Got

"Free Ebrei", VI, 2, luglio 2017

Le parole dello yiddish

di Alessandra Cambatzu

Abstract

Alessandra Cambatzu explains the semantic sphere of God in yiddish language, starting from the origin and the meaning of the word and ending with its popular use.

1. Got

Tu non hai un nome conosciuto,

perché riempi di Te tutti i nomi e ne

costituisci la perfezione: quando ti

allontani da loro, tutti i nomi rimangono

come corpi senz’anima.

(Zohar)

 

 

Got<ata got< germ.*guda probabilmente dall’ie. *ghau-, “chiamare”: il significato, presumibilmente, era quello di “essere evocato, chiamato, attraverso una formula magica”.

Troviamo ne Le origini della cultura europea di G. Semeraro anche un’altra etimologia: “[…] Gott [è] a torto considerato come un participio passato della radice GHAW- col significato di “invocato” e con riferimento all’a.i. hávate ‘chiama’: tale voce got, Gott, è invece relitto della antica base corrispondente al babilonese gattu (immagine: della divinità, forma, figura, ‘figure: referring to gods’, Gestalt: v. Götterbildern); ciò spiega anche perché il germanico guda è ancora in epoca cristiana sinonimo di ‘dio’ cristiano e nell’ant. isl. gud vale idolo. Più che l’influsso di una radice GHAW-, è da richiamare l’azione di una base col significato di ‘protettore, vigile’: accad. hâ’ atu (‘watchful, said of gods and demons’), da accad. hâtu, hâdu (proteggere, darsi cura di, ‘to watch over, to take care of’), incrociatosi con accad. hâdu (essere consenziente, essere ben disposto verso qualcuno, ‘to be pleased, to be well disposed towards’) […]”. L’etimologia fornita da Semeraro è interessante, ma preferiamo fare riferimento alla prima.

Got è un termine che lo yiddisch mutua dal tedesco senza sostanziali modifiche (a parte la scempia finale). Altro termine di chiara derivazione germanica è der eybertscher, “Colui che sta sopra ogni cosa”[1].

Got è sicuramente il nome più utilizzato per la divinità e, stranamente, lo yiddisch accetta il termine “gentile” e ne fa largo uso: nelle preghiere come nei Witze esso è sicuramente quello che gode di maggior fortuna:

… in dem anfang hat got beschafen di himel und di erd […] un got sprach, ess sol licht sein” (da una versione yiddisch della Creazione, Gen. 1,1-3).

 

A kamzn is a mal gegangen in weg. ‘ss is gewesen heyss und der kamzn is gewern mid und hungerik. Nemt er betn dem eyberschtn un sogt: ‘Gotenju [corrisponde all’affettuoso ‘Göttschen], ich bin mid und hungerik. Bascher mir, as ich sol epess gefinen zum essen un derfar wel ich di helft fun dem. Woss ich wel gefines, brengen zu dir far a korbn.

‘ss doiert nischt lang un er gefint ojfn weg a sekele ‘Doss is sicher a sekele gelt sogt zu sich der kamz un bejgt sich ahn un hejbt ess ojf.

As er hot an efn getan doss sekl, set er, dort senen do tejtlen un mandlen. Hot er sich anider gesetz un hot derkwikt mit sej sajn harz. Der noch er genumen die kerlech fun di tajtlen un die scholechz fun di mandlen, hot sej awekgelejgt ojf a schtein, hot er untergezundn un gesogt: ‘Nem on Gotenju, mein korbn. Ich hob mich getejlt mir dir mit dem ojssenwejniksstn fun majn gefjnss’”.

 

“Uno spilorcio era in cammino, faceva caldo e lui era stanco e affamato. Così, cominciò a pregare l’Altissimo. O mio signore, sono stanco e affamato. Concedimi di trovare qualcosa da mangiare e ti darò metà di quello che troverò da mangiare e ti darò metà di quel che troverò, te ne farò dono [lett. “te ne farò offerta”].

Poco dopo trovò, lungo la strada, un sacchetto.

Quando lo aprì, vide che dentro vi erano datteri e mandorle. Si mise a sedere e si ristorò con quelli.

Poi prese i noccioli dei datteri e i gusci delle mandorle, li pose su una pietra, diede loro fuoco e disse ‘Accetta, o mio Signore, la mia offerta. Ho spartito con te esattamente tutto ciò che ho trovato [lett. “ho diviso con te l’esterno e l’interno”][2].

 

Nelle Scritture i termini maggiormente ricorrenti per “Dio” sono El (אל), Elohim (אלהם), il Tetragramma Yhwh (יהוה) e Adonai (אדון). Il Genesi mostra che i Patriarchi conobbero dapprima Dio come El Shaddai (אל שדי) che viene reso come Dio “onnipotente” (omnipotens viene infatti tradotto nella Vulgata). Quando Dio parla a Mosè della promessa di liberazione, dice: “Io sono Jahweh. Io apparvi ad Abramo, ad Isacco, a Giacobbe come El Shaddai, ma mi son fatto conoscere da loro col mio nome di Jahweh” (Esodo 6,3).

Il nome di Dio rivelato a Mosè è dunque Jahweh, nome che, dopo l’esilio, gli Ebrei evitarono di pronunciare. Il testo biblico fornisce solo il Tetragramma Yhwh da collegare con tutta probabilità alla radice del verbo ‘essere’, hjh (יהוה); nel roveto ardente Mosè chiede a Dio del Suo nome, ma Dio risponde: Ehyeh asher ehyeh: approssimativamente, “Io sono colui che sono” (Esodo, 3,14).

Ancora: El (Elohim)  viene inteso nel Genesi come creatore: “In principio Elohim creò il cielo e la terra, / e la terra era deserta e vuota e le tenebre erano sulla superficie dell’abisso e lo spirito di Elohim aleggiava sulla superficie delle acque. / Ed Elohim disse: ‘Sia la luce’ e fu luce… / Ed Elohim disse: ‘Sia un firmamento nel mezzo delle acque e separi le acque dalle acque…’ E così fu (Gen. 1,1-2)”.

 

Al di là di queste diverse denominazioni, è possibile collegare gli appellativi ebraici al got yiddisch? Sì, secondo noi. Il “nome” è l’essenza stessa dell’essere: “[è] l’importanza del Namenglaube di tutte le religioni primitive […] della fede che invade l’area dei nomi di divinità, ma anche di persona e persino di oggetti di uso rituale, grazie alle valenze magiche dell’efficacia evocativa della parola, per cui il simbolo linguistico si traduce in realtà stessa, come le espressioni pittografiche […]. Basta ricordare fra le tante prospettive critiche la formulazione di G. van der Leuw sul nome come manifestazione della potenza: ‘la consistenza della persona, la fissazione della figura dipendono dal nome’. […] E si ricorda, perciò, il nome come oggetto di rivelazione iniziatica ancora presso popoli primitivi come i Wiradjuri (Australia), il divieto di pronunciare il nome dei ghiacciai (Eschimesi della Groenlandia) […] la reazione alla pronuncia dei nomi totemici nelle società in cui essi devono essere segreti.

E si capisce il divieto fra gli Israeliti di pronunziare invano il nome sacro”[3].

 

Notevole esempio di questa forza del nome è il passo in cui Giacobbe lotta con un uomo, che è in realtà un angelo in sembianze umane, chiamato poi Elohim (!): “Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui sono allo spuntare dell’alba. Vedendo che non ce la poteva fare, lo toccò all’estremità del femore, e l’estremità del femore di Giacobbe si slogò mentre lottava con lui. L’uomo gli disse: ‘Lasciami andare che è spuntata l’alba’. E Giacobbe: ‘Non ti lascerò andare finché non mi avrai benedetto’. E l’altro: ‘Come ti chiami?’ Rispose: ‘Giacobbe’. ‘Non Giacobbe sarai chiamato, ma Israele, poiché hai lottato con un essere divino e con uomini e ce l’hai potuta’. Giacobbe gli disse: ‘Dimmi il tuo nome’. E l’altro: ‘A che scopo me lo domandi?’ E là lo benedisse” (Gen. 32,25-30).

Giacobbe quasi sopraffatto dalla potenza di questo Ignoto, gli chiede il nome nella speranza di “svelarne il potere magico, di capirne la natura con la speranza di domarlo, ma l’essere misterioso non gli abbandona la sua essenza”[4].

Il nome di Dio non c’è; se ne possono tentare delle parafrasi, ma il nome di Dio è inconoscibile e inafferrabile per l’uomo: Ehyeh asher ehyeh significa, letteralmente, “sarò quel che sarò”. “Ecco dunque un Nome (e un Dio) che non è né completato né finito. Dio è letteralmente ‘non ancora’”[5].

 

Per questo ci sembra che far risalire got a “ciò che è invocato” sia plausibile oltre che suggestivo. Questa divinità sembra non aver contorni precisi, è inafferrabile e tuttavia ben presente come vedremo negli esempi successivi.

Testo fondamentale della mistica ebraica, frequentemente citato dagli scrittori in lingua yiddisch, lo Zohar (il Libro dello splendore), scritto probabilmente nel tardo Duecento, contiene una sezione dedicata allo En Soph (lett. “senza fine”) ossia al Dio nascosto e infinito, al Nome, insomma.

“Egli afferra tutto e non c’è chi afferri lui. Egli non si chiama col nome YHWH e con gli altri nomi, se non quando la sua luce si diffonde su di loro; mentre quando si allontana da loro, egli a se stante, non ha alcun nome. È profondo, profondissimo; chi lo può trovare?” […] Tutti i suoi nomi sono degli appellativi fissati sulla base delle sue azioni […] appellativi, con cui viene chiamato a causa delle creature che sono nel mondo. È per tale motivo che quando la generazione degli uomini è buona egli è chiamato nei loro confronti YHWH [Nella letteratura rabbinica il Tetragramma divino YHWH sta a indicare Dio nelle sue manifestazioni di pietà e misericordia nei confronti degli uomini. Quando Dio, invece, “siede sul trono della giustizia” e giudica inflessibilmente le sue creature prende il nome di ADONAY (Signore)] con l’attributo della misericordia; mentre quando la generazione degli uomini è malvagia, egli è chiamato ADNY, con l’attributo della giustizia. Ma non si deve intendere che egli abbia un attributo né un nome conosciuto […].

In quei nomi [EL, ELOHIM, ecc.] il Signore del mondo si diffonde; in essi scorre; in essi viene appellato, in essi si cela; in essi si insedia come l’anima nelle membra di un corpo. E come il Signore dei mondi non ha un nome conosciuto, né una collocazione conosciuta, ma il suo potere è in ogni lato, e non c’è parte del corpo che ne sia priva. [Così accade al] Signore del mondo, che non può essere attribuito a un luogo conosciuto, né essere chiamato con nomi. Quando egli era unico, prima che creasse il mondo, perché avrebbe dovuto essere chiamato con quei nomi o con altri appellativi, come per esempio: “pietoso, misericordioso e longanime, ecc.”, giudice, forte, potente e molti altri attributi del genere? Con tutti quei nomi e quegli appellativi egli è chiamato a causa dei mondi e delle creature che sono in essi, per mostrare il suo dominio su di essi”[6].

La ricerca di questo inafferrabile Deus absconditus è operata, come sappiamo sulla scorta della Bibbia, ma è un’operazione che non ha mai fine e che può risultare frustrante e dolorosa. Anche chi ha fede, una fede che sembra incrollabile, può arrivare a dubitare: si arriva così all’altro, basilare, elemento costitutivo del got yiddisch che è il Libro di Giobbe.

Vessato dalle piaghe e dalle disgrazie che Dio gli ha inviato per saggiarne la fede, Giacobbe cede e Gli rivolge un grido d’accusa la cui potenza annulla, quasi, gli effetti di quei benefici che Dio gli concede a risarcimento delle sofferenze patite.

“Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno.

Incominciò a dire: ‘Perisca il giorno in cui sono nato e la notte in cui si disse: Fu partorito da un uomo’ […].

Or non è una malizia la vita dell’uomo sulla terra e i suoi giorni come quelli del mercenario? Come schiavo sospira l’ombra; come mercenario aspetta la mercede, così io ho ricevuto in retaggio mesi calamitosi e mi sono state consegnate notti d’angoscia. Se mi corico penso a quando mi alzerò […].

Anche se ho peccato, che cosa Ti ho fatto di male, o Tu conservatore dell’uomo? Perché mi poni a tuo bersaglio, in modo che sono di peso a me stesso? […] Quanti peccati e trascorsi ho commesso? I miei falli e le mie colpe fammi conoscere. Perché occulti a me la Tua faccia e mi consideri un Tuo nemico? […]

Con la Sua ira mi ha lacerato, mi ha in odio, digrigna i denti […]”.

Nei due esempi successivi tratti dai Racconti di Singer, abbiamo una esemplificazione del rapporto tra l’uomo e il suo got; se è vero che aver fede, e qui si tratta di due rabbini, significa sopportare, c’è tuttavia un limite anche a questa sopportazione. Si arriva, in altre parole, a un punto di non ritorno che porta fino alla blasfema, ma umanamente comprensibile, affermazione di Reb Bainish: “In principio era lo sterco”, disperata contraffazione di Genesi 1,1.

 

“Il Rebbe […] disse: ‘Va male, Abraham Mosche […]. Hanno ragione gli atei, Abraham Mosche. Non c’è giustizia e non c’è Giudice”.

[…]

Reb Abraham Mosche impallidì e si sentì tremare le ginocchia.

“E allora chi regge il mondo, Rabbi?”

“Nessuno”.

“Come, nessuno?”

“Sono tutte fandonie!”

“Andiamo…”

“Un mucchio di sterco…”

“Da dove viene questo sterco?”

“In principio c’era lo sterco”.

Reb Abraham Mosche rimase di sasso. Tentò di rispondere, ma le obiezioni gli rimasero in gola. È il dolore che lo fa parlare, pensò, ma si stupì ugualmente: se lo aveva sopportato Giobbe, doveva sopportarlo anche il Rebbe.

“E allora cosa dovremmo fare, Rabbi?” chiese con voce rotta.

“Adorare gli idoli”.

[…]

Il Rebbe si diresse verso la libreria […] e ne trasse una copia dello Zohar, l’aprì a caso, fissò la pagina e poi esclamò schioccando le labbra: “Che bella trovata!”[7]

I cosacchi infilzavano i bambini come le lance e li seppellivano vivi, uno haidamak [membro di bande paramilitari che sconvolsero la Polonia ucraina nel secolo XVIII] con lunghi baffi e occhi da assassino squarciava il ventre di una donna e vi cuciva dentro un gatto. In sogno il Rebbe mostrava i pugni al cielo e gridava: "Tutto questo è per la Tua gloria, assassino celeste?”

[…] Durante le lunghe giornate estive il Rebbe ebbe il tempo di riflettere. Tutti i problemi si riassumevano in uno solo: perché esiste il dolore? A questa domanda non si trovava risposta né al Pentateuco né nei libri dei profeti, né nel Talmud, né nello Zohar, e nemmeno nell’Albero della vita. Se il Signore è onnipotente, può rivelarsi senza l’aiuto delle schiere del male. E se non è onnipotente, non è un vero Dio. L’unica soluzione al rompicapo era quella data dagli eretici: non c’è giudice né giudizio […].

Il Rebbe fece una smorfia come di dolore. Strinse il pugno e rivolgendosi a Dio disse: “Vuoi nascondere la Tua faccia? E sia. Tu nascondi la Tua faccia e io nasconderò la mia […].

Si ricordò del montone con le corna impigliate nel roveto che Abramo aveva sacrificato al posto di Isacco, e pensò che Dio aveva sempre bisogno di olocausti: il sangue delle Sue creature aveva per lui un odore soave. […]

“Se Lui non ha bisogno degli ebrei, gli ebrei non hanno bisogno di Lui”. […] Adesso il Rebbe era d’accordo con tutti gli eretici possibili e immaginabili. […] “Sì”, diceva, “ho conosciuto il Signore e intendo mettermi contro di Lui”.

[…]

Leggeva libri in ebraico e in yiddisch, e provò a leggerne anche qualcuno in tedesco. Nella biblioteca trovò il volume che aveva visto la prima volta bella vetrina della libreria, La nascita dell’universo. “Già, come è stato creato l’universo se non c’era un creatore?”, si chiese […].

Chi era quella natura? Doveva aveva preso tanta abilità e tanto potere? Si curava anche della stella più remota, di un sasso in fondo all’oceano, del più piccolo granello di polvere, del cibo nello stomaco di una mosca.

[…] Quando leggeva vedeva apparire macchie verdi e dorate davanti agli occhi mentre le righe si confondevano, divergevano, s’inclinavano e si accavallavano. “Sto diventando cieco? È la fine? I demoni si sono già impossessati di me? No, Padre dell’Universo, non reciterò la confessione. Sono pronto ad affrontare tutte le Geenne, e se Tu puoi tacere per l’eternità, io tacerò almeno fino a quando renderò l’anima. Tu non sei l’unico guerriero”, disse il Rebbe all’Onnipotente. “Se sono figlio Tuo, posso battermi anch’io”[8].

 

In Gioia il protagonista, Rabbi Bainish, sopraffatto dal dolore per la perdita dei figli si allontana da Dio e lo stesso accade al Reb Nechemia di Qualcosa c’è. In quest’ultimo caso, però, le cause scatenanti non sono state le disgrazie familiari, ma il rifiuto di una condizione di dolore perenne, imposta all’uomo da una divinità ostile o comunque lontana.

Ambedue i personaggi citano o si rifanno allo Zohar e il loro rifiuto di una sofferenza senza significato richiama molto da vicino le lamentazioni di Giobbe; e, veramente, ci sembra che il got oscilli tra questi due poli, Zohar\Giobbe, e che non si possa prescindere, per la sua comprensione, dal sostrato religioso ebraico.

Da una parte la venerazione più grande e la percezione della propria inanità di fronte ad un Ente così potente, o meglio onnipotente; dall’altra una vicinanza, un’intimità così grande da portare ad un colloquio talmente familiare da rasentare l’impudenza e arrivare alla ribellione. Non sfuggirà, tra l’altro, che mentre in Gioia il protagonista non rivolge più la parola a Dio, Reb Nechemia, invece, prosegue il “dialogo” con Lui: Lo sfida, Lo provoca, ma fondamentalmente non lo nega. Questa familiarità è molto yiddisch: venerazione e dileggio, amore e rifiuto sono una costante nel rapporto tra la yiddischkeit e Dio.

 

“Dajn maze, got, vos du voynst azoy hoykh, anit volt men dir ale shoybn oysgehakt” (Buon per Te, Signore, che tu abiti così in alto, altrimenti i vetri delle tue finestre sarebbero già stati rotti da un pezzo!).

 

Note

[1] Questo sostantivo di cui in tedesco moderno non v’è più traccia, è ricollegabile al superlativo oberst. Se volessimo trovare un corrispondente all’eyberschter nel tedesco moderno, questo potrebbe essere der Allerhöchste ‘l’Altissimo’.

[2] Un Witz intitolato Un pio spilorcio è contenuto in Landmann, 1979.

[3] Semeraro, 1984.

[4]  Semeraro, 1984.

[5] Kushner, Il Libro delle parole ebraiche, 1993.

[6] Zohar, 2000.

[7] Singer, Gioia, 1988.

[8] Singer, Qualcosa c’è, 1988.

Casella di testo

Citazione:

Alessandra Cambatzu, Le parole dello yiddish, II: Got, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", VI, 2, luglio 2017

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