scritti, oggi raccolti nell’antologia “Dans le prison du Roi, Ecrits de Kenitra sur le Maroc” (Messidor, Edition sociales, Paris, 1992). Esiliato nuovamente in Francia tra il 1991 e il 1999, rientrerà in Marocco per spegnersi sul suo suolo natio a Marrakesh nel 2010.

La critica a Israele: sionismo, colonialismo e discriminazione degli ebrei mizrahi

Rispetto a Israele, gli scritti di Serfaty rivelano l’incredibile intuito di un uomo che non ebbe mai bisogno dell’esperienza diretta per carpire verità profonde dei processi in corso e sulle dinamiche intrinseche ai rapporti di potere in atto in Paesi tanto diversi come Marocco ed Israele.

Da sempre scettico sulla capacità del sionismo di ottenere i due obiettivi utopici che aveva promesso agli ebrei di tutto il mondo -salvarli dall’oppressione e farne dei cittadini liberi-, scrisse che il sionismo non poteva portare alla liberazione del popolo ebraico perché fin dall’inizio si fondava su una “cultura tribale ed organica non accettabile per la costruzione di una democrazia, né per i Palestinesi che ne avrebbero fatto le spese” (L’Insoumis. Juifs, marocains et rebelles, Serfaty-Elbaz, Desclée de Brouwer, Paris, 2001: 223).

Gli ebrei marocchini che si lasciarono affascinare da questa promessa vacua o propaganda di Stato, partirono per Israele come ebrei per riscoprirsi una volta giunti lì “marocchini” e si chiusero nella “vergogna e nel rifiuto di sé stessi”. Trent’anni dopo la loro silente immigrazione nel Paese che doveva accoglierli a braccia parte, Serfaty era consapevole che gli ebreo-marocchini si erano piuttosto lanciati verso una nuova esperienza di diaspora - da lui definita rediasporisation - per andare a costituire la grande massa dei poveri, o del sottoproletariato, in un nuovo Paese chiamato Israele (671.000 mizrahim versavano in povertà nel 1994).

Serfaty dichiara che furono solo i poveri, all’interno della comunità ebreo-marocchina, a partire, incoraggiati maliziosamente dalle loro classi dirigenti, che però restarono in Marocco. Molti di questi poveri partirono alla volta di un Paese, Israele, di cui non sapevano nulla e ignoravano perfino la lotta per l’indipendenza, convinti da emissari sionisti appositamente inviati in “loro soccorso”. Peccato che in Marocco non rischiassero nulla e non fossero mai stati sistematicamente vittime di pogrom, cosa che non aveva impedito, però, a quegli ebrei poveri di sentirsi orfani di una Francia che non li aveva mai tutelati e protetti, ma che anzi li aveva esposti al razzismo del regime di Vichy.

Essi sparirono lentamente sotto gli occhi dei loro vicini musulmani attoniti, che non sapevano dove erano diretti. Dal Marocco, nell’arco dei tre anni della Grande Immigrazione (1949-52) e in quelli immediatamente successivi all’indipendenza del Marocco (1956-59), partirono circa 250.000 persone, ma del loro silente esodo verso Israele si occupò un solo articolo apparso sulla stampa marocchina nel 1958, sul settimanale dell’Unione marocchina del lavoro, l’Avant Garde, a firma di un certo Aflalo. Come se non fossero rimasti in quel Paese, scolpendone ed influenzandone la storia per quasi duemila anni, gli ebrei abbandonarono in massa il Marocco, dove pure testimoniavano di aver vissuto bene sotto la protezione del Re.

Serfaty, però, non si dà pace su questa partenza. Sa che furono gli agenti sionisti a sradicare queste persone dalle loro terre e dalle loro vite, riconosce che in lui, come in molti altri ebrei che restarono, la partenza della grande maggioranza delle comunità ebraica lasciò un vuoto ed operò una rottura profonda, ma anche che nessuno di loro fu veramente in grado di opporre al sionismo una visione politica alternativa in grado di lottare per farli restare. La sua risposta fu il comunismo, ma il comunismo marocchino di quegli anni agiva al rimorchio dell’URSS e della Francia, senza rendersi conto e farsi carico della specificità del contesto nazionale e della necessità di coniugare la lotta di liberazione dei popoli con le credenze di quegli stessi popoli. Il risultato fu l’adozione di una linea politica e di un linguaggio che non parlavano al popolo, nemmeno a quello ebraico, e che lo abbandonarono a manipolazioni politiche come quella sionista e del Re Hassan II, che, nell’agosto del 1955, a margine dei negoziati di Aix les Bains sulla decolonizzazione del Paese, raggiunse un accordo con alcuni rappresentanti sionisti per “vendere” circa 45.000 ebrei dell’Atlante e del Sud in cambio di dollari americani. (Serfaty, Dans le prison du Roi, cit.:148)

Dopo aver auspicato per anni, secondo la visione comunista ortodossa, la creazione di uno Stato unitario binazionale in Palestina -che, almeno dal 1964 al 1988, fu anche la visione sposata dall’OLP a guida Arafat -, nel 1990, poco dopo la sua liberazione, Serfaty assistette alle prime prove di negoziato israelo-palestinese che condussero agli Accordi di Oslo, sposandoli con entusiasmo come un passo decisivo verso la risoluzione del conflitto e il ripristino della dignità palestinese, alla quale credette sempre così tenacemente da non volersi mai recare in Israele.

Tuttavia, forse il suo fine intuito politico era un po’ scemato o forse la lunga prigionia aveva annebbiato la sua vista quando si diceva convinto che da Oslo avrebbe potuto nascere uno stato democratico palestinese affiancato da uno Stato post-sionista in Israele. Credeva utopicamente in una possibilità integrale di riforma della società israeliana e vedeva nel periodo che si sarebbe aperto dopo Oslo uno spazio d’azione per gli ebrei mizrahi, perché finalmente dessero un contributo in direzione della pace in quanto arabi ed ebrei al contempo, partendo dalla riscoperta della loro profonda cultura umanistica e dalla loro tradizione tollerante in materia di religione e costumi sociali.

Questa rimane una grande utopia di Serfaty così come di tanti altri ebrei originari dei Paesi arabi - penso a Ella Shohat, Ammiel Alcalay, Yehouda Shenhav e molti altri- che non riuscirono mai a scendere a patti con l’esistente, ovvero con il fatto, più volte definito negli scritti di un altro lucido osservatore della realtà sefardita come David Shasha, dell’“odio di sé” e dell’inclinazione nazionalista e razzista che contraddistingue questi ebrei, discriminati in Israele ma non per questo meno devoti alla causa sionista (si veda, per esempio, David Shasha, Israeli Sephardim as Tea Partiers, 17 Maggio, 2010, Huffington Post, http://www.huffingtonpost.com/david-shasha/israeli-sephardim-as-tea_b_502416.html?)

È commovente e resta una delle pagine migliori che Serfaty lascia alle nuove generazioni ebraiche, e soprattutto ai giovani ebrei mizrahi israeliani, le parole con le quali conclude la sua conversazione sul sionismo ed Israele, scrivendo “credo che le masse orientali giocheranno un ruolo nella trasformazione di Israele in spazio mediterraneo. Quando parlo di spazio, non m’immagino affatto muri e separazioni, ma degli scambi tanto con gli ebrei aschenaziti che con i Palestinesi. Immagino che faremo nostra la filosofia di Spinoza e di Leibowitz che invocano, ciascuno a modo suo, la libertà di pensiero e il rispetto delle differenze. In futuro, Israele potrà veder nascere dei nuovi Spinoza in un contesto di pluralismo e di tolleranza. L’Oriente e l’Occidente si compenetrano l’uno l’altro, questa è la via per il futuro. Si creeranno così due poli complementari e fraterni di una modernità aperta sul mondo: in Medio Oriente, avranno il nome di un Israele post-sionista e di una Palestina democratica.” (L’insoumis, cit.: 241)

Lo sguardo critico sul suo Marocco: un’autocrazia fortemente illiberale

Serfaty combatté tutta la propria vita per il Marocco, identificando, però, l’anima del suo Paese con la classe popolare, come una grande maggioranza priva di voce e diritti sfruttata da una piccola élite di borghesi che storicamente non avevano esitato ad allearsi con il colonialismo francese e spagnolo per poi sostenere, dopo l’indipendenza, la restaurazione di un potere semifeudale riunito intorno al Makhzen (come viene definito il “sistema” di potere marocchino che ruota intorno alla monarchia).  

Subito dopo l’indipendenza e sulla scia della sua euforia, tuttavia, grazie all’alleanza tra questo ampio strato proletario e rurale ed una piccola parte della borghesia urbana, si vennero a creare delle forze politiche che esprimevano una visione alternativa sullo sviluppo nazionale. Il partito di sinistra dell’Unione nazionale delle forze popolari (UNFP) si batteva, per esempio, per uno sviluppo democratico del Paese sulla falsariga e modello dei Paesi europei, concentrandosi sulla costruzione di un sindacato e di un sistema istituzionale democratico. Dal 1956 al 1959 il Marocco visse la sua “stagione d’oro”, ovvero il periodo in cui si ebbero le maggiori conquiste sociali: l’estensione dei diritti di cui avevano fruito fino a quel momento solo i lavoratori europei ai lavoratori marocchini delle industrie dei fosfati, delle ferrovie e delle grandi imprese pubbliche, il lancio di programmi scolastici gratuiti ed alcune importanti acquisizioni giuridiche, come il Codice delle libertà pubbliche, quello sulla libertà di stampa e un codice penale più liberale.

Si trattò di una stagione breve che si richiuse già a partire dagli anni 1962-63, quando molte di queste riforme vennero svuotate di senso e il Makhzen dell’allora sovrano Maometto V mise all’indice il Partito Comunista Marocchino e fece assassinare a Parigi Mehdi Ben Bella, storico dirigente USFP. Già nel 1963, il vecchio sistema politico marocchino si era ricostituito sulla falsariga di quello coloniale che lo aveva preceduto, pur in assenza dei coloni francesi, con i quali l’alta borghesia nazionalista continuò a mantenere ottimi rapporti commerciali e strette relazioni culturali. Il passaggio formale tra il sistema coloniale francese a quello neocoloniale dell’élite marocchine si operò attraverso la vendita diretta delle terre agricole che erano appartenute ai coloni alla Monarchia, che ne fece dono a una piccola parte dell’élite terriere altoborghesi tenendone una consistente parte per sé. Altre misure a essa complementari sarebbero state il piano industriale per il Marocco, che avrebbe puntato esclusivamente sulla creazione di industrie di sostituzione di prodotti importati dall’Europa, e la “maroccanizzazione” di facciata dei maggiori servizi pubblici, che avrebbero integrato tra i dirigenti nei loro consigli di amministrazione molti ex coloniali.

Dal 1963 in poi, sotto il nuovo ed energico sovrano Hassan II, iniziò anche la politica del terrore, che portò tanti dissidenti ed oppositori marocchini nelle temibili prigioni di Tazmamart, dove per anni venne praticata sistematicamente la tortura. Dopo il tracollo delle forze politiche che sole erano riuscite a opporsi allo strapotere del Makhzen, il testimone della resistenza passò a forze nuove e maggiormente popolari. Nel 1968 si ebbero le prime manifestazioni dei lavoratori delle miniere: 7000 minatori entrarono in sciopero a Khouribga per due mesi, poi seguite da una serie di manifestazioni degli operai di Casablanca ed altre città. Da buon osservatore politico, però, Serfaty si pose crescentemente il problema di quella massa di giovani ed emarginati che non era nemmeno inquadrata nel proletariato ma costretta a sopravvivere attraverso mille lavori informali, che spaziavano fino al traffico di droga ed alla prostituzione: una massa informe di persone alienate dalla società di cui la sinistra avrebbe dovuto occuparsi, ma a cui il Partico comunista marocchino, al quale Serfaty apparteneva, non si rivolgeva. Da qui i suoi appelli per una modernizzazione dell’ideologia comunista che non fosse più dottrinariamente incardinata sul proletariato organizzato riconosciuto come unica forza autenticamente popolare, ma che sapesse guardare all’insieme della società per includere e rappresentare tutte le classi svantaggiate. Per non parlare del desiderio di fondare una forza politica che guardasse con più attenzione ai problemi concreti del Marocco e meno a un’artificiale e astratta classe operaia mondiale, da cui nascerà il progetto di fondare il partito ‘Ila al Amam nel 1970.

Nonostante l’effervescenza politica registratasi in Marocco a partire dagli anni ’70, Hassan II non si piegò e non modificò minimamente la sua linea politica, orientata a soddisfare le esigenze del capitalismo francese ed europeo con beneplacito e guadagno dell’alta borghesia marocchina, a sviluppare le industrie strategiche nazionali senza prendere in carico alcuna richiesta dei lavoratori, a mantenere la maggioranza della popolazione incolta in modo che non potesse politicizzarsi, a espropriare le terre ai contadini in nome dell’efficienza economica e condurre una spregiudicata politica estera filo-Israeliana e filo-francese che andava contro il sentimento popolare delle masse.

È contro questo despota nient’affatto illuminato e per il bene del suo Paese che Serfaty, a capo dell’OCP (industria dei fosfati) decise di appoggiare le rivolte dei minatori ed ergersi rischiosamente contro il potere. Scelta che, dalle iniziali lotte operaie, lo portò a criticare altre scelte politiche operate dal sovrano, avvicinandosi a temi sensibili di “interesse nazionale” che nel Marocco di quegli anni, ed ancora oggi, non è possibile dibattere in pubblico e nemmeno menzionare (Hassan II amava dichiarare: “Non posso liberare coloro che rimettono in discussione quattordici secoli di storia marocchina”). Tra questi figurano due grandi temi, di cui uno di politica estera, la “questione sahrawi”, che già dal 1963 e a più riprese ha portato Marocco ed Algeria sull’orlo di una guerra, e uno di politica interna, ovvero la repressione della cosiddetta rivolta del Rif, ovvero delle tribù berbere ed estremamente povere del nord del Marocco, che lasciò sul terreno tra i 2000 e gli 8000 morti tra il 1958 e il 1959.

Sarà soprattutto la questione sahrawi a condurre, però, Serfaty nelle liste degli oppositori più pericolosi del regime, ovvero di coloro che vogliono rimettere in discussione l’integrità territoriale del Marocco.

Serfaty e il suo piccolo partito contestavano la sovranità marocchina sul Sahrawi, dimostrando come le tradizioni storiche a cui fa riferimento la monarchia alawita -la cosiddetta “beϊa” o giuramento di fedeltà delle popolazioni sahrawi al monarca del Marocco - non avesse natura politica, ma solo religiosa, attestata anche dall’appellativo conferito al Re da tutte le tribù e i gruppi che gli riconoscono questo ruolo: Amir al-Mouminin, emiro dei credenti. L’alleanza tra popolo sahrawi e marocchino, a cui il Makhzen attribuisce carattere politico, non sarebbe altro che una reinterpretazione in chiave moderna di un rito antico di origine religiosa di riconoscimento di tutte le popolazioni della regione nella 'umma islamica. Tuttavia, dato che sono stati scoperti importanti giacimenti di fosfati proprio nel Sahara occidentale, la riesumazione del rito tradizionale di legame tra i popoli della regione e il sovrano alawita è successivamente servito per affermare un controllo diretto su un territorio ricco di ricorse naturali, dallo sfruttamento delle quali le popolazioni locali sono state estromesse.

La critica sempre ribadita dal sovrano marocchino, che non esista una nazione sahrawi che possa aspirare all’indipendenza, riecheggia anche troppo da vicino quella israeliana al nazionalismo palestinese. Se è vero che non esiste un nazionalismo sahrawi atavico - così come non ne esiste nessun altro, sulla falsariga della creazione di tutte le identità nazionali ben illustrata da Benedict Anderson - è indiscusso che a partire dagli anni ’73, con la creazione del Fronte Polisario si viene a creare una nuova consapevolezza collettiva nel popolo sahrawi, riconosciuta loro anche dalla Commissione delle Nazioni Unite in visita nella regione nel 1975. Al cuore della questione sahrawi si gioca, per i marocchini progressisti, tra cui Serfaty, la contraddizione tra nazionalismo buono e cattivo, tra lotta per l’indipendenza nazionale (dalla Francia, appena una generazione prima) e complicità nell’oppressione di un altro popolo in nome di quegli stessi principi. La lotta viene repressa nel sangue e tra il 1973 e il 1975, prima della Marcia Verde, e moltissimi attivisti comunisti e di formazione marxista-leninista furono condannati a lunghe pene (fino a quindici anni) di detenzione nel carcere di Kenitra.

Serfaty rimase un radicale durante tutti i lunghi anni di prigionia ed oltre, per tutta quanta la sua vita. Nel 1991, ancora fedele al suo partito ‘Ila al Amam, è tra i firmatari del suo nuovo programma politico, che chiedeva chiaramente l’abolizione della monarchia e l’instaurazione di una repubblica. Radicale anch’esso, il partito chiedeva la dissoluzione di tutti gli organi forti dello Stato -la polizia, il Ministero dell’Interno, l’esercito e l’apparato giudiziario - perché non suscettibili di riforma, essendo da sempre collusi e specchio del Makhzen. Invocava anche l’amnistia per tutti i detenuti politici che marcivano ancora nelle carceri di Hassan II, l’abolizione della pena di morte e la costituzione di uno Stato laico fondato su un’effettiva divisione tra i poteri giudiziario, legislativo e esecutivo che in Marocco non si era mai data. Soprattutto chiedeva alcune delle riforme che sarebbero poi state incorporate, venti anni dopo, a seguito delle Primavere arabe e del Movimento 20 febbraio, dal Partito islamico Giustizia e Sviluppo (PJD) e dalla lega berbera. Tra queste, l’introduzione dell’arabo nella scuola secondaria e all’università, il cui insegnamento oggi avviene ancora prevalentemente in francese, e quella della lingua amazigh (o meglio sarebbe dire delle lingue amazigh) nelle scuole di ogni ordine e grado: un riconoscimento ufficiale che la lingua berbera ha ricevuto nella nuova Costituzione octroyée del 2011, poi restato lettera morta. Tutte proposte che devono ancora trovare in Marocco accoglienza da parte di una grande forza politica che voglia farsene paladina, cosciente del ritardo culturale e sociale che il Paese continua a soffrire proprio a causa dell’assenza di libertà politica.

Conclusioni: Serfaty, precursore delle lotte del XXI secolo?

Serfaty è stato un precursore delle lotte del XXI secolo? La risposta in merito non può essere univoca.

Nel 1999, conquistato dall’offerta generosa del nuovo sovrano Mohammed VI appena succeduto al padre di farlo rientrare, il vecchio Serfaty scrisse un panegirico del nuovo Re, che si presentava come il “Re dei poveri” e sembrava annunciare una nuova stagione di democrazia per il Marocco. “Mohammed VI” scrisse “vuole costruire un Marocco moderno e democratico e fa assegnamento su una grande società civile che sta vivendo un forte risveglio. (…) Il nuovo Re si fonda su un governo che rappresenta le forze democratiche del Paese ed esprime, almeno per quanto riguarda il suo nucleo principale, costituito da socialisti ed ex-comunisti, la volontà del suffragio universale.” (Alberto Castelvecchi (a cura di), Al Qa'ida: dall'Afghanistan a Madrid, Castelvecchi Editore, Roma, 2004:54). Un elogio del nuovo sovrano, che si riproponeva di chiudere il centro di torture e la rete di prigioni in cui Serfaty e i suoi compagni erano stati tanto a lungo detenuti, dando loro finalmente la possibilità di partecipare alla vita politica del Paese e al suo governo nel 2002. Un elogio tributato al giovane sovrano sulla base di speranze e proiezioni che si riveleranno presto infondate e che inviò un segnale sbagliato ai militanti che guardavano a Serfaty come un riferimento intellettuale.

Molte altre delle direzioni ve delle piste da lui indicate in politica interne ed internazionale non sono state seguite dalle generazioni di attivisti più giovani, non hanno germogliato e non hanno trovato gruppi politici e sociali progressisti orientati ad accoglierle, nonostante il loro carattere innovativo e fecondo. Tra le sue tracce più feconde, lasciate alle nuove generazioni, rimane il suo opuscolo su “Marxismo e religione” del 1983, in cui Serfaty espresse la possibilità e propose l’opportunità di operare una convergenza tra marxisti e credenti (islamisti), sostenendo che i due gruppi, da sempre antagonisti ed opposti su una questione extrapolitica (l’esistenza di Dio), avrebbero benissimo potuto cooperare su questioni tattiche e strettamente politiche che attengono a questo mondo.

Nel 1989, il piccolo partito ‘Ila al Amam pubblicò un breve testo in cui riconosceva l’Islam come una delle componenti fondamentali della futura repubblica marocchina. Qualche anno prima, nel 1985, lo sceicco Yassine, un oscuro maestro di scuola, aveva fondato una nuova forza politica islamista antimonarchica destinata a un grande seguito nel Paese, l’’Adl wa al Ihsane (Giustizia e Benevolenza). ‘Ila al Aman desiderava forse aprire a queste nuove tendenze profonde del popolo, che non potevano prescindere dal concepire la giustizia all’infuori della religione. Recuperava, dunque, una nozione di Islam, ma con un’accezione limitata: “L’Islam per il popolo marocchino si riassume in un’aspirazione alla giustizia ed al diritto. Anche noi operiamo per questi principi, perché diventino il fondamento dello Stato marocchino. Noi speriamo che dall’Islam marocchino emerga una tendenza progressista che si ispiri alla teologia della liberazione cattolica in America Latina. Non possiamo, però, accettare né la shari’a, né l’oppressione delle donne” (Serfaty, Dans les prisons du Roi, cit.:245)

La via di convergenza è indicata, ma resta un lungo cammino da percorrere perché la sinistra laica e europeizzata di ‘Ila al Amam - oggi confluita nel minuscolo e pressoché ininfluente partito An-Nahj ad-dimocrati (La voce democratica) -, i cui riferimenti restano prevalentemente occidentali, e la sinistra popolare islamica, si possano incontrare e riconoscere come alleate in una lotta politica contingente che ha lo stesso fine, ovvero fare del Marocco una vera democrazia. Eppure questa resta una delle piste più feconde esplorate da Serfaty e lasciata ancora tutta da esplorare: come coniugare l’identità profonda dei popoli, tenendo conto degli elementi storici e di particolarismo che li definiscono in quanto tali, con le lotte universali per la democrazia e la giustizia, nella consapevolezza che l’aspirazione profonda di tutti i popoli sia, in fondo, quella di maggiore uguaglianza, libertà e benessere. Una sfida difficile per la Sinistra e la sua rifondazione nel XXI secolo, che attende ancora al varco anche l’Europa. 

Casella di testo

Citazione:

Claudia De Martino, Rileggere l'opera di Abraham Serfaty, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", V, 2, dicembre 2016

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