Daniela Franceschi, L'antisemitismo in Polonia dopo la Shoah

"Free Ebrei", III, 2, dicembre 2014

L’antisemitismo in Polonia dopo la Shoah

di Daniela Franceschi

Abstract

Daniela Franceschi analyzes the anti-Semitic sentiment in Poland after the end of the Second World War and the establishment of a Socialist regime.

We had fed the heart on fantasies,

The heart’s grown brutal from the fare;

More substance in our enmities

Than in our love; O honey-bees,

Come build in the empty house of the stare.

William Butler Yeats, Meditations in Time of Civil War, 1923

Prima del 1939 in Polonia viveva la maggioranza degli ebrei europei, più di tre milioni di persone, una comunità che rappresentava oltre il 10% della popolazione nazionale complessiva. Più della metà di tutte le vittime dell’Olocausto perse la vita in territorio polacco, la metà di tutte le vittime dell’Olocausto era costituita da ebrei polacchi[1]. È altresì importante ricordare che molti ebrei perirono nei piccoli e grandi ghetti presenti in Polonia o furono brutalmente uccisi durante veri e propri pogrom, cui molti loro concittadini presero parte attiva[2].

L’antisemitismo presente nella società polacca[3] sopravvisse alla fine della seconda guerra mondiale, provocando violenze e veri e propri pogrom, come quelli di Cracovia e Kielce[4].

Nell’immediato dopoguerra, il tradizionale antisemitismo polacco aumentò ulteriormente, trovando nuove fonti di odio antiebraico. Molti polacchi osteggiavano apertamente il ritorno degli ebrei dalla Russia, non avendo nessuna intenzione di permettere che i sopravvissuti si riappropriassero del lavoro e delle proprietà possedute prima della guerra. Inoltre, era molto diffuso fra la popolazione il pensiero che gli ebrei fossero la colonna portante del nuovo regime comunista, occupando posizioni elevate sia nel Partito sia nel Governo. Questa idea, che gli ebrei fossero agli ordini della Russia comunista e governassero la Polonia sotto le direttive sovietiche, era molto diffusa fra il clero, fra i membri dei partiti di destra e fra i veterani politici del periodo fra le due guerre.

La violenta campagna contro gli ebrei fu condotta da movimenti clandestini polacchi appartenenti all’estrema destra nazionalista e fascista, già esistenti in Polonia prima della guerra, che consideravano la Russia sovietica un nemico peggiore della Germania nazista. Tali movimenti, ritenendo imminente una guerra contro l’Unione Sovietica, pensavano che la violenza avrebbe accorciato i tempi, portando così al rovesciamento del regime comunista. È interessante notare che gli obiettivi governativi di tali azioni terroristiche erano rigorosamente selezionati, al contrario gli ebrei furono indiscriminatamente uccisi. Gli storici non sono concordi sul numero complessivo di ebrei assassinati, da 1000 a 1500 vittime dal novembre del 1944 alla fine del 1947[5], in ogni modo, è evidente che i caduti  superarono le centinaia di unità.

Tale violenza fu un leitmotiv delle discussioni all’interno della sopravvissuta comunità ebraica, sia in Polonia sia all’estero. Agli inizi di settembre del 1944, Szlomo Herszenhorn, a capo del nuovo Ufficio per l’aiuto alla popolazione ebraica della Polonia[6] del Comitato Nazionale di liberazione[7] nei territori già liberati ad oriente del fiume Vistola, faceva presente la difficile e disperata situazione di quegli ebrei, sopravvissuti ai nazisti, che adesso temevano per la loro vita. Nel gennaio del 1945, un rapporto da Lublino sulla condizione della comunità ebraica polacca argomentava con amaro sarcasmo che “ogni qualvolta il primo Ministro fa una dichiarazione ufficiale riguardante i pari diritti…12 ebrei sono uccisi a Janow-Lubelski (…) non passa una settimana senza ritrovare una vittima ebrea assassinata da un’arma da fuoco o pugnalata da parte di un ignoto assalitore” [8] [trad.it.a].

Gli osservatori contemporanei allo svolgersi di simile violenze antisemite tendevano a spiegarle come il risultato della combinazione di diversi fattori: la persistenza di un rancore verso gli ebrei in quel momento particolarmente esacerbato; la tendenza di alcuni partiti nazionalisti dell’estrema destra a dipingere gli ebrei come nemici della Polonia; la predominanza di personalità ebraiche all’interno dell’odiato regime comunista; le speranze frustrate di quei polacchi  impossessatisi delle proprietà ebraiche durante la guerra nello scoprire, con rammarico, che i nazisti non avevano liberato completamente la Polonia dagli ebrei[9].

Dal punto di vista storiografico, alcuni storici sono propensi ad attribuire l’origine di simile violenza antiebraica ora all’uno ora all’altro degli elementi sopra menzionati; Krystyna Kersten afferma che “il fatto che una vittima di un’aggressione armata fosse ebrea era solo uno dei motivi alla base della violenza, ma generalmente non l’unico”[10] [trad.it.a], poiché “l’antisemitismo del dopoguerra era diretto meno verso gli ebrei in quanto tali e più verso i comunisti che si pensava fossero ebrei”[11] [trad.it.a]. Contro questa tendenza ad inscrivere le vittime ebree sotto la categoria di coloro che furono uccisi a causa della loro responsabilità nel regime comunista, lo storico israeliano Yisrael Gutman argomenta che “è possibile distinguere chiaramente tra un violento attacco contro il regime e i suoi apparati e la persecuzione e l’assassinio degli ebrei”[12] [trad.it.a]. Lo storico Lucjan Dobroszycki ritiene che “la condizione degli ebrei in Polonia nei cinque anni dopo la guerra fu ampiamente determinata da profonde radici storiche e da fattori economici e psicologici”[13], [trad.it.a] quindi, “il fatto che molti ebrei occupassero posizioni di rilievo nel Governo, nel Partito comunista e nelle forze di sicurezza non determinò il tenore delle relazioni ebraico-polacche dopo la liberazione”[14]  [trad.it.a].

È interessante prendere in esame un altro aspetto della campagna di violenza contro gli ebrei, la distribuzione di volantini antisemiti da parte di movimenti clandestini in svariate zone della Polonia dopo la liberazione. Nell’aprile del 1945, un ciclostilato apparso nella zona di Lublino intimava agli ebrei di Piaski, rivelatisi nemici della Polonia, di lasciare la città entro una settimana, in caso contrario sarebbero state prese contro di loro misure appropriate[15]. Un numero rilevante di atti antisemiti sembravano finalizzati ad indurre gli ebrei a partire, infatti, molti volantini giustificavano tale richiesta basandosi sul tradimento della Patria polacca, poiché gli ebrei, incuranti dell’aiuto offerto dai polacchi durante la persecuzione nazista, adesso sostenevano attivamente il regime comunista[16].

L’analisi dei ciclostilati permette di osservare come i temi classici della polemica antisemita si ripresentassero senza soluzione di continuità, ad ulteriore prova che l’antisemitismo del secondo dopoguerra non era un fatto nuovo nella società polacca, bensì un aspetto persistente delle relazioni ebraico-polacche. In un volantino, che ripresentava uno stereotipo classico della propaganda antiebraica, il monopolio dell’economia e della finanza, si faceva notare come il tenore di vita dei polacchi fosse seriamente danneggiato, dovendo soffrire fame e privazioni ed essendo affetti da malnutrizione e da svariate malattie, tutto a causa degli ebrei, detentori del controllo assoluto dell’economia, dall’industria al commercio ed alla finanza[17]. In un altro ciclostilato si  leggeva un appello ai genitori affinché proteggessero i loro bambini, dato il numero crescente di piccoli scomparsi, un palese riferimento alla diffamatoria accusa di omicidio rituale[18].

È possibile spiegare la violenza antiebraica attraverso cause non ascrivibili esclusivamente alla contemporanea guerra civile. Uno di questi elementi è senza dubbio la fluttuazione numerica della comunità ebraica polacca, infatti, i maggiori periodi di violenza, marzo-agosto 1945 e febbraio-luglio 1946, coincidono con il progressivo incremento del numero di ebrei in Polonia. L’inizio del primo intervallo seguiva la liberazione dei territori polacchi ad ovest del fiume Vistola, che permise a circa 15.000 ebrei sia di uscire dalla clandestinità sia, purtroppo, di esporre se stessi alle violenze dei concittadini polacchi[19]; il secondo intervallo coincideva con il ritorno di circa 25-30.000 ebrei dai campi di concentramento della Germania e dell’Austria[20]. Il secondo periodo coincise con il rimpatrio degli ebrei polacchi dalla Russia, 130.000 persone, che portò la popolazione ebraica a superare le 200.000 unità agli inizi del luglio 1946[21]. Nei mesi successivi, tuttavia, la comunità ebraica subì un repentino declino, dovuto principalmente a una massiccia ondata migratoria che ridusse il numero degli ebrei in Polonia a meno della metà del picco raggiunto nel 1947[22]. È difficile pensare che sia solo una coincidenza la forte diminuzione delle violenze contro gli ebrei durante questo esodo di massa[23].

Gli  ebrei polacchi, consapevoli della loro vulnerabilità, tendevano a prendere delle misure preventive per la loro sicurezza, come il progressivo abbandono dei villaggi e delle piccole città, scegliendo città di dimensioni maggiori, più sicure essendo sotto il controllo governativo, ed in cui comunità ebraiche consistenti dal punto di vista numerico offrivano una protezione maggiore[24].

Come risposta agli improvvisi attacchi del marzo 1945, il Comitato centrale degli ebrei polacchi incoraggiò questo processo, ottenendo un evidente successo data la riduzione delle vittime ebree nel bimestre aprile-maggio. Il Comitato si impegnò, inoltre, ad organizzare delle forze di autodifesa per la protezione delle case, dei quartieri e delle Istituzioni comunitarie ebraiche.

In ogni modo, è difficile comprendere pienamente quanto queste azioni, insieme al calo numerico della popolazione ebraica nella seconda metà del 1946, abbiano contribuito ad eliminare quasi del tutto la violenza antiebraica dall’agosto dello stesso anno, specialmente quando nel periodo settembre-ottobre furono uccisi svariati sostenitori polacchi del Governo. È molto probabile che proprio le forze antigovernative clandestine abbiano opportunisticamente frenato le violenze antisemite per non danneggiare la loro causa; nell’agosto del 1946, una pubblicazione del gruppo WIN, Libertà e indipendenza, dissuadeva i propri sostenitori dall’aizzare le fiamme dell’antisemitismo, poiché gli ebreo-comunisti stavano cercando di creare un problema ebraico nel Paese, così da dimostrare al mondo la necessità delle forze di sicurezza sovietiche nell’intollerante Polonia, affinché fosse educata allo spirito della democrazia[25]. Questo giudizio era presente anche fra i circoli anticomunisti polacchi all’estero, infatti, un pamphlet, attribuibile all’Esercito polacco in esilio del generale Wladyslaw Anders, riferiva di una campagna sovietico-ebraica contro la Polonia tesa ad incitare le masse ai pogrom, rendendo così evidente il conservatorismo dei polacchi e quindi indispensabile la presenza dell’Armata Rossa per mantenere la pace e la sicurezza[26].

Le forze antigovernative clandestine erano in gran parte composte da gruppi politici di destra, il cui anticomunismo mascherava una concezione dello Stato polacco fortemente nazionalista, spesso aderente alle teorie razziali, uno Stato in cui gli ebrei erano fuori luogo[27].

L’analisi del contesto politico del dopoguerra costituisce un elemento importante per comprendere il perché gli attacchi contro gli ebrei assunsero tali proporzioni dopo la liberazione del Paese dai nazisti, anche se non fornisce una spiegazione totalmente esauriente.

L’antisemitismo in Polonia dopo la Shoah fu espressione, dunque, di una molteplicità di fattori, tra i quali nessuno s’impone sugli altri come causa primaria della violenza.

La storia della violenza antiebraica dimostra chiaramente la complessità dell’azione reciproca del contesto e delle idee, elementi determinanti per comprendere il tenore delle relazioni ebraico-polacche nella Polonia post-bellica.

Note

[1] Le successive note bibliografiche intendono concentrarsi specificatamente sull’Olocausto in Polonia.

Cfr. Cristopher Browning, Ordinary Men: Reserve Police Battalion 101 and the Final Solution in Poland, New York, HarperCollins, 1992;

Jan Thomasz Gross, Polish Society under German Occupation: The Generalgouvernement, 1939-1944, Priceton NJ, Princeton University Press, 1979;

Stefan Korbonski, The Jews and the Poles in World War II, New York, Hippocrene Books, 1989;

Anthony Polonsky, “My brother’s keeper?”: Recent Polish Debates on the Holocaust, London, Routledge, 1990;

Joshua D. Zimmerman, Contested Memories: Poles and Jews During the Holocaust and its Aftermath, New Brunswick NJ, Rutgers University Press, 2003.    

[2] Cfr. Jan Thomasz Gross, Neighbors. The Destruction of the Jewish Community in Jedwabne, Poland, Princeton-Oxford, Oxford University Press, 2001;

Timothy W. Ryback, The Last Survivor: In Search of Martin Zaidenstadt, New York, Pantheon Books, 1999;

Marci Shore, Convercing with Ghosts: Jedwabne, Zydokomuna , and Totalitarianism, in “Kritika: Exploration in Russian and Eurasian History”, 6, Slavica Publisher, Bloomington IN, Indiana University Press, 2005, pp. 1-20. 

[3] William W. Hagen, Before the Final Solution: Toward a Comparative Analysis of Political Anti-Semitism in Interwar Germany and Poland, in “Journal of Modern History”, 68/2, Chicago IL, University of Chicago Press, 1986, pp. 351-381; 

Pavel Korzek, Juifs en Pologne. La question juive pendant l’entre- deux-guerres, Paris, Presses de La Fondation National des Sciences Politiques, 1980;

Daniel Tollet, Histoire des juifs en Pologne du XVIe siecle à nos jours, Paris, Puf, 1992.   

[4] Michael Checinski, Poland: Communism, Nationalism, Anti-Semitism, New York, Karz-Cahl,1982, pp. 21-

34.

Jan Thomasz Gross, Fear: Anti-Semitism in Poland after Auschwitz. A essay in Historical Interpretation, Princeton NJ, Princeton University Press, 2003.

Marc Hillel, Le massacre des survivants: En Pologne apres l'holocauste(1945-1947), Paris, Plon,1985, pp. 256-281.

Yisrael Gutman, The Jews in Poland after World War II, Jerusalem, Merkaz Zalman Shazar,1985, pp. 34-41.

[5] Cfr. Lucjan Dobroszycki, Restoring Jewish Life in Post-War Poland, “Soviet Jewish Affairs”, 3, (1973), p. 66;

 Yisrael Gutman, The Jews in Poland, op.cit., p. 33.

[6] Per l’Ufficio per l’aiuto alla popolazione ebraica Cfr. David Engel, The Reconstruction of Jewish Communal Institutions in Postwar Poland: The Origins of the Central Committee of Polish Jews, 1944- 1945, “East European Politics and Societies”, 10 (1996), pp. 96-97.

[7] Antony Polonsky -Boleslaw Drukier, The Beginnings of Communist Rule in Poland, December 1943-June 1945, London, Routledge and Kegan Paul, 1980, pp. 21-23.

[8] The Condition of the Jews in Liberated Poland, March 23, 1945, Archives of the Diaspora Research Institute (DRI), A.4/7. Il rapporto fu originariamente scritto in yiddish nel gennaio del 1945 e trasmesso alla sede dell’Agenzia Ebraica a Gerusalemme. La data indicata sul rapporto è quella della traduzione in ebraico.  

[9] Cfr. David Engel, Polen und Juden nach 1945: historisches Bewußtsein und politischer Kontext als Faktoren polnisch-jüdischer Beziehungen in der Nachkriegszeit, Babylon: Beitrage zur judischen Gegenwart 15 (1995),

pp. 28-48;

Ignacy Schwarzbart of the World Jewish Congress in London with Jan Stanczyk, the Polish minister of social welfare, August 16, 1945, Henryk Strassburger, Polish ambassador to the United Kingdom, September 7, 1945, and

unidentified informants, September 18 and October 9, 1945, Yad Vashem Archives, Jerusalem, M2/279;

K. Stein, “Report on the Conference with Polish Foreign Minister W. Rzymowski and the Head of the English-American Department in the Polish Foreign Ministry, Mr. Olszewski”, October 23, 1945, ibidem;

Department of State Intelligence Report OCL2312: “The Jews in Poland Since the Liberation,” May 15, 1946, Wiener Library, Tel Aviv, WMF 007/9, Doc. 13.

[10] Krystyna Kersten, Narodziny systemu wladzy: Polska 1943-1948, Poznan, Krytyka,1984, pp. 192, 195.

[11] Ibidem.

[12] Cfr. Yisrael Gutman, op.cit., p.28.

[13] Cfr. Lucjan Dobroszycki, Restoring Jewish Life, op.cit,, pp. 68-70.

Si veda anche Yosef Litwak, Polish-Jewish Refugees in the USSR 1939-1946, Tel-Aviv, Jerusalem, University of Jerusalem, Institute of Contemporary Jewry Ghetto Fighters’ House HaKibbutz HaMeuchad, Publishing House Ltd.,1988, p. 348.

[14] Ibidem.

[15] Cfr. David Engel, Patterns of Anti-Jewish Violence in Poland, 1944-1946, “Yad Vashem Studies”, Vol. XXVI, Jerusalem, p. 31.

[16] Cfr. David Engel, op.cit., p. 32.

[17] Cfr. David Engel, op.cit., p. 33.

[18] Ibidem.

[19] Cfr. David Engel, Between Liberation and Flight: Holocaust Survivors in Poland and the Struggle for Leadership, Tel Aviv, Am Oved, 1996, p. 165, n.6.

[20] Lucjan Dobroszycki, Survivors of the Holocaust in Poland: A Portrait Based on Jewish Community Records 1944-1947, Armonk, N.Y., M.E. Sharpe, 1994, pp. 67-68.

[21] Cfr. David Engel, Between Liberation and Flight, op.cit., pp. 120-124, 156-157.

[22] Cfr. David Engel, Between Liberation and Flight, op. cit., p. 157.

[23] Cfr. David Engel, Between Liberation and Flight, op.cit., pp. 64-65.

[24] Cfr. David Engel, Between Liberation and Flight, op.cit., pp. 46-47, 52-53.

[25] Cfr. David Engel, Patterns of Anti-Jewish Violence, op.cit., p. 36. 

[26] Cfr. Communist Pogroms on Jews in Poland, Hoover Institution Archives, Stanford, California USA, Stanislaw Mikolajczyk, Box 40.

[27] Cfr. David Engel, Patterns of Anti-Jewish Violence, op.cit., p. 38.

Casella di testo

Citazione:

Daniela Franceschi, L'antisemitismo in Polonia dopo la Shoah, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", III, 2, dicembre 2014

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