"Free Ebrei", V, 2, novembre 2016
Gli israeliani beduini del Negev: una lotta quotidiana
per la sopravvivenza
di Alessandra Terenzi
AbstractAlessandra Terenzi analyzes the condition of the Bedouin minority in Israel and the future of their nomadic culture.
Negli ultimi mesi, tra i titoli più diffusi di numerosi giornali on-line su Israele e
Palestina, si legge: “Israel demolishes
Bedouin village al-Araqib for 100th time”.
In effetti Al-Araqib è uno
dei numerosi villaggi beduini non riconosciuti dalle autorità governative
israeliane e pochi giorni fa, il 29 giugno 2016 (durante il mese del Ramadan),
le forze di sicurezza israeliane hanno nuovamente demolito le strutture del villaggio.
I beduini del
Negev sono cittadini israeliani, di etnia araba e religione musulmana,
tradizionalmente divisi in tribù.
Il deserto
del Negev occupa il 60% della superficie di Israele e accoglie oggi l’8% della
popolazione: di questi, il 33% sono beduini, che occupano solo il 3% della
superficie del Negev.
Fin dalla creazione
dello Stato di Israele, il governo si concentrò sulla missione di
sedentarizzare le comunità nomadi del deserto e dal 1967, dopo la Guerra dei
Sei Giorni, fu avviato il piano di sviluppo per sette new towns, progettate per ospitare unicamente beduini.
Il progetto puntava
a ridefinire la dimensione territoriale del Negev, concentrando le aree abitate
entro strutture urbane densamente popolate definite da rigidi confini ed
eliminando progressivamente tutti i villaggi spontanei, dispersi nel territorio
e difficilmente controllabili.
Dal punto di
vista territoriale-paesaggistico, infatti, il Negev divenne sin da principio il
banco di prova per molteplici sperimentazioni, non solo architettoniche e
urbanistiche, ma altresì legate a nuove tecniche di irrigazione, bonifica e
coltivazione, sulla scia dell’originario progetto sionista di “ritorno alla
terra” e di “bonifica del deserto”.
Ad oggi, su un
totale di 210.000 beduini presenti in Israele, circa 135.000 vivono nelle New Towns, mentre i restanti vivono
ancora in decine di villaggi per lo più non riconosciuti dallo Stato (privi
quindi di servizi collettivi primari e infrastrutture di base quali sistema
fognario, idrico, elettrico).
Gli abitanti
di tali villaggi vivono di un’economia basata sull’allevamento di capre,
pecore, cammelli e soprattutto praticano ancora il baratto: molte tribù
producono infatti formaggio, che scambiano con altri beni di base provenienti
da altre comunità.
Tuttavia, la
politica costante di demolizione che il Governo opera nei confronti di tali
villaggi – Al Araqib è solo uno dei tanti – rende pressoché impossibile
mantenere lo stile di vita tradizionale pastorale dei loro abitanti, impedendo loro
l’accesso ai pascoli e alle risorse idriche.
Le strategie
territoriali governative stanno dunque progressivamente modificando la
struttura insediativa del luogo, costringendo molti beduini ad abbandonare gli
originari villaggi in cerca di condizioni di vita migliori nelle città vicine (Piano
Prawer, 2011). Quest’ultime, tuttavia, costruite negli anni Settanta per
sedentarizzare i beduini del Negev, non sembrano pronte ad accogliere i nuovi
abitanti attraverso un’adeguata offerta economica e sociale.
Un esempio
tra tutte è quello di Rahat - circa 20 Km a nord di Beer Sheva - la più grande
città beduina di Israele, nota purtroppo per le sue condizioni di profonda
arretratezza, economica e sociale e di cui oltre la metà della popolazione vive
sotto la soglia di povertà.
Come le
altre città beduine, Rahat è una città densamente abitata, caratterizzata da un
alto tasso di nascite, che raggiunge il 5% (consideriamo che la media europea è
dello 0,4%) e da un livello di istruzione generalmente basso.
I fondi
disponibili per scuole, servizi primari e infrastrutture di base sono sempre
troppo esigui.
La zona
centrale della città, così come le principali arterie urbane, sono dotate di
un’area commerciale, che tuttavia non si è mai sviluppata come nelle iniziali
previsioni di piano. I quartieri (35 in tutto, ognuno abitato da un clan
diverso) sono relativamente lontani dal centro, i prodotti venduti sono
limitati e i prezzi elevati; tutto ciò rende la vicina Beer Sheva molto più
attrattiva per soddisfare il mercato giornaliero degli abitanti di Rahat.
Molti
abitanti, inoltre, hanno riadattato la loro antica natura di commercianti
nomadi in chiave urbana: alcuni hanno aperto botteghe e negozi informali presso
le loro abitazioni, altri hanno sviluppato un nuovo business di intermediazione
comprando prodotti a Beer Sheva e rivendendoli in città. E’ dunque evidente
come le prospettive di sviluppo di un mercato autonomo a Rahat siano scarse e
potenzialmente destinate a rimanere tali nel prossimo futuro.
Anche le
opportunità di lavoro a Rahat sono esigue: il tasso di disoccupazione raggiunge
il 33% per gli uomini e l’85% per le donne e il 64% degli uomini è costretto a
spostamenti pendolari quotidiani verso Beer Sheva, dove gli abitanti di Rahat
trovano generalmente impiego nei settori dell’edilizia, autotrasporto,
industria, agricoltura e servizi.
Molti
beduini – non solo a Rahat - prestano servizio presso l’IDF (Israeli Defence
Force) che, per quanto non sia obbligatorio per loro, rappresenta pur sempre
una possibilità di impiego e di guadagno in più.
La strategia
insediativa del governo nel deserto del Negev è stata da molti identificata con
l’infelice slogan: “Più arabi possibile
nel più piccolo spazio possibile!”
In realtà –
come sempre - la situazione è molto più complessa di quanto non si cerchi di
condensare in questi slogan.
Si tratta
della necessità di ridefinire la struttura di un territorio vasto, difficile da
gestire da molteplici punti di vista (insediativo, climatico, infrastrutturale,
sociale e politico). La presenza infatti di innumerevoli piccoli villaggi - ognuno
abitato da una tribù diversa - rende estremamente costoso l’intervento da parte
dello Stato per dotare ogni nucleo abitato di un adeguato livello di accessibilità
infrastrutturale e dei basilari servizi primari.
Il Negev, inoltre,
rappresenta da sempre, da un punto di vista politico-militare, un territorio
strategico per Israele, dividendo la West Bank dalla Striscia di Gaza: il suo
controllo capillare - così come quello dei suoi abitanti e della loro
composizione etnica - è necessario per monitorare a livello di sicurezza i due
territori a maggioranza palestinese e i flussi di traffici e persone che
intercorrono tra gli stessi, nonostante l’embargo sostanziale vigente nella
Striscia.
Infine, il
Negev è anche territorio politicamente sensibile per i nuovi flussi migratori
africani in provenienza dal Sinai egiziano, che vi transitano in direzione
della costa e del cuore economico del Paese, ma anche per i possibili
sconfinamenti di jihadisti e beduini egiziani che possono trovare ospitalità e
collaborazione nelle comunità beduine oltreconfine.
Un ultimo
aspetto, sempre rilevante dal punto di vista sociale, consiste nel fatto che lo
stile di vita tradizionalmente nomade e peculiare dei beduini del deserto non
abbia nulla a che vedere con l’immagine che Israele ha sempre cercato di
offrire di sé al mondo: quella di un Paese moderno, occidentale, tecnologicamente
avanzato e all’avanguardia.
In altre
parole, i beduini rappresentano un po’ l’“altro volto” d’Israele, quello che
viene poco propagandato all’estero.
In Israele,
essi rappresentano dunque una “doppia minoranza”: non solo fanno parte della
minoranza degli Arabi israeliani, ma sono altresì considerati il settore più
arretrato delle culture arabe del Medio Oriente e rappresentano il settore più
povero della società Israeliana.
E’ chiaro, dunque,
come - sia nelle new towns sia nei
villaggi - il lento cammino verso la sedentarizzazione di queste comunità, per
quanto “incoraggiato” dall’alto con forte spinta del Governo di Israele, sia un
processo ancora in atto e ben lontano dal concludersi.
Tuttavia la
situazione attuale, le condizioni di vita di questo gruppo di cittadini
israeliani, dimostrano già come certe scelte si stiano dimostrando
fallimentari.
Forse si è
ancora in tempo per rivedere queste politiche governative, legate alla
pianificazione urbana e del territorio, decidendo di affrontare le numerose
realtà legate a sacche urbane di povertà, arretratezza e degrado piuttosto che
perseguire una politica di isolamento sistematico delle fasce più deboli della
popolazione israeliana (non solo i beduini) che col tempo non farà altro che
aggravare tali realtà, favorendone una pericolosa espansione a macchia d’olio
sull’intero Paese, ma soprattutto comportando potenzialmente una loro ulteriore
alienazione dalla componente maggioritaria ebraica.
Casella di testoCitazione:
Alessandra Terenzi, Gli israeliani beduini del Negev. Una lotta quotidiana per la sopravvivenza, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", V, 2, novembre 2016
url: http://www.freeebrei.com/anno-v-numero-2-luglio-dicembre-2016/alessandra-terenzi-gli-israeliani-beduni-del-negev
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