Carlotta Ferrara degli Uberti, Fare gli ebrei italiani

"Free Ebrei", I, 2, luglio 2012

Carlotta Ferrara degli Uberti, Fare gli ebrei italiani. Autorappresentazione di una minoranza (1861-1918), Bologna, Il Mulino, 2011, 272 pp., € 25

di Vincenzo Pinto

Abstract

Carlotta Ferrara degli Uberti's essays attempts to analyze the making of contemporary Jewish auto-representation during Italian Kingdom through the most important Jewish newspapers and magazines.

Ci troviamo di fronte a un libro decisamente "attuale": affronta un tema che solo oggi avrebbe potuto essere affrontato in questi termini; esce in occasione del centocinquantenario dell'unità d'Italia; l'autrice non fa parte dell'establishment accademico. Carlotta Ferrara degli Uberti, giovane storica romana dall'identità plurale (come specifica nella sua premessa), fornisce uno spaccato completo non di una vita oppure di un gruppo ma di un processo culturale. Negli ultimi anni, ormai tramontate le storiografie impegnate e volutamente faziose (per quanto sopravvivano qua e là gli istituti preposti alla conservazione e alla promozione della memoria), si è assistito a una serie di tentativi di studiare la formazione della coscienza nazionale a partire dall'immaginario di un gruppo etnico o religioso. Si è parlato di nation-building, di imagined community o di linguistic turn. Nel caso specifico, però, le difficoltà sono dettate da tre peculiarità: la comunità ebraica italiana era una minoranza; tale minoranza poteva "costruirsi" una nazione "limitata"; il periodo di riferimento (l'Italia liberale) giocava indubbiamente a svantaggio di qualsiasi costruzione comunitaria per la profonda vena laicistica. L'A., che si ispira ai lavori di Alberto M. Banti sulla costruzione della simbologia nazionale italiana, analizza questo processo dinamico attraverso lo sforzo culturale, identitario e pedagogico compiuto dall'ebraismo istituzionale (p. 13).

Il saggio si presenta quindi come una storia culturale del processo di "italianizzazione" degli ebrei attraverso la stampa ebraica dei primi cinquant'anni di vita dello Stato unitario. Le principali novità consistono nell'aver assunto un punto di vista tradizionale (come quello istituzionale) utilizzando fonti pubblicistiche a carattere prevalentemente pedagogico e formativo (come i giornali). Non sono dunque le scelte individuali a interessare la giovane storica romana, ma l'elaborazione e la formazione di una identità ebraica italiana a partire dall'immaginario collettivo e dall'elaborazione di quella che lo storico americano David Sorkin ha definito "sub-cultura". Le principali conclusioni a chi giunge l'A. sono la scarsa rilevanza di vecchie dicotomie interpretative, come la netta cesura tra pubblico e privato e la profonda integrazione culturale della minoranza ebraica italiana. Il lavoro è suddiviso in due parti: accanto a un capitolo introduttivo, si analizza l'autorappresentazione della sfera privata e quella della sfera pubblica.

Il capitolo introduttivo (L'ebreo del passato e l'ebreo del presente) si concentra sulle sfide identitarie assunte dal giornalismo ebraico all'indomani dell'"èra novella": la costruzione di un'ebreo italiano operata dalle élite culturali e politiche ebraiche italiane. Il processo è avvenuto attraverso i testi di due testate ebraiche italiane: "L'Educatore Israelita" di Vercelli (1853, poi "Il Vessillo Israelitico" dal 1874 al 1922) e "Il Corriere Israelitico" di Trieste (1859-1916). La condizione sociale ed esistenziale dell'ebreo di metà Ottocento è data dalla conciliazione tra la nuova condizione di cittadino e l'appartenenza religiosa, che avviene attraverso la nuova dizione religiosa di "israelita": la vita spirituale appartiene alla dimensione privata, mentre quella terrena alla dimensione pubblica.

La prima parte del saggio (Intimità. Riti e discipline dell'appartenenza) ricostruisce la dimensione privata dell'"israelita" italiano attraverso la famiglia e la religione. L'A. si sofferma innanzitutto sul modello matrimoniale che emerge dalle pagine delle riviste, in particolare sul ruolo della donna nella trasmissione della genia ebraica e sul problema dell'esogamia matrimoniale. L'uso di una terminologia "positivistica" e di una retorica "razziale" si sovrappone alle preoccupazioni religiose: i rabbini cercano di salvaguardare la "purezza" etnico-religiosa ricorrendo a sermoni oppure a opere letterarie dall'intento pedagogico. Il matrimonio è visto che un accordo necessario e responsabile che esula da qualsiasi discorso amoroso. La genia dei matrimoni misti è rappresentata priva di fibra morale, deforme e degenerata. La donna rappresenta sia la salvatrice dell'ebraicità, sia l'anello debole dell'emancipazione, come traspare ne I Moncalvo di Castenuovo (1908) e Israele di Colonna (1915). Questo spiega la rilevanza assunta dall'educazione femminile e dal ruolo religioso della donna lungo tutto l'Ottocento.

Il tentativo di tradurre e reinterpretare in un linguaggio e un simbolismo moderni vale anche per la dimensione religiosa. L'A. parte dal problema della circoncisione e dal suo significato simbolico e culturale. Da parte vi era l'immaginario collettivo che la riteneva un "marchio" della diversità ebraica. Dall'altra vi era l'esigenza istituzionale di affrontare i dilemmi dei figli dai matrimoni misti o da ebrei incirconcisi. Il tema della circoncisione si lega al dibatitto medico e sessuologico sulla sua rilevanza ai fini igienici e riproduttivi, che fu ampiamente pubblicizzato e dibattutto sulla stampa ebraica. Anche in questo caso, come in precedenza, si evidenzia la partecipazione della sfera privata ebraica ai dibattiti culturali e scientifici europei dell'epoca (per esempio, il tema della continenza sessuale o della "virilità" ebraica) e l'inapplicabilità di una sua riduzione alla sfera religiosa.

La seconda parte del volume si sposta sulla sfera pubblica. L'A. inizia dal dibattito tra religione e Stato in età liberale, in particolare dal contesto normativo. I settant'anni intercorsi tra la proclamazione del Regno d'Italia e la promulgazione della "legge Falco", che sancì la costituzione dell'Unione delle Comunità Israelitiche Italiane (1931), vedono un dibattito acceso tra le diverse comunità e i loro differenti statuti giuridici. Al centro dell'attenzione vi sono l'appartenenza o meno di un "israelita" alla propria comunità di riferimento (vedi la contribuzione coatta o volontaria) e il tema giuridico del matrimonio (vedi il divorzio, la proibizione del matrimonio tra consanguinei, l'istituzione del matrimonio civile). Le comunità – chiosa l'A. - si dimostrarono liberali nei confronti dello Stato, autoritari verso i singoli "israeliti".

Il quinto e ultimo capitolo (Identità plurali nell'epoca dei nazionalismi) sposta il proprio interesse verso la partecipazione attività degli "israeliti" alla vita nazionale italiana. Tale partecipazione si estrinseca innanzitutto nella coscrizione obbligatoria e nella vita militare, che si scontra con l'esistenza di stereotipi ben precisi (l'ebreo "effemminato" di weiningeriana memoria). Le élite culturali dell'ebraismo italiano ed europei cercano di definire una "via ebraica" all'onore, all'eroismo e al patriottismo (p. 187). Questa via attinge dagli antichi eroi Maccabei e Asmonei, ma anche a martiri come Cristo o come gli antichi perseguitati (il rabbi Akibà). Tale dibattito si affianca alle polemiche intorno al sionismo e alle sue possibili conseguenze sull'ebraismo italiano. La Prima guerra mondiale esaspera le dinamiche precedenti: da una parte la celebrazione del valore delgi antichi ebrei, dall'altra una più larga accettazione della simbologia cristiana. Nel primo dopoguerra, la dimensione privata torna a prevalere su quella pubblica, mentre il sionismo, pur avendo il monopolio della stampa ebraica italiana, resta un fenomeno minoritario.

L'adesione al fascismo da parte di molti ebrei può essere considerata come la possibilità di celebrare la patria e la propria appartenenza in continuità col Risorgimento. Le schermaglie fra "Israel" (successore del "Corriere") e "La Nostra Bandiera" negli anni Trenta sono decisamente più drammatiche e virulenti rispetto a quelle ottocentesche. La compresenza di linguaggi dell'integrazione e dell'alterità si scontra con un linguaggio della nazione sempre più esclusivistico. Il ritorno di riferimenti legati ai legami di "sangue" delle diverse famiglie che compongono all'umanità, rielaborato con un linguaggio moderno, non è – conclude l'A. - pienamente comprensibile "con i soli strumenti della storia" (p. 257).

Come abbiamo detto, il saggio di Carlotta Ferrara degli Uberti colma due lacune evidenti nella storiografia sugli ebrei italiani: quella di un lavoro sulla stampa ebraica (unico vero veicolo capace di spiegare la diffusione delle idee e la politica culturale delle élite) e quella di una prospettiva più distaccata sul tema dell'identità ebraica (lasciata in mano agli scribi più o meno investiti dall'establishment politico di turno). La visione "martirologica" dell'ebraismo italiano novecentesco abbozzata dai lavori di Michele Sarfatti (assai cristianizzante) oppure quella "parentetica" proposta alcuni decenni fa da Renzo De Felice (assai deresponsabilizzante) devono necessariamente fare i conti con una nuova generazione di studiosi meno attenti a difendere visioni ecumeniche del passato oppure ad anteporre sempre e comunque il primato della "politica" ufficiale sulla realtà dei fatti.

Detto questo, il lavoro della storica romana ci sembra a volte troppo incline a giustificare il proprio approccio metodologico piuttosto che a fornire le proprie attente e puntuali considerazioni su alcuni problemi. Siamo passati da storici novecenteschi quasi per nulla interessati a spiegare il proprio metodo (trincerandosi dietro un astratto e discutibile "primato dei documenti") a giovani studiosi troppo attenti a giustificare la propria "ragion d'essere". E' sempre difficile condurre un lavoro di storia della simbologia culturale quando siamo di fronte a periodi così lunghi, a riviste così complesse e al problema di tirare le fila di un problema storiografico senza ingabbiarne i protagonisti. A tutto questo si aggiunga il sempiterno problema dell'acculturazione di una minoranza, dove la diversità viene percepita a volte come un inutile fardello, a volte come un segno della propria individualità. Per tutti questi motivi, il tema dell'identità ebraica resta uno dei più affascinanti filoni della storia culturale contemporanea. Della giovane storica romana è il merito di aver gettato le basi per futuri lavori su questo tema.

Casella di testo

Citazione:

Carlotta Ferrara degli Uberti, Fare gli ebrei italiani (recensione di Vincenzo Pinto), "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica contemporanea", I, 2, luglio 2012

url: http://www.freeebrei.com/anno-i-2-luglio-dicembre-2012/carlotta-ferrara-degli-uberti-fare-gli-ebrei-italiani