Il nuovo libro di Giuseppe Veltri si presenta programmaticamente come uno
“specchio” (o forse un congegno di specchi multipli) per riflettere il mondo di
scritture e interpretazioni del giudaismo antico – un mondo che è a sua volta specchio,
in quanto “riflette” la realtà degli ebrei e i loro testi fondativi (va da sé
che questo mirroring produca riflessi
continui e plurali, talvolta con effetti distorsivi e manipolativi: p. 2). La
metafora si adatta bene in effetti all’ermeneutica rabbinica quanto alla
postura del libro. Quest’ultimo consiste in una raccolta di saggi, quasi tutti
già pubblicati in luoghi disparati, che vengono qui sistemati in quattro
sezioni, più o meno coese. La prima comprende un saggio sul rapporto fra
studenti e maestri nel mondo rabbinico, e uno sulla figura di Ezra e il
concetto di “riforma” nella storia dell’ebraismo. La seconda parte è dedicata a
un’analisi circostanziata del modo in cui la religione romana viene
“rispecchiata” nelle fonti giudaiche. La terza sezione raccoglie una serie di
ricerche sulla magia nel mondo ebraico. La quarta parte propone saggi diversificati
sul modo in cui i rabbini trattano del linguaggio, danno forma ai testi, si
riferiscono alle traduzioni della Bibbia in greco (a mo’ di conclusione compare
un lavoro inedito sul Cantico dei cantici e sull’eros nella tradizione
ebraica).
L’aspetto prismatico e apparentemente dispersivo dell’opera è compensato
dalla capacità dell’autore di muoversi con sapienza fra ambiti differenti
quanto intrecciati, nonché di ‘saltare’ con disinvoltura nei secoli (o meglio, nei
millenni) della storia ebraica (e non solo ebraica), facendo così interagire per
esempio la riforma di Ezra con quella di Lutero, oppure un motivo della magia
pagana antica con i suoi riflessi in fonti giudaiche o cristiane di epoche
diverse. È quello che possono permettersi solo certi maestri, che sanno partire
dal dettaglio minimale (una certa parola, una certa pratica) per aprire panorami
ampi e scorci di lungo periodo, passando con spregiudicatezza da un contesto
linguistico a uno apparentemente lontano, oppure alternando l’indagine tematica
all’analisi formale e filologica alla messa a punto bibliografica.
Alcuni punti fermi in ambito metodologico emergono in modo chiaro e
ricorrente nell’opera. Su di essi vorrei fermarmi in questa breve, e
necessariamente parziale, discussione del libro. In apertura della seconda
sezione, Veltri lamenta la scarsa attenzione degli studiosi alla presenza della
cultura romana nelle fonti rabbiniche, elenca le cause di fondo di questa
mancanza, e individua quella principale “nella generale mancanza di interesse
nei realia della letteratura
rabbinica” (p. 45). A parte gli studi pionieristici della Wissenschaft des Judentums, di cui si auspica spesso una
rivalutazione, e qualche progetto recente, il mondo accademico avrebbe mostrato
un interesse del tutto insufficiente per la vita quotidiana degli ebrei – fatta
di usanze e pratiche prima che di teorie e dottrine, e di usanze e pratiche in
relazione dinamica con l’ambiente socio-culturale circostante. Veltri intende
far luce proprio su queste interazioni quotidiane, così come sono espresse nei
testi o rivelate da piccole spie linguistiche. L’attenzione è dunque
focalizzata su scambi, trasferimenti e prestiti culturali più o meno evidenti, nonché
sulle tensioni e dinamiche che essi portavano con sé, sia con l’esterno sia all’interno
delle comunità ebraiche.
In questo orizzonte metodologico, viene esaminata nel dettaglio la rappresentazione
giudaica della religione romana, ovvero il modo in cui costumi e rituali degli
occupanti greco-romani vennero riflessi nella vita e nei testi degli ebrei di
Palestina, alla periferia dell’Impero. L’assunto di fondo è che certe feste (in
particolare calendae e saturnalia), certe abitudini (la cultura
del bagno, gli spettacoli teatrali), certe pratiche (come quelle in cui si
mescolavano medicina e magia), ebbero una profonda penetrazione nella
popolazione ebraica. La letteratura rabbinica, in particolare quella halakhica,
tentò ovviamente di limitare questo influsso, sottolineando la valenza magica, pericolosa
e a volte idolatrica di quei costumi. Ma si trattava di una strategia normativa
di fronte a fenomeni in atto, e di una strategia che spesso – pragmaticamente –
concedeva forme di contatto con la cultura altra, arrivando persino
all’assorbimento di feste pagane nel calendario ebraico. Il confronto fra le
culture, si ribadisce spesso, non avviene primariamente sul piano intellettuale
e teologico, quanto in ambiti più ordinari ed esistenziali, che mettono in moto
dinamiche di assimilazione (o di trasformazione adattiva), e – di conseguenza –
rendono necessari criteri di differenziazione sul piano normativo.
Un’importante presa di posizione metodologica segna anche l’inizio della
terza parte. Veltri contesta qui la nozione comune che non vi sia nel giudaismo
rabbinico interesse per le scienze o per forme di sapere estranee alla
religione ebraica – un pregiudizio che deriva dalla concentrazione esclusiva
degli studiosi sulla storia delle idee e dalla poca attitudine a decifrare aree
più ampie, come quelle delle conoscenze empiriche, del folclore, ecc. (pp.
99-101). In questi ambiti, al contrario, si può riscontrare un atteggiamento
almeno in parte positivo, e di certo pragmatico, degli ebrei del Mediterraneo rispetto
al mondo della sapienza greca – in particolare alla cultura materiale
concernente ad esempio le piante e gli animali, il corpo umano e i rimedi alle
malattie, gli astri e la loro potenza. Peraltro, questo intenso cultural exchange nato dall’interazione
quotidiana sembra permeare tutti gli strati della società ebraica (l’autore
denuncia giustamente l’insostenibilità della classica dicotomia fra un’elite
rabbinica rigidamente chiusa nel suo monoteismo anti-magico, e il resto del
mondo ebraico, pronto ad assorbire idee e pratiche del mondo pagano).
Un’analisi minuziosa è riservata qui ai “costumi degli Amorrei”, una
categoria mediante la quale i rabbini si confrontavano con usanze straniere di
ogni tipo, in ambito medico, magico, agricolo, astrologico, ecc., spesso simili
a quelle riportate in fonti greche o latine. L’aspetto più notevole è che essi
ne giudicavano la validità sulla base di un criterio empirico di efficacia –
“tutto ciò che porta alla cura non appartiene alle vie degli Amorrei” (Talmud Yerushalmi, Shabbat 6:10) –, un criterio che pare diventare preminente rispetto
al dettato biblico e agli anatemi tradizionali contro fisici e astrologi di
culture altre. In questa sezione è possibile trovare ricerche sul termine
“mago” nella letteratura rabbinica, su una formula magica che compare in fondo
a un manoscritto talmudico (forse volta a preservarne l’esistenza in un’epoca
di nubifragi), su elementi magici legati all’ansia delle donne per il parto (con
paralleli in ambito greco-romano, ebraico e cristiano). Di particolare
interesse risulta la discussione critica del libro di Ariel Toaff, Pasque di sangue, che tanto clamore
suscitò alla sua uscita nel 2007. Le obiezioni primarie qui avanzate sono di
ordine metodologico: Toaff avrebbe fondato la sua tesi – l’esistenza reale di
ebrei ashkenaziti fondamentalisti capaci di uccidere bambini cristiani per
prelevarne il sangue – prendendo inopinatamente sul serio le fonti
dell’Inquisizione e fraintendendo termini e natura di certe formulazioni
magiche.
Gli studi eterogenei raccolti nell’ultima parte – dedicati ai temi del
linguaggio, della canonizzazione, della traduzione – contengono anch’essi un
punto metodologico di rilievo. Si tratta di prendere atto della “fluidità” dei
testi della tradizione manoscritta ebraica e delle conseguenze che ne derivano
su piani molteplici, in particolare rispetto alla teoria linguistica e alla
pratica editoriale. In relazione a quest’ultima, Veltri sottolinea come ogni
edizione di un testo si ponga come un atto di fissazione, legato inevitabilmente
a un tempo, a un’autorità e a una determinata interpretazione. Mentre certi
maestri del giudaismo rabbinico sembrano consapevoli di tale situazione, il
mondo accademico moderno si è a lungo sforzato di ricostruire il “testo
originale”. L’attuale riconoscimento dello stato fluido e plurale della
testualità ebraica impone scelte editoriali diverse, e ancora in fase di
elaborazione, come dimostra bene Veltri stesso nel capitolo 13 in discussione
con P. Schaefer (sarebbe ora interessante su questo punto un confronto con il recente
volume di D. Abrams, Kabbalistic
Manuscripts and Textual Theory, 2010).