Antonella Tiburzi, Aharon Appelfeld, il narratore lirico della Shoah

"Free Ebrei", VII, 1, febbraio 2018

Aharon Appelfeld, il narratore lirico della Shoah

di Antonella Tiburzi

Abstract

Antonella Tiburzi depictes us the life and work of Aharon Appelfed, one of the most important storyteller of the Shoah.

Aharon Appelfeld è stato forse il più grande narratore della Shoah in vita. Sin dai suoi primi romanzi dagli anni ’70 aveva annunciato alla letteratura le sue storie sulla catastrofe offrendo forse le più grandi narrazioni sul tema mai scritte fino a quel momento, in cui si trasmetteva la disperazione, l'autoinganno, gli impulsi fratricidi, la paranoia e il terrore di un popolo che era stato condannato a sparire. Sebbene le storie rappresentassero il ritratto preciso degli ebrei che si trovavano ai margini dell'annientamento ed erano vittime di una delle più grandi violenze mai esistite prima, Appelfeld non sentì mai la necessità narrativa o linguista di inserire, anche solo una singola scena, presa da un ghetto, da un lager di puro annientamento o scenari estratti dalla camera a gas, nonostante lui avesse visto direttamente la catastrofe dal momento che la sua esistenza sin dall’infanzia era stata la guerra e lo sterminio. La madre era stata uccisa già all’inizio della seconda guerra mondiale e lui insieme al padre era stato arrestato e portato in un campo di lavoro per ebrei, da dove riuscì a fuggire tentando poi di trovare rifugio tra contadini ostili e profondamente antisemiti. Ma nonostante questo fosse sufficiente come “base di ispirazione” per costruire romanzi di storia della Shoah, lui che vide tutto con gli occhi ingenui di un bambino di poco più di 8 anni, e i cui occhi aveva sempre visto intimazioni, violenze, sopraffazioni e furti costanti, decise che nei testi non avrebbe lasciato intaccare la sua letteratura dalla retorica narrativa facile della Shoah. Egli non ha mai mostrato esplicitamente gli assalti delle truppe naziste o i gruppi di bambini che vanno alla camera a gas in un lager di sterminio. Le sue storie piuttosto volevano raccontare la banale quotidiana contestuale agli eventi atroci che si trovano nelle vicinanze, di cui si sentono gli odori, le grida o le voci delle vittime ma che vengono a mala pena sfiorati, senza mai approcciarcisi a contatto. La sua era una straordinaria capacità di far sentire l’imminenza di un dramma unico senza però caderci direttamente dentro. E questo forse rendeva i suoi racconti ancora più drammatici e unici. 

In Badenheim 1939, (Guanda, 2007), che fu definite dal critico Irving Howe un piccolo capolavoro, lo scrittore racconta della vigilia della catastrofe ebraica, attraverso le vicende di una piccola stazione nei dintorni di Vienna in cui degli ignari ebrei in vacanza continuano a mangiare strudel e gelati fino a quando vengono obbligati a registrarsi al Comitato sanitario del luogo da dove, di lì a poco, verranno incastrati nella burocrazia iniziale al trasferimento nel lager di sterminio. L’aspetto unico e esemplare dell’opera risiede nella costruzione del libro. Appelfeld vorrà mettere alla fine del libro, sempre con ironia, empatia, e gentilezza un passaggio con un treno, destinato a significare l’inizio del percorso attraverso la storia e il terrificante esito.

Nel romanzo straordinario mai uscito in Italia, The Age of Wonders (David R. Godline Publisher, 1981) ancora racconta di un viaggio in treno in cui una mamma e un suo figlio, di ritorno da una vacanza, vengono improvvisamente costretti a registrarsi in quanto ebrei, e finiscono, senza neanche accorgersi, in un treno bestiame diretto ad est. Il lettore si aspetterebbe anche la fine del romanzo magari in un apocalittico scenario che rappresenti il lager nel suo fumo grigio, nel suo freddo assassino o nelle urla dei comandanti di turno. Niente di tutto questo. La Shoah secondo Appelfeld era anche nell’immaginario di quel lettore che non aveva vissuto neanche l’odore della seconda guerra mondiale pertanto sarebbe stato inutile raccontare ciò che solo chi ha vissuto quel periodo e quei luoghi, ne capisce il significato profondo. Appelfeld sapeva condurre i lettori nei pressi della Shoah senza mai farli avvicinare troppo e senza mai farli cadere dentro o sprofondare nella banalizzazione dei racconti sul tema. I suoi personaggi stavano per essere annientati nella catastrofe ma lui li delineava o li ritraeva ancora ingenui o naiv rispetto all’imminente dramma. La figura dello shlimazl, ovvero una sorta di clown sempre vittima della sfortuna, non capisce mai in tempo i segnali pericolosi ma anzi li confonde, li interpreta male per cadere poi alla fine cade dentro la trappola… cosi’ almeno raccontava Appelfeld all’altro straordinario scrittore come Philp Roth (Philip Roth, Chiacchere da bottega. Uno scrittore, i suoi colleghi e il loro lavoro, Einaudi, 2001) in una conversazione pubblicata dal New York Times Book Review nel 1988 riferendosi ai suoi personaggi: «la loro debolezza mi affascinava e ne ero innamorato. Il mito che gli ebrei governano il mondo con le loro macchinazioni è il risultato di una esagerazione che tocca gli antisemiti anche se si vestono da politologi». Appelfeld e suo padre (che ritrovò negli anni ’50 in Israele, sul cui rincontro non riuscì mai a narrarlo nei suoi scritti) dovettero vivere la tremenda condizione dei lavoratori forzati ebrei in Ucraina da dove Aharon fuggì negando la sua identità ebraica. Poi si arruolò nella Armata Rossa come aiuto cuoco. Dopo la fine della guerra tornò nella sua città che era stata svuotata dagli ebrei ma fu in questa che fase trovò la sua ispirazione proprio per il romanzo The Age of Wonders.  

Il lettore dunque sente sin dall’inizio l’avvisaglia, ed è dolorosamente cosciente del fatto che la Shoah aggredirà sia gli assimilati che i religiosi ma questa conoscenza storica offrirà anche agli eventi violenti la loro qualità evocativa di un periodo e di un luogo, in cui gli uomini e la loro lingua sono stati distrutti da altri uomini animati da uno spirito politico annientatore.

Appelfeld era impegnato intellettualmente tanto che ogni suo romanzo era sempre molto atteso. Scriveva libri in ebraico ogni 2 anni e si registrano almeno 16 racconti scritti tra il 1981 e il 2011.  In Israele era uno dei maggiori scrittori della world-class che include anche Amos Oz, A. B. Yehoshua e David Grossman. Sempre Philip Roth lo classificava in un modo splendido: “Appelfeld is a displaced writer of displaced fiction who has made of displacement and disorientation a subject uniquely his own, ovvero tutto ciò che Appelfeld non è produce la somma di cio che è e ciòè uno scrittore dislocato, uno scrittore deportato, uno scrittore spossato e sradicato. Uno scrittore spiazzato di narrativa spiazzata, che ha fatto della profuganza e del disorientamento un tema unicamente suo. Ma anche la critica letteraria Eva Hoffman ha scritto di lui: nella sua vocazione per rompere il silenzio nascosto, ha coraggiosamente iniziato a illuminare le regioni dell'anima solitamente oscurate dalla segretezza e dal dolore.

Appelfeld era nato il 16 febbraio 1932, in una città vicino Czernowitz, che ora è Ucraina ma all’epoca era la Romania. La famiglia era orgogliosamente borghese, parlava un tedesco prezioso molto più degli abitanti più abbienti della zona, vietando il più sano yiddish. Trascorrevano le estati nella città termale di Badenheim. I Carpazi sono un luogo speciale, stregato e magico dove vivevano i nonni che parlavano in un'altra lingua. Era una specie di luogo mitologico, con i nonni mitologici. A Czernovitz tutto era razionale. Non c'era religione. C'era assimilazione, c'era buona musica e teatro, insomma tutto era mitologico.

In occasione della assegnazione del premio Nelly Sachs a Dortmund nel 2005, disse che per anni aveva assorbito tutto il male che veniva attribuito all’ebreo attraverso i suoi genitori. Si trattava di un atto di repulsione che era stato piantato in ognuno di loro fino allo sradicamento dalla loro casa e il trasferimento nel ghetto. Solo in quel momento comprese che le finestre dei loro vicini gentili erano state improvvisamente chiuse mentre gli ebrei si sono ritrovati soli per le strade che erano state lasciate vuote.

Fu liberato all’età di 8 anni dall’Armata rossa che lo portò in Russia dove vi rimase per 13 anni e successivamente finì nel Displaced person camps di Napoli dove imparò anche un po' di italiano. Nel 1946 partì insieme alla Brigata ebraica alla volta della Palestina sotto il mandato britannico, come clandestino. Lavorò in un kibbutz, mentre di notte studiava l’ebraico e di giorno combatteva nel 1948 nella guerra di indipendenza. A Tel Aviv però decise di seguire lezioni o conferenze in lingua yiddish sebbene fosse un po’ contro l'ethos del sionismo ma lo fece per 3 o 4 anni. Racconta che c'erano momenti in cui l'ebraico e lo yiddish erano in qualche modo mischiati insieme, soprattutto nella sua testa e in quella degli altri superstiti. Ascoltava lo yiddish non come una lingua, ma come una totalità ebraica. Per molti che come lui avevano perso tutta la famiglia, la lingua anzi le lingue, ebraico e yiddish, erano rappresentati da una sorta di due genitori, che lui immaginava in S.Y. Agnon e Franz Kafka.

Il romanzo che forse rappresenta questo passaggio linguistico è probabilmente Il ragazzo che voleva dormire in cui si racconta in parte la perdita ma anche l’acquisizione di una lingua, ovvero una sorta di metafora dell’intero popolo ebraico del XX secolo. Narra la storia, profondamente autobiografica, di un ragazzo molto giovane che si ritrova in un campo profughi di superstiti della Shoah in Italia, a Napoli, in attesa di partire per la Palestina. A lui e agli altri ragazzi si chiede una nuova spiritualità, più politica, anche attraverso l’apprendimento dell’ebraico moderno, inteso come strumento necessario alla nuova vita nello stato ebraico. Ma il giovane non vuole questo futuro e preferisce rifugiarsi nei ricordi attraverso il sonno perché in questo modo può rievocare quel passato nel suo silenzio, personale, seppur dolorosissimo, ma intimo. Nel sonno può addirittura permettersi di confondere i superstiti presenti nel campo con i suoi parenti distrutti nella catastrofe. Può sentire le loro voci, immaginare i loro sorrisi e i loro occhi ancora speranzosi. Questo calarsi nel buio perenne gli permette di non accettare questo tragico presente, in cui c’è solo da constatare che è solo senza i suoi amati genitori, i nonni, gli zii e gli amici di scuola. Nonostante venga incoraggiato dai membri della Brigata ebraica a guardare avanti attraverso lo studio dell’ebraico moderno, Erwin (come veniva chiamato da piccolo lo stesso Aharon) trova nel sonno il suo ritorno a casa nei ricordi di una vita spazzata via con indicibile violenza. In questo modo si sottrae alla constatazione che la costruzione di una nuova patria in Israele significa però anche la privazione di una parte profonda di sé: far morire la sua lingua madre per poter continuare a vivere nella nuova terra.     

I suoi genitori erano persone con una spaccatura e molte divisioni, nelle loro vite. Da un lato, erano dediti alla lingua tedesca, alla cultura tedesca dell’impero austroungarico, avevano completato il ginnasio latino ma con  i nonni, si parlavano in yiddish. Con lo sterminio del popolo ebraico originario di quelle zone, si è sterminata anche la lingua yiddish.

Una volta disse che ingenuamente aveva creduto che l'azione avrebbe zittito i suoi ricordi, al fine della crescita alla pari degli ebrei sionisti in Palestina, ovvero liberi dall'incubo che avevano gli ebrei europei superstiti della Shoah, ma non sapeva cosa fare: Il bisogno ma si potrebbe dire la necessità, di essere fedele a me stesso e ai miei ricordi d'infanzia mi ha reso una persona distante e contemplativa. La mia contemplazione mi ha riportato nella regione in cui sono nato e dove si trovava la casa dei miei genitori. Questa è la mia storia spirituale, ed è da lì che annodo ancora i fili.

Un altro straordinario ritratto del mondo di ieri è stato anche The Immortal Bartfuss (Grove Press New York, 1988, anche questo non tradotto in italiano), in cui dei sopravvissuti vagano leggermente persi nel paesaggio israeliano senza apparentemente una meta nel futuro, ma sicuramente una certezza nel recente tremendo passato. In merito a questa sospensione, lui stesso affermava con vigore: «Nessuno sapeva cosa fare con le vite che erano state salvate», per poi aggiungere che «lo sterminio ebraico è stato quel tipo di esperienza che riduce uno al silenzio perché la ferita è talmente profonda e le bende non aiuteranno, nemmeno una benda grande come lo stato ebraico». L’esperienza più significativa della tua vita, relativa alla Shoah, aveva creato in realtà barriere, distanze e separazioni nella nuova società israeliana.

Sin dalla fine del 1948, dopo la guerra di indipendenza dal governo britannico, i sopravvissuti infatti avevano in parte vissuto in una specie di proscrizione ed erano stati tacitamente relegati al silenzio in merito al loro passato nell’Europa nazista. Nell’anno della formazione dello Stato, la società israeliana mirava a costruire un mondo nuovo piuttosto che ripensare a quello che era stato distrutto pertanto non attribuiva sufficientemente importanza alla Shoah e alle sue vittime ancora viventi, sebbene esse fossero oltre 600.000 presenti nel paese in quel periodo. I sopravvissuti, emaciati, malati e afflitti, di conseguenza soffrirono una sorta di frustrazione per non essere come gli abbronzati e forzuti israeliani e soprattutto non condividevano la loro stessa energia politica né tantomeno quella militare. Gli israeliani palestinesi, da parte loro, non volevano più sentire storie di sconfitte, di rinunce o di rassegnazione legate alla catastrofe, perché per loro era necessario guardare avanti, combattere una guerra con i vicini arabi, sconfiggere il mandato britannico e dunque creare uno Stato giovane e moderno in Medioriente di conseguenza non c’era tempo e voglia di ripensare (o riparlare) a quel trascorso, seppur recente, che aveva visto l’annientamento del popolo ebraico. Ora quello stesso popolo doveva vincere per costruire uno Stato ebraico. Si chiedeva pertanto ai sopravvissuti di dimenticare quel passato per proiettarsi verso il futuro. Questa condizione di emarginazione politica, sociale e psicologica perdurò fino al 1961, l’anno della cattura e del processo al criminale nazista Adolf Eichmann in Argentina grazie agli agenti del Mossad. L’istruttoria del processo, condotta dal giudice Moshe Landau e dal procuratore Gideon Hausner, volle fortemente la presenza dei sopravvissuti alla Shoah come testimoni viventi delle azioni e operazioni condotte da Eichmann. Grazie a questa modalità essi finalmente poterono avere la possibilità di gridare a tutto il paese la storia della Shoah in Europa, senza più vergognarsi o temere di essere esclusi dalla società. I megafoni collocati ovunque nel paese facevano entrare con forza la Shoah nello Stato e obbligavano in parte gli israeliani a confrontarsi finalmente con l’annientamento dei loro fratelli. Fu un momento di non ritorno per tutto il paese, le sue istituzioni e la società intera.

Appelfeld non era tra quei sopravvissuti della Shoah che temeva di confrontarsi con il passato, lui paventava piuttosto il raffronto con i nuovi figli di Israele, che sembravano distanti da quella storia, ma sperava anche che i suoi libri potessero aiutare a superare quella lontananza tra i genitori e i loro figli. Lui era arrivato a Tel Aviv nel 1946 all’età di 14 anni e insieme a lui altri profughi originari della Romania, della Russia e perfino eall’Etiopia la cui immagine e lingua era la stessa del paese da cui provenivano ma anche dove non sarebbero mai più tornati. Completò gli studi all’università ebraica di Gerusalemme e nonostante la già menzionata etica nazionale del non guardarsi più indietro, Appelfeld iniziò a scrivere brevi racconti che avevano radici nell’esperienza della guerra, scegliendo comunque l’ebraico piuttosto che la lingua madre tedesca. Il suo primo racconto The Skin and the Gown, (La pelle e l’abito) fu pubblicato nel 1971. Successivamente divenne anche professore di letteratura all’università Ben-Gurion del Negev a Beersheba.

La facoltà letteraria nasce anche dai primi anni di vita. Racconta infatti che a casa sua c'erano libri ovunque: sul e sotto il tavolo, sul e sotto il letto. Tutti i tipi di libri. E quando chiedeva al nonno in merito ad un libro, lui rispondeva: «Sai, mi ci vuole molto tempo per osservare tutta la kochmeh (l’essenza) che c'è in questo, in questo libro. I libri richiedono la tua anima».

Nel romanzo Notte dopo notte (Giuntina, 2004) racconta di un pensionato in cui vivono i sopravvissuti venuti dall'Europa che però non si preoccupano dei problemi di assorbimento nella società o delle questioni politiche locali, ma piuttosto della separazione insanabile dal loro luogo di nascita, dai loro genitori e dalla loro lingua materna. Alla pensione, per tutta la notte e il giorno, sentono la solitudine che sale fittamente dalle stanze e che non può essere curata con le medicine ma con i pasti, le serate di poesia yiddish, le vacanze, i docenti occasionali e, soprattutto, ripensare al passato comune che rendono questo posto una sorta di kibbutz di individui isolati dal resto, ma che sono legati l'uno all'altro come radici.

A differenza del kibbutz che, almeno all'inizio, chiedeva ai suoi membri un totale cambiamento, la dissociazione dal passato e l'adozione di inflessibili valori di comunità, nella pensione di Appelfeld, è lo spirito prevalente, è il non-cambiamento, un ritorno al passato e una identificazione con i valori del passato. Il passato è quel sentimento che ritorna, specialmente nei momenti celebrativi, in forma di scene della guerra, nei conti della coscienza in cui ognuno di essi è impigliato, nel senso irreparabile della perdita e del senso di sconfitta. Nella pensione per sopravvissuti alla Shoah deve regnare una totale anarchia visto che l’ordine rappresenta quello inflitto a loro dai nazisti, dai treni che puntualmente dovevano partire per i campi o per altri trasporti, l’orario imposto nel lager scandito dal lavoro, dai pasti umilianti e dalle regolari percosse o vessazioni. La lotta per la lingua materna è, ovviamente, una metafora della lotta interna dei rifugiati per il mondo che è stato distrutto per sempre. Appelfeld sta cercando di documentare il conflitto tra i revisori della lingua ebraica e coloro i quali hanno sofferto per la morte dello yiddish che, come dice il personaggio principale del romanzo, Manfred: «lo yiddish non è una lingua ma un lungo grido che si è solidificato».  Si tratta in parte della terribile constatazione che hanno faticato ad accettare migliaia di sopravvissuti: dopo una guerra così terribile, che aveva cambiato tutto ma anche nulla, era necessario accettare o venire a sapere che tutti erano spariti, per sempre. 

La grandezza letteraria e umana di Appelfeld risiedeva anche nell’analisi intima dei personaggi. I residenti del pensionato speciale si chiedono se avessero potuto sfuggire alla loro infelicità se solo avessero avuto il tempo sufficiente per amare, tutto e tutti. Pertanto visto che il dolore per la perdita dei genitori è immenso, devono almeno cercare di recuperare, riparare e dedicarsi alla preservazione della loro lingua. «Non puoi tornare al luogo o al paese da cui vieni, ma puoi preservare la lingua parlata dai tuoi genitori, raccogliere i libri che leggevano, i loro canti e godere magari le loro melodie. Anche il vecchio rabbino cieco partecipa alla ricerca della pensione e dice: «Spesso dopo la sua preghiera, stai seduto nella tua sedia e piangi, come se solo ora ti rendessi conto di cosa è successo in quegli anni».

L’autore colloca il conflitto tra la proprietaria e i residenti non solo in un ambito culturale, ma soprattutto, in ambito esperienziale tra coloro che hanno vissuto la Shoah e gli altri che non l’hanno neanche sentito. In questo Appelfeld riprende l’assunto di Franz Werfel quando scrive che solo chi è stato nei lager può parlare o scrivere della catastrofe.

In questo contesto, viene in mente anche il primo romanzo di Appelfeld Searing Light (Hakibbutz Hameuchad, 1980) in cui degli adolescenti sopravvissuti traducono il loro assorbimento in Israele in un'istituzione educativa come la continuazione diretta dell'esperienza della prigionia, della deportazione e della paura che hanno attraversato durante la guerra.

Appelfeld visse anche nel Kibbutz insieme ad altri sopravvissuti alla Shoah, che dormivano frequentemente, giocavano a carte e bevevano spesso durante la notte e che lui spiegava e sintetizzava in questo modo: «Ho capito molto bene il loro modo di vivere e del resto come puoi vivere un'altra vita rispetto a questa vita quando vieni dai lager?

Lo scrittore della Shoah in Israele spesso però ha dovuto constatare che sia la società sionista che quella americana tendevano a dimenticare il passato e in entrambe le società gli ebrei si sentivano colpevoli e terrorizzati per quel passato che era cenere, era dolore, era la loro sofferenza ed erano i loro genitori morti. Visto che la Shoah era stata un trauma terribile e spaventoso, si rendeva necessario colmare questa assenza generazionale nella storia ebraica solo grazie ad un tessuto connettivo letterario a cui potersi aggrappare con e per le giovani generazioni.  

 

 A Gerusalemme Aharon Appelfeld incontrava gli amici, i suoi ammiratori e i giornalisti nel suo bar preferito e a molti sembrava un calzolaio dalle mani forti, sicure, gentili e sensibili. In quella zona c’erano stati molti attentati nel periodo della seconda Intifada e lui ne parlava certamente ma sembrava interessasse di più ancora parlare dei Carpazi e delle città dove vivevano gli ebrei, le loro famiglie, le loro storie, la loro lingua yiddish, le tradizioni e i nomi. Prima dell’arrivo improvviso della catastrofe. Aharon Appelfeld ci ha lasciato all’età di 85 anni il giorno 2 gennaio scorso nell’ospedale di a Petah Tikva vicino a Tel Aviv. Nessun altro scrittore forse riuscirà più a collegare, ricongiungere o unire quel tremendo passato con uno più speranzoso futuro.

 

Casella di testo

Citazione:

Antonella Tiburzi, Aharon Appelfeld, il narratore lirico della Shoah, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VII, 1, febbraio 2018

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