Stefano Fabei, Una spada per l'Islam?

"Free Ebrei", V, 1, febbraio 2016

Abstract

Stefano Fabei, one of the most important historians of Fascist foreign politics, interviews himself by explaining the particular relationship between Italian Fascism and political Islam during the 1930s, which is to be considered a long-period factor in Italian foreign politics.

Una spada per l’Islam?

di Stefano Fabei*

Quali sono stati i caratteri salienti dei rapporti tra il Fascismo e l’Islam?

Già prima della marcia su Roma posizioni filo-arabe e filo-islamiche erano presenti all’interno dei fasci di combattimento: derivavano dalle molteplici esperienze politiche confluenti nel movimento fondato da Mussolini il 23 marzo 1919: da quella socialista a quella repubblicana, dall’anarchica alla sindacalista rivoluzionaria, dall’arditismo al futurismo avanguardista. L’idea di un’Italia «nazione proletaria», nemica naturale di quelle plutocratiche e imperialiste era molto diffusa in questo primo fascismo «di sinistra», repubblicano e rivoluzionario, ed in quel periodo essa emerse con un certo vigore anche nel corso dell’esperienza fiumana. Tra la fine della Prima guerra mondiale e l’avvento al potere di Mussolini una serie di fatti e circostanze politiche, interne e internazionali, permisero all’Italia d’essere, o almeno apparire, la nazione in grado di fare da tramite, da intermediaria tra l’Oriente e l’Occidente. Un mese prima della marcia su Roma Gabriele D’Annunzio, scoperte le grandi e molteplici affinità tra il Vangelo e il Corano, affermò che proprio dall’Oriente sarebbe venuta «la forza nuova per l’Italia nuova: di questa Italia che il destino ha voluto costituisse geograficamente e spiritualmente il ponte tra l’Occidente e l’Oriente.»

Poi, però, nei primi otto anni di potere Mussolini non portò avanti un’autonoma politica araba perché la politica estera italiana aveva come fondamentale punto di riferimento quella inglese, e dall’andamento dei rapporti con Londra dipendeva la politica di Roma nei confronti degli arabi. Essendo in corso la «riconquista» della Libia, era poi difficile per Mussolini avviare un vero e proprio dialogo con il mondo arabo. Inoltre gli impulsi a una politica estera veramente rivoluzionaria, anche nei confronti dei Paesi arabi, sostenuta dai fascisti più dinamici, erano soffocati dall’eccessiva influenza che avevano nel regime nazionalisti e cattolici conservatori. Solo all’inizio degli Anni Trenta la nostra politica araba cominciò a caratterizzarsi in maniera più autonoma e dinamica, presentando l’Italia come «ponte» tra l’Est e l’Ovest, un punto di riferimento, un «faro di luce» per le nazioni islamiche. Non a caso tra il 1930 e il 1936 Roma cercò di accentuare la sua azione culturale ed economica nel Medio Oriente e nell’area arabo-islamica in generale. Pensiamo all’inizio a Bari della Fiera del Levante nel 1930; ai convegni degli studenti asiatici organizzati a Roma sotto il patrocinio dei Gruppi Universitari Fascisti nel 1933 e nel 1934; a Radio Bari, che iniziava le sue trasmissioni in arabo nel maggio del 1934; all’attività di penetrazione nella stampa nordafricana e mediorientale con sovvenzioni a giornali e giornalisti; all’Istituto per l’Oriente e l’Istituto Orientale di Napoli, centri di attività culturale che svolgevano una proficua azione politica. Secondo Said Sciartuni, un collaboratore arabo della «Vita italiana», la rivista di Giovanni Preziosi, a prescindere dai rapporti economici e commerciali esistenti, tra mondo arabo e l’Italia fascista esisteva un «legame ideologico» che avrebbe avuto il suo peso effettivo nei loro rapporti futuri.

In che consisteva questo legame?

Il mondo arabo secondo Said Sciartuni era un fertile campo per l’espansione del fascismo, ritenuto un mezzo essenziale per la rinascita degli arabi e l’Italia era chiamata a svolgere una propaganda per lo sviluppo del fascismo in Oriente; così avrebbe potuto combattere il comunismo nei Paesi arabi conquistandosi ampie simpatie. Ai valori dell’Islamismo (ma anche del Buddismo) si sarebbe poi rifatto, subito dopo l’inizio della campagna razziale, il presidente dei CAUR (i Comitati di Azione per l’Universalità di Roma, la cosiddetta «internazionale fascista»), Eugenio Coselschi, nel messaggio rivolto, nel settembre 1938, al Congresso antibolscevico e antigiudaico di Erfurt, per contrapporre alle «nefaste dottrine che propongono l’assoggettamento di tutte le nazioni e di tutte le razze alla tirannia di un’unica razza sottomessa alle prescrizioni del Talmud la santità della croce cristiana, la saggezza del Corano e la chiaroveggenza di Budda» e per esaltare «l’idea universale di Roma» e la sua battaglia spiritualista in nome di tutti i «credenti, e i devoti, sia a Cristo, a Maometto o a Budda» contro il vile materialismo.

Mussolini e la spada dell’Islam. Quale la storia? Alla base del legame che s’instaurò vi era solo una visione di Realpolitik del dittatore?

È questa la terza fase della politica arabo-islamica del fascismo, quella relativa alla seconda metà degli Anni Trenta, gli anni dell’Asse, il giorno prima della cui nascita, il 24  ottobre 1936, Hitler aveva dichiarato a Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri e genero del Duce, che il Mediterraneo era un «mare italiano» e che qualsiasi modifica futura nell’equilibrio mediterraneo si sarebbe dovuta fare a favore dell’Italia, così come la Germania avrebbe dovuto avere libertà di azione verso l’Est e verso il Baltico. Orientando i dinamismi delle due potenze «fasciste» in queste direzioni opposte, non si sarebbe mai potuto avere un urto d’interessi tra Germania e Italia. In altri termini, secondo Hitler, i Paesi arabi sotto controllo francese e inglese, quasi nella loro totalità, facevano parte della sfera d’influenza di Roma. L’anno dopo, il 18 marzo 1937, il Duce, durante il suo viaggio trionfale in Libia, assunse il titolo di «Spada dell’Islam». Mussolini era il protettore dei musulmani, in Libia, in Etiopia, dove li aveva sottratti alle vessazioni del Negus, in Palestina e un po’ ovunque nel Mediterraneo. A prescindere dai rapporti economici e commerciali esistenti tra mondo arabo e Italia fascista, la politica mediorientale e la questione araba divennero argomento della stampa di regime.

Qual è stata l’influenza inglese nelle relazioni tra Italia e mondo arabo?

La Gran Bretagna è stata sempre la maggiore antagonista dell’Italia nel Mediterraneo, ma, come nella politica araba della Germania, così in quella dell’Italia si tese a non pregiudicare i rapporti con Londra, almeno fino al momento in cui, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, la rottura diventò irreversibile. Dall’andamento delle relazioni con gli inglesi dipese l’appoggio al nazionalismo arabo e ai movimenti di liberazione dell’area mediorientale, come quello palestinese.

Appartiene davvero all’internazionalismo di sinistra, come una certa vulgata sostiene, il primato storico nell’aver dato supporto alla causa palestinese?

Assolutamente no. Fu l’Italia il primo Stato europeo a sostenere in modo concreto la lotta di liberazione del popolo palestinese dal mandato britannico e dal progetto sionista in Terrasanta. Tra il 1935 e il 1938 l’Italia versò al Gran Muftì di Gerusalemme, che guidava la rivolta del popolo palestinese contro le forze militari della Gran Bretagna e contro l’immigrazione ebraica, circa 213.000 sterline, più di 15 milioni di euro ai valori attuali. Questo contributo finanziario fu deciso dal Duce all’indomani della guerra d’Etiopia, non solo in ragione della posizione assunta dall’Italia nei confronti del nazionalismo arabo, e «per dar fastidio agli Inglesi», ma anche in omaggio alle posizioni anticolonialiste del Mussolini socialista rivoluzionario e del primo fascismo. Oltre al denaro, il ministero degli Esteri decise di inviare ai mujāhidīn palestinesi un consistente carico di armi e munizioni, in principio destinato al Negus ma acquistato in Belgio tramite il SIM. Questo materiale, depositato per quasi due anni a Taranto, sarebbe dovuto giungere, tramite intermediari sauditi, ai palestinesi impegnati nella prima grande intifāda per abbattere il regno hascemita di Transgiordania, porre fine al protettorato britannico, bloccare l’arrivo di altri ebrei e il progetto sionista in Terrasanta.

Qual è stato il contributo materiale offerto dal mondo islamico alle forze dell’Asse durante la Seconda guerra mondiale?

Si tratta di un contributo molto significativo, difficile da quantificare numericamente. Volendo azzardare qualche cifra diremo che oltre 300.000 furono i musulmani delle regioni islamiche dell’Unione Sovietica (caucasici, turchi di Crimea, tartari del Volga, turkestani, azeri, ecc.) che si arruolarono con i tedeschi per combattere contro l’Armata Rossa di Stalin; 117.000 i caduti. Per quanto riguarda gli arabi, tra il 1941 e il 1945, si calcola che 500 siriani, 200 palestinesi, 450 iracheni, e 12.000 circa tra algerini, tunisini, marocchini ed egiziani si unirono attivamente all’Asse. 6.300 fecero parte d’unità militari del Reich, poche centinaia combatterono con le mostrine del Regio Esercito o della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, altri ancora militarono nelle unità della Francia di Vichy. Emanuel Celler, membro del Congresso degli Stati Uniti, il 10 aprile 1946 dichiarò che duemila soldati arabi dell’Asse prigionieri di guerra erano ospiti del campo di prigionia di Opelika, nell’Alabama. Nei Balcani poi, oltre 30.000 volontari della Bosnia, dell’Albania e di altre regioni musulmane entrarono nelle Waffen SS, cui bisogna aggiungere quelle migliaia di fedeli di Allah che combatterono in milizie e formazioni autonome.

Perché questa pagina di storia che riguarda il rapporto tra Fascismo e mondo arabo è rimasta, fino ai giorni nostri, così poco conosciuta?

In effetti, si tratta di un capitolo molto trascurato dagli storici, non solo da quelli dei movimenti filofascisti, che allora nacquero e si svilupparono un po’ in tutto il mondo, ma anche, lacuna ancor più grave, dagli storici del colonialismo e della decolonizzazione; infatti il fenomeno filofascista di certi Paesi e gruppi politici, nel mondo arabo-islamico in particolare, fu anzitutto un corollario della resistenza al colonialismo. E poi c’è stata la tendenza ad assimilare, senza i necessari distinguo, il fascismo al colonialismo, per non parlare dell’imbarazzo che la simpatia e il sostegno di molti musulmani del cosiddetto Terzo Mondo alla guerra dell’Asse suscitavano in certi ambienti politici e culturali.

Recentemente la figura del Gran Muftì di Gerusalemme è tornata alla ribalta quando Benjamin Netanyahu ha sostenuto che Hitler non voleva sterminare gli ebrei, solo espellerli e che fu il leader arabo, parente stretto di Arafat, a suggerirgli di «bruciarli».

Netanyahu ha cercato di far passare la tesi per cui la primogenitura dell’idea di Olocausto sarebbe da attribuire ai palestinesi, ma, ovviamente questa un’affermazione strumentale priva di fondamento storico, destinata a fallire come tutti i tentativi di asservire la storia alla politica sono falliti. Che il Gran Muftì Amin al-Husayni negli anni Venti e Trenta abbia guardato con simpatia al fascismo e al nazionalsocialismo è, come ho detto, cosa nota e illustrata a fondo nei miei tre volumi editi da Mursia fra il 2002 e il 2005.

Con Hitler l’esponente palestinese collaborò per una scelta di Realpolitik determinata dal fatto di condividere gli stessi nemici dell’Asse, Gran Bretagna e Francia in primis, entrambe potenze coloniali. Se, per inciso, non esiste un documento nel quale Hitler abbia messo chiaramente nero su bianco «l’ordine» di sterminare gli ebrei, ancor meno provabile è un coinvolgimento del Gran Muftì nella programmazione e nell’attuazione dell’Olocausto. Quanto all’«antisemitismo» del leader palestinese, tale affermazione è priva di senso, essendo gli arabi semiti come gli ebrei. Come ho detto altrove, la storia, intesa come disciplina scientifica, non deve essere né falsificata né usata a fini politici; deve cercare di avvicinarsi alla realtà, ricostruendola sulla base dei documenti. 

L’«islamofascismo», categoria che molti recentemente utilizzano per definire al-Qaeda o l’ISIS ha una qualche validità storica?

No. Il fascismo e il nazionalsocialismo sono fenomeni politici storicamente conclusi e irripetibili; l’Islam è una religione e anche, secondo certe interpretazioni, una concezione dell’uomo e del mondo in cui si fondono, e devono fondersi, religione e politica. La categoria di «islamofascismo», suggestiva alle orecchie di qualcuno, è storicamente priva di fondamento, un’assurdità.

* Stefano Fabei insegna all’Istituto di Istruzione Superiore «Giordano Bruno» di Perugia.  Già autore di saggi per «Studi Piacentini» e «Treccani Scuola», collabora a «I sentieri della ricerca», «Eurasia», «Storia in rete» e «Nuova Storia Contemporanea», «Rassegna siciliana di storia e cultura». Ha scritto: La Politica maghrebina del Terzo Reich (1988), Guerra santa nel Golfo (1990); Guerra e proletariato (1996); Il Reich e l’Afghanistan (2002); Il fascio, la svastica e la mezzaluna (2002), tradotto in Francia nel 2005 (Le Faisceau, la Croix gammée et le Croissant); Les arabes de France sous le drapeau du Reich (2005); Una vita per la Palestina. Storia del Gran Mufti di Gerusalemme (2003), Mussolini e la resistenza palestinese (2005), I cetnici nella Seconda guerra mondiale (2006), Carmelo Borg Pisani. Eroe o traditore? (2007), La «legione straniera» di Mussolini (2008), Operazione Barbarossa. 22 giugno 1941 (2009); I neri e i rossi. Tentativi di conciliazione tra fascisti e socialisti nella Repubblica di Mussolini (2011), Fascismo d’acciaio. Maceo Carloni e il sindacalismo a Terni, 1920-1944 (2013); Il generale delle Camicie nere (2013); «Tagliamento». La legione delle Camicie nere in Russia 1941-1943 (2014); Storia del Marocco moderno (2014); La Grande guerra e la rivoluzione proletaria (2015).

Casella di testo

Citazione:

Stefano Fabei, Una spada per l'Islam?, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", V, 1, febbraio 2016

url: http://www.freeebrei.com/anno-v-numero-1-gennaio-giugno-2016/stefano-fabei-una-spada-per-lislam