Vincenzo Pinto, In nome della patria. Ebrei e cultura di destra nel Novecento, Firenze, Le Lettere, 2015, 197 pp., € 17
di Massimo L. Adorno
Abstract
Massimo Longo Adorno reviews Vincenzo Pinto's essays on Jews and Rightwing Politics in the last centuries and tries to analyzes the most impressive characters of this long Odyssey in the Jewish history.
La
riflessione storiografica intorno al dramma politico- esistenziale affrontato
dal popolo ebraico durante il ventesimo secolo, ha vissuto negli ultimi 25 anni
una fase peculiare per ricchezza di contenuti e di dibattito culturale e
ermeneutico. Rimangono tuttavia dei delle zone d’ ombra (che meglio sarebbe definire con il loro nome
piu appropriato: tabù), che hanno impedito a lungo un livello adeguato di
maturazione e conoscenza di determinate problematiche che stanno al cuore della
vicenda ebraica in età contemporanea.
È
questo il caso dei rapporti e degli
influssi tra la destra culturale europea e il pensiero politico ebraico
che a partire dall’ultimo trentennio
del diciannovesimo secolo, cominciò a confrontarsi con le dinamiche del
processo stato-nazione. Vincenzo Pinto, indagatore sensibile e acuto delle
vicende politico- culturali dell’ ebraismo in età contemporanea, fornisce un interessante chiave di
lettura di tali processi nel suo ultimo
volume “In nome della patria”, in cui
paradigmaticamente vengono analizzate sei figure ebraiche costituenti a loro
volta altrettanti tòpos ideologici. È il caso di Vladimir Ze'ev
Jabotinsky (padre del sionismo politico di destra), Isaac Kadmi-Cohen (ebreo
polacco, assai attivo in Francia negli
anni a cavallo le due guerre mondiali), Joseph Klausner (una delle figure
culturalmente più rilevanti della storiografia ebraico-sionista), Abba
Achimeir (pensatore emblematico di quella parte del movimento sionista-revisionista radicale che si
collocava idealmente a destra di Jabotinsky), Hans-Joachim Schoeps (precoce
esageta di Kafka e alfiere di una sintesi
rivelatasi tragicamente impossibile tra ebraismo tedesco e nazionalismo
tedesco) ed Ettore Ovazza (figura tragica
e misconosciuta, che cercò a lungo e disperatamente una sintesi tra ebraismo
italiano e fascismo rivelatisi anch'essa tragicamente impossibile, al pari di
quella auspicata da Schoeps). Il volume
di Pinto è composto dalla riproposizione di due saggi apparsi in anni
precedenti su qualificate riviste del settore e di altri quattro contributi totalmente nuovi (quelli su Klausner su Schoeps e su Kadmi-Cohen costituiscono delle novità assolute). Questa
formula riesce egregiamente nel suo scopo poiché anche contributi già editati acquistano una pregnanza diversa in termini di efficacia e di sintesi
accanto a quelli nuovi. Si tratta in effetti di un complesso puzzle culturale in cui i singoli
pezzi acquistano dinamica e efficacia proprie solamente se messi in rapporto l’ uno con l’ altro.
Come
l’ autore osserva nell’introduzione, “Una
metà di questi personaggi ha accettato l’ineluttabile destino sionista della
Storia Ebraica (Jabotinsky,Achimeir e Klausner), mentre gli altri tre hanno
tentato in vari modi di trovare soluzioni alternative alla progettualità
politica sionista. Se i primi tre hanno
avuto “ragione” lo si deve in larga parte alla loro origine orientale.Figli
dell’ ebraismo askenazita russo, hanno coltivato sin da subito una visione puramente
organicistica dell’ identità ebraica , dove nazione e religione erano
fondamentalmente la stessa cosa. Kadmi-Cohen per quanto anch'egli d’origine
askenazita, temperò notevolmente il suo organicismo con il “plebeiscitarismo”
francese: di qui la sua idea di stato Pan-ebraico e il suo tentativo di tenere insieme lo ius sanguinis orientale
con lo ius soli .Occidentale. Ovazza e Schoeps, entrambi completamente
integrati nelle rispettive realtà
nazionali, hanno tentato di salvare uno spazio per l’identità religiosa
ebraica all’ interno dei disegni totalitari fascista e nazista.Ma hanno fallito
perché la costellazione storica (e ideologica) di quegli anni aveva del tutto spazzato via lo ius soli
dalla mappa politica europea".
Il
punto, a nostro avviso, è però un altro. Era veramente così facile definire chi aveva torto e chi ragione all’epoca
dello svolgimento dei fatti? Forse si e forse no, di sicuro le dinamiche
politiche europee che sconvolsero per sempre anche l’ ebraismo continentale,
avevano preso, a partire dagli anni dieci del novecento una traiettoria
politica assolutamente senza precedenti e con nessuna bussola di riferimento e
di interpretazione. La nascita del
movimento sionista, lo scoppio della prima guerra mondiale, la rivoluzione
Bolscevica in Russia e l’ emersione post-bellica di una destra radicale di
massa orientata ben presto in senso totalitario e esclusivista sul piano
identitario, fornivano un quadro complessivo senza precedenti nella storia del
continente , in cui l’ unica cosa certa era l’ errore. Sbagliare però era un lusso
improponibile nell’Europa e nel Medio-oriente della prima metà del Novecento.
Ciascuno
di essi , era comunque conscio del fatto che la modernità aveva conferito un
significato nuovo all’ idea di nazione ponendo il popolo ebraico davanti a un
bivio ineludibile. Ritirarsi in una dimensione autoreferenziale (come era
stato fatto per secoli, non era manifestamente più possibile), il popolo
Ebraico doveva per forza di cose prendere posizione o agendo da co-protagonista del proprio
destino (come nel caso di Jabotinsky, Klausner e Achimeir), oppure
tentando di giocare la carta di un inclusione
sempre più problematica (Kadmi-Cohen e soprattutto, Ovazza e Schops).
In
realtà, nessuno di essi era la figura politicamente più adatta per i tempi. Se
questo è tragicamente evidente nel caso del trio non sionista (Kadmi-Cohen, Ovazza e Schoeps), lo è altrettanto (anche se con un grado minore di tragicità e insuccesso)
nel caso del trio sionista (Jabotinsky, Klausner, Achimeir), a proposito del quale Pinto nota che “anche in questo caso, il centro-sinista vinse la battaglia egemonica
iniziale per il governo del nuovo stato di Israele e a posteriori non poteva andare
diversamente: solo un ideologia universalistica come quella laburista avrebbe
potuto radicarsi con più facilità nella
Palestina mandataria, abitata da una popolazione a maggioranza araba e
governata dagli abili realisti inglesi; e solo un liberalismo moderato come
quello di Weizmann avrebbe potuto
“vincere” (senza “ convincere”) la Seconda guerra mondiale".
Sicuramente
ciascuno di loro (e questo vale anche per Jabotinky) era un individualista e fare politica da posizioni individuali e indipendenti nel secolo della
modernizzazione di massa, di cui i totalitarismi di destra e di sinistra furono
il frutto più aberrante, non costituiva propriamente la migliore garanzia di successo.
Il
legame culturale e relazionale tra il pensiero politico di destra ( anche nella
sua dimensione piu radicalmente nazionalista della cosiddetta “rivoluzione conservatrice” nel
caso di Schoeps e nel caso di Ovazza e
parzialmente di Achimeir del fascismo italiano propriamente detto) e il popolo
ebraico divenne comprensibilmente un tabù nel secondo dopoguerra all’indomani della distruzione quasi totale
dell’ ebraismo europeo, perpetrata dai nazisti e dai loro complici, .tuttavia tale legame
si rivelò talmente solido da
sopravvivere al dramma della Shoah, per conoscere successivamente una stagione di grande fioritura culturale e
politica (soprattutto In Israele e
negli USA) a partire dalla seconda metà
degli anni Settanta. A questo proposito, sarebbe auspicabile che l’ autore dedicasse
un altro volume all’approfondimento dell’ebraismo americano contemporaneo, di
cui varie figure culturali di riferimento (Leo Strauss e Norman Podhoretz sono i
primi nomi che ci vengono in mente) vennero fortemente influenzate da tale
corrente di pensiero.
Infatti, come osservava acutamente Ezra
Mendelssohn, “La destra ebraica è molto
più difficile da definire rispetto alla sinistra. Se i partiti politici ebraici
di sinistra erano orgogliosi di affermare la loro simpatia ideologica per la sinistra generale europea, i loro
oppositori erano alquanto restii ad
ammettere qualsiasi simpatia ideologica
per la destra generale europea che nel periodo interbellico era spesso sinonimo di
Antisemitismo. Ciononostante, se definiamo la destra come la formazione di un campo politico
fieramente opposto al socialismo e conservatore nella sua idea di come dovrebbe organizzarsi la società
ebraica , allora diventa comprensibile una destra ebraica nel periodo
interbellico ( e oltre aggiungiamo noi).
La caratteristica unificante era l’ enfasi tenace sull’assoluta necessità
dell’ unità ebraica e, di conseguenza, la profonda ostilità verso tutti i
movimenti politici che predicavano l’ idea di guerra di classe o persino la divisione di classe nel mondo ebraico. Uno
dei termini preferiti nel dizionario
politico della destra secolare era quello di Monismo (Hadnes in ebraico, una
bandiera), che implicava la supremazia dell’ unità nazionale, valore
tradizionale ebraico, sulla divisione sociale.La sinistra ebraica fu criticata
per aver importato nel mondo ebraico pericolose idee “straniere” che ponevano
falsamente un ebreo contro l’ altro e perciò facevano il gioco del nemico
comune: L’antisemitismo”.
Di questa vicenda culturale politica e in ultima
analisi umana, lo studio di Vincenzo
Pinto offre un analisi di fondamentale importanza soprattutto per il
pubblico italiano, rimasto ( a differenza
di quanto avvenuto nei paesi anglosassoni), a lungo privo di adeguati strumenti cognitivi , soprattutto per quanto riguarda
l’ evoluzione del dibattito storiografico sull’identità politica ebraica negli
ultimi 25 anni.
Casella di testo
Citazione:
Vincenzo Pinto, In nome della patria (recensione di Massimo Longo Adorno), "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", IV, 1, gennaio 2015
url: http://www.freeebrei.com/anno-iv-numero-1-gennaio-giugno-2015/vincenzo-pinto-in-nome-della-patria
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