Enrico Manera, Furio Jesi. Mito, violenza, memoria

"Free Ebrei", III, 1, aprile 2014

 

 

Enrico Manera, Furio Jesi. Mito, violenza, memoria, Roma, Carocci, 2012, 158 pp., € 13

 

di Vincenzo Pinto

 

Abstract

Enrico Manera's essay on Furio Jesi is an innovative attempt to analyze the so-called "mythological machine" by the Italian Jewish philosopher and how its most important concept is to be applied to contemporay humanities.

 

L'esigenza di fare chiarezza su una delle personalità del mondo culturale italiano novecentesco più atipiche e più affascinanti ha indotto il giovane filosofo Enrico Manera a dedicare un'ampia e documentata biografia intellettuale al mitologo Furio Jesi (1941-1979). Il lavoro, che rielabora la tesi di dottorato in filosofia teoretica discussa a Torino nel 2009 sotto la guida di Gianluca Cuozzo, rappresenta il culmine di un interesse pluriennale manifestato dall'A. verso la figura di Jesi, già espresso nella cura del volume monografico della rivista "Riga" insieme a Marco Belpoliti. Questa monografia organica - come si legge nella quarta di copertina - muove dalla biografia intellettuale di Jesi e, affrontando gli snodi più significativi della sua produzione storiografica, "intende illustrarne le ragioni di attualità e smontare l'immagine di genio isolato e incomprensibile per restituirlo al contesto culturale e al dibattito coevo", onde sviscerarne la sua "effettiva originalità". Cerchiamo di capire quanto l'A. sia riuscito nel suo intento, a partire dalla centralità conferita al "mito".

 

La prima parte del libro è dedicata alle opere giovanili di Jesi (fine anni Cinquanta, primi anni Sessanta), in particolare al passaggio dallo studio del mito nel mondo antico a quello della letteratura moderna. L'A. analizza gli scritti dedicati all'Egitto e alla Grecia, che non vanno considerati esempi di erudizione fine a se stessa, ma sono i primi esempi di apparizione della "religio mortis". Il tema della "morte" appare come onnicomprensivo della concezione storico-sociale di Jesi, interessato al mutamento della sua elaborazione culturale dall'antichità al presente. Il mito, fruibile attraverso le "connessioni archetipiche" (antesignane della "macchina mitologica"), permette di "essere" nell'origine nella forma del "divenire". Sulla base di una concezione vitalistica e nietzscheana del "mito" come "eterno ritorno" del passato nel presente, Jesi sposta progressivamente il suo interesse scientifico dall'archeologia alla letteratura, in particolare verso il mondo culturale tedesco, per comprendere l'uso politico del "mito".

 

La seconda parte del libro è dedicata a una definizione più accurata dell'antropologizzazione e de-metafisicizzazione del mito operata da Jesi, in particolare alla sua funzione sociale, alla sua tecnicizzazione e al suo carattere marxianamente utopico. A fronte del distinguo operato dfal maestro Kerényi tra "mito genuino" e "mito tecnicizzato", l'intellettuale torinese tende col tempo ad abbandonare l'orizzonte metafisico del mito per trasformarlo in una sorta d'inconscio culturale. Nella monografia Germania segreta (1967), dedicata alla reversione del mito nella cultura letteraria di destra tedesca  del primo Novecento, racconta il processo di perversione del mito attuato dalla cultura tedesca: il mito viene deformato proiettando logiche di dominio estranee al senso comunitario di giustizia. La polemica col maestro ungherese nasce dall'esigenza di rivalutare il mito come processo demitizzante e non come ente metafisico, come meccanismo e non come feticcio da adorare. Jesi avverte l'esigenza di rivalutare il mito al di fuori della "religione della morte", per contrastare ogni visione escatologica e martirologica assolutoria della storia.

 

La terza parte del volume è dedicata alla "svolta" mitopoietica di Jesi dopo il 1969. In Mitologie intorno all'illuminismo (1972) lo scrittore torinese cerca di scovare un terreno comune fra le tendenze emancipazioniste dei philosophes e le pratiche dei gruppi mistici ebraici e cristiani all'insegna di una lotta contro l'Antico Regime e della ricerca di una comune genesi storica nell'assenza del divino e nel nichilismo. Il mito desacralizzato come vissuto emotivo e comunitario, sulla scorta di Benjamin, diventa molla propulsiva dell'agire storico. La scienza della mitologia si trasforma in storia della storiografia, cioè analizza le forme di racconto storico sul passato attraverso l'interazione di soggettività e oggettività, senza però afferrare l'inattingibile mito. Se il mito è il noumeno, la macchina mitologica diventa l'apparato capace di "vedere" e "comprendere" i fenomeni mitologici nel corso del loro apparire storico. Rileggendo Lévy-Strass e Dumézil attraverso la teoria psicanalitica junghiana, Jesi giunge all'elaborazione della mitopoiesi, intesa - osserva l'A. - come "dinamica elementare di fondazione della realtà" (p. 88).

 

La quarta e la quinta parte del volume sono dedicate alla teorizzazione e all'attuazione della macchina mitologica. Una volta abbandonati i rigoli metafisici e storicistici, sulla scorta della svolta antropologica Jesi giunge a formulare la sua teoria di macchina mitologica nel corso dei primi anni Settanta. Macchina mitologica designa il meccanismo complesso che produce "immagini di uomini, modelli antropologici riferiti all'io e agli altri, con tutte le varietà di diversità possibili (cioè di estraneità all'io". Diventa - secondo l'A. - "il denominatore comune tra la visione del mondo in cui l'umano e il divino vivevano accanto e l'epoca del disincanto". La "prassi" della macchina mitologica non è nient'altro che l'autobiografia intellettuale di grandi personalità del mondo culturale tedesco fra Otto- e Novecento, come testimonia Materiali mitologici (1979). In Cultura di destra (1979) lo scrittore torinese si scaglia contro l'essenzialismo mitologico della destra politica e culturale italiana, che tende a reificare l'altro e a mettere in moto - come nel caso dell'accusa del sangue rivolta agli ebrei - "fenomeni reattivi ed esplosivi di violenza" (p. 134).

 

L'A. dedica le pagine conclusive alla lezione jesina, in particolare all'applicabilità della sua "macchina mitologica" nella storia culturale del sociale e nella funzione politica dei miti. Se l'identità di ogni essere umano è l'esito della catena di ricezione di discorsi, idee, immagini e testi che l'anno preceduto, allora - osserva l'A. - "la macchina mitologica-individuo interagisce con la macchina mitologica-cultura" (p. 141). Pur rifiutando di elaborare una teoria generale della cultura, di fatto Jesi l'ha tratteggiata nella teoria e nella pratica. La reticenza teorica di Jesi era dettata dal timore di un "ingabbiare" valori e persone: "Da questa condizione sorge il rapporto personale con i significati, secondo un'idea di interpretazione che, pur essendo, già una formula, ha come senso ultimo la tensione verso una non formula, l'emozione, il vivere-uomini permanente". (p. 142).

 

La conclusione dell'A. rinchiude al meglio la forza e la debolezza della produzione intellettuale di Jesi, maestro di pensiero senza eguali per la sua capacità di suscitare negli altri e in se stesso nuovi stimoli alla ricerca e alla demistificazione degli apparati di potere, ma incapace di produrre una teoria effettivamente duratura nel panorama della storia della cultura italiana novecentesca. I suoi lavori sulla cultura tedesca restano la stella polare di ogni studioso di storia della cultura che abbia una formazione vagamente interdisciplinare. Ma quando ci troviamo di fronte al tema dell'ineffabilità del mito, questo sorta di in-sé inattingibile se non reificabile, come può lo studioso limitarsi ad accettare l'esistenza di una macchina che funziona oppure no solo in base alle esperienze personali? Se esiste solo il testo, come elaborare un "contesto" attingibile e condivisibile?

 

L'A. dimostra di una padronanza senza eguali della letteratura di Jesi e su Jesi, anche se, per motivi legati alla feconda produzione dello scrittore milanese, ha faticato a individuare scansioni ben precise nella sua elaborazione teorica della macchina mitologica. Manca una maggiore contestualizzazione storica della produzione jesina, quasi che lo scrittore torinese sia vissuto confinato nelle biblioteche o sul campo di ricerca come autodafé canettiano e non si sia mai confrontato - se non sporadicamente - con un "mondo esterno". Il confronto col maestro Kerényi avrebbe forse meritato maggiore centralità, magari sviscerando meglio le posizioni politiche e culturali dello studioso ungherese: qual è la differenza fra l'antropologizzazione del mito di Jesi e la teologizzazione di Kerényi? Lo stesso discorso vale per la figura di Jung e per la sua teoria degli archetipi. Pur individuando non poche "umane" contraddizioni nella sua costruzione intellettuale, la chiusa vitalistica e un po' assolutoria dell'A. avrebbe forse dovuto concentrarsi sul rapporto con la tradizione ebraica da parte di Jesi, che si limita ad alcuni richiami sulla visione dinamica e politica nel mito. Come il "mito ebraico" di un Buber è rapportabile e/o paragonabile a quello di Jesi?

 

Il discorso su Jesi si allarga più in generale ad altri intellettuali "ebrei" novecenteschi, come lo stesso Walter Benjamin. Proprio partendo dalla "macchina mitologica" è possibile sia una performance antropologica jesina della storia ebraica, sia una sua performance teologica. Il tema della "religione della morte" può essere affrontato non solo da un punto di vista umanistico ma anche teologico, invertendo il numeratore col denominatore della frazione. In questo caso è possibile parlare di "religione della vita" proprio affermandola nella morte oppure di "religione della morte" affermandola nella vita. La visione circolare e paganeggiante del tempo sposata da Jesi ha influenzato la sua teoria della reversione del mito? L'ambiguità della macchina mitologica jesina consiste nella sua interscambiabilità e nella sua duttilità, che la rendono uno strumento di per sé neutro e teoricamente manipolabile dal migliore offerente. La  scomparsa prematura di Jesi ha forse impedito un'ulteriore evoluzione di tale "macchina", forse in direzione di una maggiore chiarezza concettuale. Merito indiscusso di Enrico Manera è quello di aver fornito un quadro biografico e intellettuale completo dell'intellettuale torinese, prodromico - speriamo - ad altri lavori su di lui.

Casella di testo

Citazione:

Enrico Manera, Furio Jesi (recensione di Vincenzo Pinto), "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", III, 1, aprile 2014

url: http://www.freeebrei.com/anno-iii-numero-1-gennaio-giugno-2014/enrico-manera-furio-jesi-mito-violenza-memoria